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L’uso fecondo del limite

 

Virgo tunnel di 3 km

CONVEGNO SFI “I LIMITI DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA” FIRENZE, OTTOBRE 2019


L’uso fecondo del limite

Epistemologia, ecologia, filosofia

Elena Gagliasso

 

1. Un altro significato del limite?

La domanda sui “limiti da porre alla conoscenza scientifica” è un mantra che attraversa tutto il Novecento. Volta a volta la scienza è stata additata come “disumanizzante” oppure come Moloch gravido di danni a venire e responsabile di tragedie del passato. Vale la pena di riprendere in considerazione questa domanda ricorrente e metterla al lavoro con ragionamenti che trattano proprio il “senso e gli usi del limite” cambiandone valori e disvalori. E ciò almeno in tre casi significativi.

Nel primo caso, la trasformazione riguarda un suo rovesciamento in positivo: siamo capaci di interrogare, governare, nonché assorbire anche a livello di società civile, i preziosi limiti intrinseci al metodo scientifico, ovvero quelle delimitazioni procedurali che il mondo della ricerca, fin dalla sua nascita nell’età classica, si è autoprescritte? In particolare il suo dovere di convivere con l’incertezza e la necessità di riferirsi a una comunità di pari da ascoltare e con cui dibattere. Intendo quella sorta di “mente estesa”, dialogica, mai del tutto concorde del “collettivo scientifico” di cui già nel 1935 parlava Fleck (Fleck, 1983), che riesce ad avanzare attraverso l’uso oculato dello scetticismo sistematico. Ma integrandovi dell’altro, perché nella attuale fase “post-accademica” della ricerca entrano in gioco scelte ulteriori, più o meno reciprocamente delimitanti, ma implicate nella costruzione di una società democratica della conoscenza (Rufo, 2019). Sono delimitazioni costituite dalle nuove modalità di produzione della conoscenza compartecipata, la cosiddetta “cittadinanza scientifica” (citizen science) e, di converso, sono esposte a pressioni imposte dalla grande finanza. Il mondo della ricerca non può più non prender posizione tra certe piuttosto che altre delimitazioni che provengono da differenti gruppi di interesse. Come giocheranno le proporzioni delle reciproche delimitazioni tra queste forze?

Nel secondo caso: siamo capaci di registrare e usare proficuamente l'indicazione di porre dei limiti alle alterazioni ecosistemiche da parte delle scienze che indagano sul danneggiamento antropico degli ecosistemi? L’ecologia, la climatologia, l’epidemiologia, la virologia, la glaciologia, l’idrogeologia, la meteorologia, in tutti questi campi la ricerca non spiega e documenta solo come in passato, nei casi più urgenti prende coraggiosamente posizione grazie agli scenari di cui dispone, e va oltre ai meri fatti, entra sulle politiche e sui valori [1]. Distingue all'interno del generico “impatto antropico” i soggetti economico-produttivi di precise aree del mondo, Paesi più responsabili di altri nel produrre effetti di danneggiamento sistemico. La ricerca, vorrei dire, “pressa” o “implora” i poteri transnazionali al rispetto di quegli invalicabili “limiti dello sviluppo” energetico, demografico, inquinante, che già erano stati indicati nel 1972, nella prima versione del lavoro del Club di Roma, I limiti dello sviluppo (Meadows et al, 1972). Limiti nello sfruttamento delle risorse non rinnovabili, limiti nell'immissione dell'atmosfera dei gas serra e CO2, limiti delle immissioni di sostanze di sintesi chimiche (dai pesticidi alle plastiche), limiti agli sversamenti di sostanze tossiche nei fiumi, nei mari, nelle falde freatiche e limiti all'incremento demografico.
Diverse discipline registrano, quantificano, modellizzano prospezioni future, profilando nei loro grafici scenari planetari divergenti a seconda dell'accoglienza o meno di tali limiti (Pasini, 2020). Sono limiti quantificabili che si esprimono in precisi algoritmi. Producono quei valori soglia, oltrepassati i quali non è più garantita – come già è limpidamente sotto gli occhi delle ultime generazioni – la sopravvivenza di molte specie del mondo vivente, mentre ne viene sconvolta la nostra.

Nel terzo caso, se con filosofia vogliamo intendere anche il ragionare concreto su noi stessi, dobbiamo chiederci se riesce la filosofia, interagendo fruttuosamente con quanto le scienze naturali vanno scoprendo della nostra storia evolutiva, dei nostri sistemi mente-corpo che si co-determinano a vicenda, delle nostre interconnessioni genetiche ed epigenetiche, a rimodulare e delimitare l’onnipervasività delle metafisiche astratte? Non certo con un’intenzione censoria dell’interrogazione filosofica intesa in senso lato. Infatti non diversamente da quando la filosofia medioevale discettava con una sua profondità di pensiero e coerenza interna del sesso degli angeli, la filosofia potrà sempre interessarsi a suo piacimento dell’Assoluto, di quell’universalizzazione del prodotto eurocentrico che tratta l’idea di “Uomo”, neutro e disincarnato, protagonista astratto che si sostituisce come pensiero cogitante all’intera variegata comunità degli umani.

La proposta di una “limitazione filosofica” è piuttosto una scelta di coerenza. Si tratta di innervare la teoretica, l’etica, la filosofia politica stessa, senza più poter ignorare ciò che si va conoscendo in merito alle basi concrete della nostra effettiva condizione umana, anche come specie. Producendo da questa posizione una diversa fecondità “vincolante” per la riflessione su un ampio arco di problematiche che vanno a modificare l'attitudine stessa del far filosofia.
I tre punti ricordati fin qui hanno un tratto in comune: il fatto che non si parla in nessuno di questi casi di un'imposizione in senso privativo del limite, quanto piuttosto della sua azione di direzionalità vincolante.

È ben questa l’utile accezione di “limite” che permette di tracciare una netta distinzione tra il determinismo scientista e il vincolo materiale storico-evolutivo, offrendo nuovi percorsi al pensiero (Gagliasso, 2016). Com’è proprio di ogni vincolo, da quello giuridico a quello materiale, nella pratica ciò che letteralmente si “stringe in un nodo” è il prodotto di scenari plurimi che si sono incrociati e fissati nel passato. Tali vincoli agiscono aprendo, in seconda battuta, ventagli di possibilità, aperture canalizzate per il futuro, e il principio delimitativo e vincolante delle potenzialità agisce secondo questa prospettiva come disposizione euristica e feconda. Attiva pratiche che canalizzano le possibilità di ricerca:

a) dal punto di vista epistemico, dopo aver disegnato, attraverso delimitazioni formali il proprio metodo, la scienza si arricchisce con delimitazioni ulteriori grazie all’incontro tra scienza e società.

b) Dal punto di vista operativo, l’acquisizione dei dati della ricerca li fa agire come forza limitante dell’impatto antropico e come indicatori di nuove pratiche per esplorare possibilità di produzione diverse, economie meno feroci. Si tratta di limitazioni d’impatto compatibili con i limiti di sopravvivenza della biosfera.
c) Dal punto di vista filosofico, è proposta una teoresi sulla condizione umana radicata anche nei sui limiti biologici, agli antipodi della libertà indifferenziata del questionare filosofico ereditato dalla tradizione classica sull’assoluto “privo di vincoli” (letteralmente: “ab-solutum”).

2. Limiti epistemologici

Nel primo caso, epistemologico, un preciso limite suggerisce uno stile di pensiero e di procedure sperimentali che la ricerca si è data fin dalle sue origini nel moderno. Ne deriva di conseguenza una necessaria demarcazione con altre forme di saperi e pratiche dotate di espressioni e azioni più “libere”, come la soggettività artistica, oppure, al contrario, con mitopoiesi ben più dotate di certezze apriori, come le religioni. Sono le note regole del metodo che, a partire da una serie di criteri fondativi concordati tra i ricercatori, si arricchiscono, si articolano successivamente nel tempo. Si ibridano attraverso la crescita di metodi disciplinari differenziati, attraverso il loro confronto, le loro interazioni, il coagularsi di teorie che investono più campi di ricerca, implementandosi sempre con le tecnologie che lavorano su grandi masse di dati.

Le delimitazioni metodologiche degli specialismi disciplinari si co-determinano anche per reciprocità e portano alla creazione di interessanti aree di intersezioni, “zone-ponte” particolarmente feconde. Luoghi, ad esempio, dove si toccano il metodo delle quantificazioni e degli algoritmi con le metodologie narrative e ricostruttive delle scienze del tempo profondo evolutivo. Proprio da precise delimitazioni metodologiche, da strumentazioni tecnologiche mirate, da contesti epocali di ricerca che coinvolgono condizionamenti interni ed esterni al mondo della ricerca, emergono quelli che vengono definiti complessivamente come “stili di conoscenza” (Hacking, 2017). Gli stili a loro volta si incontrano quando un dato problema specifico non è inquadrabile entro un'unica disciplina, quando cioè richiede la strumentazione investigativa di più campi. Si tratta di nuove esigenze in cui le delimitazioni metodologiche proprie alle diverse discipline devono essere chiaramente definite proprio per permetterne le convergenze. La trans-disciplinarietà in queste configurazioni non si attiva più come generica volontà d'ecumenismo, ma come una focalizzazione a più chiavi su ben precise questioni.

Poniamo, ad esempio, l’evento di un contagio virale su larga scala. La strumentazione nell’ “inseguimento” del problema specifico, il “dove questo ci porta”, per parafrasare Canguilhem (Lupi, Pilotto, 2019) ha bisogno necessariamente del concerto di più chiavi disciplinari ad hoc. Virologia, epidemiologia, ecologia evoluzionista e dei sistemi antropizzati, clinica farmaceutica ed altri settori ancora più periferici come la climatologia o la chimica organica, possono intendersi tra di loro solo traducendo reciprocamente i linguaggi, mettendo in comune masse ingenti di big-data, e collegando criteri esplicativi differenziati. Andando oltre insomma la strada nota degli interessi particolaristici dei vari settori disciplinari, e senza che ciò diventi una commistione di voci, una Babele: ogni dialogo a più voci infatti non è loro fusione (“con-fusione”), ma può essere una sinfonia orchestrante.

Ma c’è di più. Iniziata in Occidente poco dopo la Seconda guerra mondiale, una relativamente nuova fase del lavoro degli scienziati è stata definita “post-accademica” (Ziman, 2002). In questa fase, la ricerca deve essere anche in grado, con le sue nuove modalità di produzione plurali della conoscenza, di scegliere tra i suoi interlocutori plurimi, i cosidetti stakeholders (Tallacchini, 2017). Implicata nella costruzione di una società democratica della conoscenza, la ricerca scientifica deve potersi calibrare tra certe piuttosto che altre delimitazioni che la investono da varie provenienze: dalle pressioni finanziarie, alle interlocuzioni con la società civile.
A concorrere allo sviluppo delle attività di ricerca non sono infatti più solamente i membri dei cosiddetti “collegi invisibili”, ovvero le comunità scientifiche istituzionalizzate, ma anche altre tre realtà: le istituzioni pubbliche, le imprese private e l’opinione pubblica (Ziman, 2002). Quest’ultima si presenta con due risvolti. Da un lato c’è un’opinione che viene “plasmata” dagli esperti, che può utilmente assorbire informazioni preconfezionate, che si “alfabetizza” secondo lo schema ben noto della “divulgazione scientifica”. Dall’altro lato, c’è una costruzione di opinioni attiva e cercata dalle cittadinanze informate su determinati settori della ricerca. Una novità degli ultimi anni. Si tratta di soggetti esterni ai laboratori che interrogano, riflettono, rilanciano questioni, in particolare nelle discipline che riguardano le scienze del vivente, su questioni relative all’ambiente e alla salute collettiva (Battaglia, Bianchi, Cori, 2006).
Nell’ambito della scienza post-accademica i ricercatori hanno dunque una diversa necessità del consenso sociale: più costitutiva. Si devono muovere su tematiche che tengano conto dei tre livelli di rilevanza, mai pacificati tra loro: quello delle istituzioni statali, delle imprese finanziarie e delle cittadinanze interlocutorie (Jasanoff, 2004, 2005). Si tratta di un campo tensionale ben poco neutrale (Kincaid, Dupré, Wylie, 2007) da leggere piuttosto come la messa all’opera di ulteriori, più estese ed extra-metodologiche, forme di reciproche tensioni delimitative.

3. Limiti dello sviluppo antropico

Nel secondo caso il criterio del limite si estrinseca come indicazione scientifica cogente. L’elaborazione di dati e prospettive relativi all’azione antropica sul Pianeta mostra, anzi dimostra, la necessità di un cambiamento di rotta nell’uso e nell’abuso dell’ambiente. Più che un’indicazione, direi, si è arrivati ad una accorata prescrizione di un limite nella produzione e disseminazione di composti di sintesi, nell’estrazione di risorse non rinnovabili e di immissione nella biosfera di materiali rivelatisi a distanza di tempo, con prove cogenti da circa trent'anni, elementi di distruzione di ecosistemi. La ricerca biologica, quella metereologica, quella ecologica, quella clinica ed epidemiologica convergono, quasi concerto pluridisciplinare, nella critica stringente di precise scelte economico-finanziarie e produttive. Cruciali comportamenti finanziari ed economico-produttivi si sono reciprocamente potenziati in un’espansione a lungo illimitata, priva di ogni limite, e hanno condotto a quella che è stata denominata la Great Acceleration degli ultimi settant’anni, responsabile della distruzione dei molti parametri per la sopravvivenza del mondo vivente, a partire dal cambiamento climatico (McNeill, Engelke, 2016). Le documentazioni in merito provengono da diverse discipline, le loro convergenze si incrociano e corroborano a vicenda al punto da attivare consorzi di scienziati da aree diverse della ricerca come l’Antropocene Working Group. Così gli indicatori della sistematica computano l’estinzione di circa un milione di specie, sulle otto milioni a noi note, negli ambienti degradati, con percentuali massime nelle ex-zone umide. L’epidemiologia e la microbiologia aggiornano, la prima, l’incremento esponenziale di patologie dovute all’inquinamento ambientale (Vineis, Carra, Cingolani, 2020), la seconda, l’accelerazione di processi mutagenetici e diffusivi nel mondo dei patogeni, batteri e virus (Quammen, 2014), dove si intensificano mutazioni, “speciazioni incipienti”, in popolazioni virali all’interno di loro tradizionali ospiti endemici selvatici, ospiti un tempo isolati in habitat forestali stabili. A causa dell’urbanizzazione, della distruzione di tali ecosistemi, o delle pratiche antibiotiche negli allevamenti intensivi, questi ospiti dei virus oggi sono divenuti promiscui con altre specie aliene e con noi umani [2].

Le prospezioni satellitari e le analisi chimiche sulle condizioni dell’atmosfera sono campi che, con la climatologia, rispecchiano nei loro dati la crescita di una alterazione di fondo del Pianeta. Il cambiamento climatico provoca desertizzazione, desertificazione, innalzamento e acidificazione dei mari, scioglimento del Permafrost polare, eventi metereologici estremi. Di tutto ciò, attraverso numerosi parametri, la glaciologia, le ricerche forestali e quelle dei fondali oceanici monitorano la progressione, misurando con una messe di dati costantemente aggiornati le precise concause del crollo della biodiversità e del dissesto della Terra.

A partire dall'età della Rivoluzione Industriale, del primo capitalismo e del colonialismo, fino alle loro diverse metamorfosi attuali, un unico impianto produttivo è egemone oggi su tutto il pianeta, e agisce avvicinandosi sempre più alle soglie indicate dalla ricerca come “limite di sostenibilità”. Alcuni sono già raggiunti, per altri è questione di un breve giro di anni. Sono passati solo circa cinquant'anni (un battito di ciglia per i tempi della Terra) da quando usciva, commissionato dal MIT al Club di Roma, il testo dei Meadows I limiti dello sviluppo (Meadows et al, 1972), seguito, a distanza di pochi decenni, da svariati lavori che presentavano una sua trasformazione indebolita, di fatto “ossimorica”, come “sviluppo sostenibile”. Nonostante anticipassero di qualche decennio la crisi oggi in atto, le prospezioni del Club di Roma si confermano.
L’incrementarsi della ricerca avvalora dunque ora quell’iniziale impianto e dimostra, dati alla mano, come la tipologia di sviluppo scelta da una ben ristretta porzione di mondo e esportata o imposta a livello globale si sia rivelata pericolosa per la vita stessa dei suoi produttori, oltre che per gran parte delle forme di vita. Nasce la discussa datazione di questa era geologica nuova, come “Antropocene” (Steffen et al., 2011).
Il succedersi dei vari Protocolli Climatici, il loro faticoso convergere su soglie delle emissioni CO2 e di altri parametri ambientali sono stati fin al loro inizio, con la COP1 di Rio del 1992, quella di Kyoto del 1997 e quelle a seguire, veri e propri eventi geopolitici epocali. Mai precedentemente nella storia umana la voce della scienza era stata presa in tale considerazione. Ma i compromessi faticosamente raggiunti in più casi non sono stati attuati e ultimamente gli accordi del Protocollo di Parigi COP 21 del 2015 sono stati rescissi proprio da uno Stato principe dei “grandi inquinatori globali”, gli USA.

4. Delimitazioni al filosofare

Il terzo caso, è delicato. Si tratta del rapporto delle scienze del vivente con la filosofia in merito all”essere umano. Ciò riattiva i temi delle cosiddette “naturalizzazioni”. Questa denominazione oggi è diventata restrittiva (ancorché correntemente usata con diversi significati). Restrittiva perché evoca svariate forme di ologismo scientista del passato, come i “darwinismi sociali” o i “socialdarwinismi” di fine ’800, con il loro ruolo di innesco di successive pratiche eugenetiche, oppure le sociobiologie degli anni ’60 del XX secolo, centrate sulle estrapolazioni alle società storiche delle “società-organismi collettivi” degli insetti sociali, o ancora, le molteplici forme dei riduzionismi genecentrici di comportamenti culturali.

Porre limiti alle pretese scientiste è stato in tutti questi casi più che giustificato. Inoltre l'insieme di tali spiegazioni è stato letto, proprio dai biologi evoluzionisti più avvertiti come una pratica proiettiva e ideologica, decisamente non neutrale nell'angolazione stessa delle domande, sostanzialmente una forma di biologismo (Lewontin, 1993).

Serve uno scarto da questa tendenza perché oggi le scienze del vivente possono offrire un percorso integrato di spiegazioni dal quale la riflessione sull”umano difficilmente può più prescindere. Filosofia e scienze della vita possono dialogare. Lo studio dei rapporti circolari, costruttivi ad un tempo di ambienti di vita e di forme di vita umane, culturali e sociali, le ricerche delle neuroscienze, l’ampliamento osservato di effetti epigenetici che discendono da scelte di vita dei singoli e dei gruppi (Redi, Monti, 2018; Meloni, 2019) o gli studi sulle origini dell’ominazione come momento di integrazione tra cambiamenti morfologici, nascita del linguaggio e innovazioni tecnico-culturali sono altrettanti passaggi di una domanda filosofica di fondo (Leroi Gourhan, 2018). Quella che è cambiata è la prospettiva o, potremmo dire, lo stile di ragionamento. Un ragionare che va a sostituire il ruolo degli enti, con quello dei processi, centrale per la nuova filosofia della biologia (Nicholson D.J., Dupre´ J., 2019). Da cui l’impossibilità di ipostatizzare ontologie sull”umano prive di tali basi, e al contrario l’utilità di cogliere gli intrecci bio-culturali. L’esposizione, prodotta dalle scelte di vita e quindi anche dalle politiche alle economie, dal costume all’alimentazione, dalle comunicazioni alle tecniche. L’intreccio ci rivela ai nostri stessi occhi come “passaggi corpo-mente” posti in relazione all’interno e all’esterno della specie di appartenenza. Nel plasmare i propri ambienti “selettori” – non diversamente da molti altri viventi (Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003) la specie umana porta direttamente nel tessuto del bios il suo agire storico e culturale.

Si ibrida così una “doppia gerarchia”(Eldredge, 2017), situata sul confine poroso tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale e sociale, mentre un duplice vertice, evoluzionistico e insieme storico, affronta ricorsivamente lo studio della biodiversità naturale e delle scelte culturali. La spiegazione dell’evoluzione si dispiega quindi su quattro dimensioni: genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica (Jablonka Lamb, 2007). Ciò che evolve ovunque sono i sistemi combinati, intrecciati (nested) di più specie tra di loro (animali e virus, e piante e insetti e così via) e con i loro habitat di appartenenza, a loro volta in lento cambiamento: un primato dell'ibrido sul puro. Inoltre le omologie tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale permettono di delineare una storia delle culture materiali, delle lingue, delle tecniche, su base evolutiva, geografica ed ecologica (Cavalli Sforza, 1996, 2019; Diamond, 1998, 2019).

Il cuore epistemologico di quella che è stata ormai ridefinita come “eco-evoluzione”, consiste in un metodo ricostruttivo del passato che unisce i geni, gli ambienti e l’agire umano (Lewontin, 1998). Un metodo con significativi tratti di analogia con quello praticato da quell’altra Storia, disciplina delle scienze umane: la storia delle res gestae, da noi scritta.

Questo l’impianto che, ben diverso dunque dalle naturalizzazioni classiche, s’è allontanato da forme di biologismo riduzionista limitanti (quelle sì nel senso privativo di “limite”), dispiegando un universo conoscitivo quale strumento prezioso per riformulare questioni essenziali su che cosa significa “essere umani”.

Una serie di aspetti filosofici classici, legati alla pura astrazione del pensiero o alla collocazione umana unicamente all’interno delle sue dinamiche culturali e sociali, è ovviamente libera di spaziare illimitata: il regno dell’ab-solutum non conosce confini e può restare, ora e sempre, un regno di autoreferenzialità filosofica pura. Tutto ciò in totale libertà solo se non si rimettono i piedi per terra [3]. Se cioè non si sottopone la filosofia a quel “solvente” delle domande prive di corroborazione, dell’autoreferenzialità astratta che già Dennett indicava nel darwinismo classico, ma che oggi si può cogliere ancor meglio nell’intersezione tra evoluzione, ecologia e storia materiale delle culture, ovvero l’intero pensiero e agire umano. Il posto, la condizione e l’essere biopsichico dell’umano entrano come tema filosofico in un contesto da un lato più ampio, ma dall’altro più delimitato dai suoi vincoli fisici, che ci ricomprende come specie: viventi tra gli altri viventi, derivati da comuni antenati ancestrali sul pianeta.

La risposta a quella che già Huxley chiamava la “questione delle questioni”, ovvero “il posto dell’uomo in natura e le sue relazioni con l’universo delle cose” (e, aggiungiamo, dei processi simbolici) per lui e per i positivisti del suo tempo poteva venire solo dalla scienza. Ma quale scienza? Una scienza focalizzata al dominio della natura, e dei cui scopi erano “proprietari” coloro che controllavano i mezzi di produzione, “i soli che ne possono scrivere la storia” (Comfort, 2019).

Quella scienza lì, giustificativa appunto delle proiezioni scientiste del positivismo e dei suoi eredi, benché ancora inerzialmente in molti casi persista, è però meno rappresentativa del nuovo nell’arcipelago delle scienze del vivente attuali e nelle filosofie che dialogano con le scienze del vivente. Queste, nelle loro intersezioni reciproche, spiegano la dimensione umana non più come un prodotto additivo a partire dalle fondamenta invarianti del bios, o per la precisione, oggi, del Dna: additività giustapposte per strati ascendenti fino al simbolico. Al contrario i dati della biologia e dell’ecologia risultano circolarmente trans-attivi con l’agire materiale e immateriale che, plasmando il mondo, plasma nella sua stessa fisicità l’essere umano.
Ciò significa che lo stesso strutturarsi del pensiero “in azione” è condizionato dalle basi organiche e che, di converso, pensiero e azione producono effetti che ricadono sull’intero organismo, attraverso i suoi contesti ecologici. Contesti letteralmente prodotti dallo svolgersi materiale della vita che li costruisce (niche construction) (Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003) e, insieme, contesti selettori degli esseri, che proiettano il continuum natura-cultura nelle generazioni a venire.

C’è una complementarità oppositiva che sembra aver fatto il suo tempo: mentre lo scientismo “riduceva” l’essere umano a ingranaggi e dispositivi precostituiti sui quali il velo della cultura, l’“apprendimento”, si stendeva come sottile strato superficiale; dal canto loro filosofi e storici, proprio attraverso l’idea di trascendenza e il primato del simbolico, separavano nettamente dalla natura l’ “essenza dell’uomo”. Si stagliava così il tratto distintivo dell’Uomo, con la sua superiorità di Soggetto Pensante, disincarnato, unico e sovrano rispetto al resto del mondo vivente (e, ricordiamolo, rispetto ad ampie porzioni dell’umanità stessa). Dalle configurazioni contemporanee emerge un’altra prospettiva: quella che, passando attraverso la filosofia della biologia, si costituisce come una filosofia con la biologia. Una proposta fortemente delimitante quel principio dell’assoluto che è stato (ed è tuttora in molti casi) il cuore pulsante dell”antropocentrismo. Si tratta di una prospettiva diversa che non ipostatizza verticalmente l'umano, che lo libera dalla gabbia identitaria, lo colloca in un continuum con il resto dei viventi, coglie gli intricati sentieri che, attraverso successive delimitazioni e nuove canalizzazioni di potenzialità, portarono la specie attraverso i tempi profondi delle ere geologiche alla sua esistenza attuale e che implica la sua transitorietà nel futuro.
È in quest’ordito di relazioni che si va a intessere la trama delle funzioni più complesse della storia dell'umanità: dal pensiero astratto alle tecnologie che hanno modulato corpi e menti nella condizione umana. Illusoriamente inarrestabile ed espandibile all’infinito per ogni corrente di pensiero transumanista vecchia o nuova, questa condizione umana è invece concretamente delimitata dalle sue caducità e dalle fragilità che condivide col resto dei viventi e degli ambienti.

Come corollario a tutto ciò, alcuni dei principi sovrani del pensiero, a partire dagli apparati categoriali tradizionali della filosofia, possono, o forse debbono, essere riconsiderati. Tra questi i concetti stessi di “individualità” e di “identità”, principi cardini del mondo occidentale e contrassegnati dal primato dell’“autonomia”.

Biologia molecolare, epigenetica e simbiontologia su questo piano offrono dati su cui è impossibile non “fare filosofia” radicale. Ogni femmina umana, se madre, diviene una sorta di con-dividuo a causa dello scambio delle sue cellule con quelle del feto attraverso la placenta durante la gravidanza. Ma queste componenti di un “altro da sé” le resteranno lungo il corso futuro della vita (Comfort, 2019). A livello ereditario, la genomica ci rivela come “composti chimerici” (Pradeau, 2012) in quanto i nostri patrimoni genetici ancestrali portano in sé inserzioni di retrovirus arcaici, insediatisi e fusi stabilmente nei mitocondri di tutto il mondo animale di cui siamo parte (Margulis Sagan, 2002). Ospitiamo decine di migliaia di altre cellule non umane perché i mondi batterici percorrono e abitano i corpi. Gli effetti del loro e nostro metabolismo non riguardano solo l’equilibrio di processi fisiologici, o dello sviluppo, o la resistenza alle patologie, ma modulano anche stati d’umore e prestazioni mentali[4].

Il sé biologico stesso si rivela così come un risultato di convivenze plurime di diverse comunità di ospiti in costante comunicazione tra loro. È interessante ad esempio osservare che l”immunologia in una sua prima fase aveva offerto una sua corroborazione indiretta proprio delle ontologie dell”identità individuale attraverso il concetto di “self” immunologico. Un self in contrappunto con il non-self alieno (attraverso la dinamica anticorpi/antigeni) (Tauber, 1999). Ebbene, a distanza di vent'anni da queste sue prime formulazioni, l’immunologia modifica oggi questa autorevole dicotomia, ragionando in termini di una costante convivenza con l’altro da sé microbico, ovvero le popolazioni batteriche quali comunità simbiontiche in costante ridefinizione e aggiustamento reciproci: piuttosto che servire a difendere una identità indipendente l’immunità partecipa a un ecosistema (Pradeau, 2012; Tauber, 2017;).

A più livelli l’unità individuale (letteralmente “non-divisibile”) di ogni essere e quella identitaria (ovvero l’espressione coesa e autoreferenziale all’“identico” di se stessi) risulta tale solo ad un primo sguardo. Studi molecolari e cellulari, sfumano i bordi di ciò che si può intendere con “sé”, l’epigenetica entra in quell’ultima roccaforte identitaria dell’innato che a metà del secolo scorso sembrava costituire il principale focus riduzionista: il Dna. Come già aveva ipotizzato Barbara Mc Clintock, esso si rivela “parte sensibile” all’interno della cellula e sottoposto a modifiche del suo ambiente interno, e ciò mentre microbiologia e simbiontologia pluralizzano e complicano non poco la nozione stessa di individualità e il principio di autonomia identitaria di ogni essere.

“Individualità”, “identità” e “autonomia”, i tre pilastri di fondamentali categorie ontologiche diventano un nuovo laboratorio anche per la teoresi. Solo una filosofia dell’astrazione pura, priva di limiti e irrelata, può considerare questi pilastri come intangibili da qualsiasi loro limitazione che provenga dall’avanzamento della conoscenza sul vivente, mentre in realtà sono coinvolti in una trasformazione che obbliga a rivedere il posto e la condizione umana nel concerto dell’intero mondo vivente.

Il decentramento categoriale che già partiva da Darwin, raramente aveva raggiunto questa intensità. Più che “individui”, con i nostri conviventi organici e genetici risultiamo essere dei “condividui” (Remotti, 2019; Gagliasso, 2019). Oppure, rovesciando ulteriormente la prospettiva, possiamo anche considerarci “porzioni d’ambiente” per altri da noi, nonché interfacce tra più contesti ambientali. Proprio quei contesti da cui dipendiamo per la sopravvivenza e che al tempo stesso sono segnati da profonde alterazioni da noi stessi innescate lungo il corso della nostra storia materiale e simbolica. Tutti ambiti di ragionamento in cui le diverse articolazioni del concetto di “limite” trovano una loro fecondità euristica, precedentemente impensata.

Note

1 Nel 2019, nel blog della AGU (American Geophysical Union) ci si interroga sulla opportunità di attenersi all’asetticità dei dati sul cambiamento climatico, con o senza commenti sulla loro genesi. Il coinvolgimento dei geoclimatologi è da considerarsi espressione e insieme induttore indiretto, di forma politica. Sono infatti i geofisici, i climatologi, gli oceanologi, i glaciologi ad aver dimostrato, comparando i climi remoti del Pianeta a quello presente e fornendo modellizzazioni sul futuro, che l’aumento di CO2 nell’atmosfera con dissesto sull’equilibrio climatico che ne deriva, è stato prodotto “prevalentemente dalle nazioni ricche”. Si veda in merito Artale, 2019.

2 Precisando: è la biologia evoluzionista, in particolare la teoria degli “equilibri punteggiati” (Eldredge, Gould, 1972) che spiega come lo stress della nicchia abitativa acceleri la mutagenesi, la quale fornisce il materiale per un’intensificazione dei processi di speciazione in certi hot-spot del pianeta. Nel caso dei virus, ad esempio, le nicchie consistono proprio nell’ambiente interno altamente sollecitato dell’ospite, la sua fisiologia, i suoi sistemi endocrini e cellulari. E questi “micro-ambienti interni organici” stressati dal degrado dei macroambienti, favoriscono dinamiche mutageniche nelle loro popolazioni virali.

3 Karl Marx aveva, com’è noto, rivoluzionato questo impianto, leggendo le forme di produzione materiale come base delle sovrastrutture del pensiero. Ma l’integrazione del discorso bio-evolutivo chiude il cerchio già avviato dal materialismo storico, ponendo una causazione retroattiva delle forme astratte e del simbolico sull’impianto strutturale: il pensiero non è solo sovrastruttura, ma agisce materialmente (neuralmente, direi) sulla struttura biologica e questa, nelle sue articolazioni ecologiche agisce sulle forme produttive e associative umane. Che modificano gli ecosistemi.

4 La composizione del microbiota intestinale influisce infatti anche sullo stato mentale. La carenza di alcuni ceppi risulta sistematicamente associata alla depressione, mentre i sottoprodotti metabolici di altri sembrano influire positivamente sulle sensazioni di benessere (Redi, Monti, 2018).

Bibliografia

 

Antropocene Working Group (2020). http://quaternary.stratigraphy.org.
Armiero Marco, Barca Stefania (2004) Storia dell”ambiente, Carocci, Milano.
Artale V. (2019). Sei domande sui cambiamenti climatici tra scienza e protesta sociale, in Riflessioni Sistemiche - N° 20, giugno, pp. 6-26.

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