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Come sono fatte le cose dentro, di Paolo Guidoni

Nota su come sono fatte le cose dentro

(problema a 5 anni)

di Paolo Guidoni - novembre 2012

 

1) Come sono fatte le cose dentro # 2) Come arriviamo a sapere qualcosa su quello che sembra inaccessibile all’esperienza diretta? # 3) Per capire cosa vuol dire “spiegare” basta ascoltare bene qualcuno che si accorge di “capire” # 4) Ai livelli di comprensione di cui si discute, non c’è discontinuità né contrasto... # 5) È difficile, da insegnare # 6) È difficile, da insegnare. Per esempio, l’energia # 7) Ovviamente insegnando non si può partire subito dall’energia... # CFR

 

1) Come sono fatte le cose dentro 

Non si vede né si percepisce direttamente: però siamo immersi ogni giorno in un flusso continuo di esperienze ed evidenze caratterizzate proprio da quella moltitudine di realtà “micro” che determinano modi e intrecci dei fatti “macro”. E pensare a come sono fatte le cose dentro non è un semplice gioco/passatempo: da sempre nella storia dell’uomo (e in modo esplosivo nelle realtà in cui viviamo) l’arrovellarsi su modi e forme della materialità del mondo ha determinato i modi di “capirlo” – la previsione, il controllo e la progettazione su cui si basa da sempre la vita sociale. Il problema è al tempo stesso sia specificamente “scientifico” (oggi ci sono centinaia di specialismi e milioni di specialisti che si affannano a capire, progettare, controllare, interpretare le conseguenze della “materialità” del mondo – incluso il nostro, di “viventi”); sia fondamentalmente “culturale”, quindi cruciale per la scuola di base: serve infatti  un’apertura profonda, creativa, responsabile a questa dimensione delle nostre condizioni di vita che incide su tutti i loro aspetti (dalla tecnologia alla medicina e alimentazione, alla cura dell’ambiente…).

 

2) Come arriviamo a sapere qualcosa su quello che sembra inaccessibile all’esperienza diretta?

Le “mosse” cognitive-e-culturali fondamentali sono tre, da sempre: guardare bene quello che succede (che succede “da sé”, o perché “provocato”), cercando di mettere in relazione fatti e contesti diversi; servirsi quanto si può di situazioni e strumenti che permettano di arricchire e precisare sul piano dei fatti quello che si cerca di capire; pensare per modelli, cioè abituarsi all’uso sistematico di un pensiero centrato sulla cruciale strategia del «come se». Così, se nel discorso a livello macro domina la constatazione - «è/succede così perché è/succede così», secondo “regole” riconosciute di interazioni fra sistemi e di relazioni fra variabili; a livello micro domina invece la modellizzazione - «è/succede così come se quello che non si vede fosse/succedesse così», secondo “regole” che in prima approssimazione trasferiscono “per analogia” concetti, idee e relazioni da contesti di fatti noti e sperimentati a contesti di fatti ipotizzati, che possono avere conseguenze sperimentabili.

La zolletta di zucchero bianco va subito a fondo nel bicchiere (però cade piano) – poi piano piano si scioglie e lo zucchero sparisce – intanto lo zucchero sciolto sale verso l’alto, insieme alle bollicine dell’aria che era nello zucchero – alla fine tutta l’acqua del bicchiere, se si assaggia qua e là con la cannuccia, è dolce uguale – è come se le parti piccolissime dello zucchero preferissero stare infilate in mezzo alle parti piccolissime di acqua piuttosto che stare attaccate alle altre parti di zucchero / è come se ci fosse una forza che prima le tira via dallo zucchero intero e poi le spinge attraverso l’acqua  / e finché c’è del posto libero nell’acqua vanno dappertutto a infilarsi lì / ma se lo zucchero è troppo, una volta occupato tutto il posto che c’è nell’acqua quello in più resta sul fondo / ma è come se scaldando l’acqua si facesse più posto per dell’altro zucchero / … / e comunque anche per il sale succede lo stesso … / e anche per il colore della carta crespa messa a galla, che scende piano piano e poi si mescola tutto da sé / e anche per una goccia di inchiostro / …

«Come se ci fosse una forza». Ma qualcuno ha mai visto “una forza”? «Vista di certo no, ma sentita sì … e poi non da sola, ma sempre “fatta” da qualcuno ». Anche a livello dell’esperienza quotidiana, sempre aggrovigliata ai modi di dire quotidiani, il problema di “spiegare” cosa succede subito si complica. E poi cosa vuol dire “spiegare”?

 

3) Per capire cosa vuol dire “spiegare” basta ascoltare bene qualcuno che si accorge di “capire”

«Io quando capisco una cosa sento una specie di calduccio dentro, perché è come se tutte le cose più piccole si fossero messe al loro posto dove ci stanno bene, e a me mi viene l’idea» (4a elem, Bra: si stava discutendo di cos’è un angolo). «Per capire le cose che si vedono noi adoperiamo delle cose che non si vedono» (4° elem, Roma: discussione conclusiva in relazione alle idee di “forza” e “energia” usate coerentemente per “mettere ordine” in vari contesti di esperienza). «Sì, ma anche per capire le cose che non si vedono si adoperano le cose che si vedono» (altra voce nella stessa discussione, ricordando l’interpretazione di precedenti esperienze di sciogliere, assorbire, asciugare, evaporare … etc sulla base di analogie con fatti direttamente osservabili ).

Non c’è molto altro da aggiungere, né sul piano epistemologico né sul piano psicologico: sono esperienze di questo tipo, condivise fra tanti modi di pensare individualmente diversi (anche se solo a qualcuno arrivano in bocca “le parole per dirlo”), che costruiscono basi culturali durevoli per la vita. E già così emerge la micidiale difficoltà di fondo del problema dello “spiegare”: infatti già a livello macro (oraganizzato sulla base di interazioni fra sistemi e connesse relazioni fra variabili) è subito necessario “inventare” concetti “astratti” per mettere efficacemente in relazione reciproca i fatti che succedono (“cosa è” una “energia” … una “concentrazione”? …); mentre a livello micro “esportiamo” modi di guardare e di interpretare validati a livello macro (non solo “parti piccolissime”, ma anche “preferenze” che si manifestano nelle loro interazioni “elementari”, basate su “forze” che le spingono o tirano o tengono insieme, etc ); mentre il “giro” si chiude quando cerchiamo di adoperare idee nate per modellizzare il piano micro per tornare a spiegare (a mettere in relazione fra loro) nuovi fatti macro (“allora” come si spiegano il trasparente e l’opaco, il limpido e il torbido dell’acqua? … e se le parti piccole fossero sempre in movimento reciproco, correlato all’esperienza di temperatura? … e se l’alcool versato nell’acqua fa aumentare il volume totale più della rispettiva somma, e per giunta fa scaldare la soluzione, non sarà che le parti piccole… etc).

 

4) Ai livelli di comprensione di cui si discute, non c’è discontinuità né contrasto...

Fra un atteggiamento cognitivo-culturale di tipo “scientifico” (fino alla sofisticazione dei pochi) e uno del tipo “conoscenza comune consapevole” (fino alla sua appropriazione da parte di “tutti”). Per questo è cruciale mettere al più presto in gioco questi aspetti cognitivo-culturali nella scuola di tutti – negli anni cruciali in cui tutti mettono in forma i loro modi di essere umani immersi nella cultura. Diversamente, si rischia (di fatto, si produce e avalla) una selezione culturale precoce (e feroce) - si diventa «strumenti ciechi di occhiuta rapina>, come vedeva G. Giusti.

L’obiezione più comune è che “il pensiero astratto è troppo difficile” – da apprendere, da esercitare, da insegnare. Obiezione respinta, sulla base concreta dei dati di ricerca: non solo sulla base dei dati raccolti attraverso gli anni in classi reali con ragazzi e insegnanti reali; ma anche per esempio di quelli (derivanti da test sui cosiddetti “quozienti di intelligenza”, con milioni di prove) che mostrano come circa negli ultimi 60 anni (nel tempo della mia vita adulta, tanto per dire) le capacità medie di “pensiero analogico” sono cresciute del 24% (!), e stanno ancora crescendo. E il “pensiero analogico” è la base cognitiva di ogni forma di modellizzazione scientifica. Merito della scolarizzazione? NO: nello stesso periodo p.es. le competenze aritmetiche di base sono cresciute del 2%, e sono in calo da 20 anni. Qualcosa a che fare con la scolarizzazione? SI: continuando a trattare le nuove persone che abbiamo davanti come noi siamo stati trattati da piccoli, di fatto usiamo una violenza repressiva di fronte alle loro potenzialità cognitive – in sostanza di fronte ai loro diritti di totale crescita umana («l’astrazione è un diritto - difficile» insegnava a Firenze Lydia Tornatore).

«Capire si può» - «Insegnare si può» - «Cambiare (modi di capire e di insegnare) si può»: sono stati titoli di progetti di ricerca, sono gradualmente diventati risultati di ricerca, sono ora slogan di azione. Si può … purché: purché si decida che si vuole, e che vale la pena di investirvi lo sforzo (individuale e collettivo, professionale e sociale) che “serve”. Perché, purtroppo, molto spesso si tratta – anche – di “andare controcorrente”, rispetto ad idee e prassi diffuse (e colluse, attraverso l’inadeguatezza e la pigrizia); o di “provare fidandosi – e aiutandosi”, anche in assenza di supporti didattici adeguati. Per esempio. Non vanno certamente in questo senso né le indicazioni che si possono trarre dalle “Indicazioni” vigenti; né quelle (così spesso sciaguratamente controproducenti) presenti nei libri di testo; né le disponibilità minimali (a partire dai “laboratori poveri” e dalle “biblioteche povere”) presenti nelle scuole; né la preparazione (culturale e professionale, oltre che comportamentale) e la collaborazione socialmente garantite ai docenti; né…

 

5) È difficile, da insegnare

È (anche) difficile: ma si può fare, e va fatto, e intanto che si fa ci si prende gusto, e dopo che si è fatto si è soddisfatti - tutti.

Ci sono di solito (vari) estremismi in conflitto, basati di solito sulla disattenzione e/o la pigrizia adulta ben prima che su “teorie” pedagogiche. Bambini e ragazzi non possono “scoprire” più o meno “spontaneamente” modi di capire il mondo che hanno richiesto migliaia e migliaia di anni - milioni e milioni di pensieri individuali - per definirsi. Non prendiamoci in giro. Ma anche non devono essere violentati nelle loro potenzialità di crescita cognitiva e culturale, profondamente radicata nella loro voglia di essere vivi, da una “didattica” basata sul condizionamento sistematico – si fa/dice così, bere o affogare, se mai capirai da grande. Non prendiamoci in giro. Fra gli estremi, caratterizzati dallo stesso risultato finale – collasso dell’autonomia individuale, impaniata per sempre nel non-capito, c’è il lavoro responsabile di mediazione attiva, strategica, critica, risonante che dovrebbe caratterizzare l’intervento adulto a scuola (e non solo). Mediazione fra i modi di pensare-parlare-agire-vivere di chi cresce (modi in cambiamento continuo e variegato) e quelli via via offerti in quanto socialmente stabilizzati dalla cultura di base necessaria a vivere; mediazione, in altre parole, che non è mai responsabile di inculcare/convincere che le cose stanno in un dato modo: ma di rendere plausibili, utilizzabili, appropriabili come strumenti per la creatività e la voglia di vivere … i modi di guardare/vedere/trattare il mondo che la cultura nella sua ricchezza può mettere via via a disposizione di chi cresce. Ed è proprio per questo che la cosiddetta “educazione scientifica” è cruciale.

Qui sta uno dei nodi. Un animale selvatico “sa” bene che i suoi figli devono imparare a guardare il mondo in certi modi, se devono arrivare a vedervi certe cose essenziali; e che poco a poco si impara come guardare, solo se al tempo stesso si impara cosa è importante vedere – e così li “educa”. Fra umani la cosa è infinitamente più ricca e complessa, se non altro per la mediazione del linguaggio che ci collega alla cultura al di là delle interazioni individuali con il mondo e con gli “altri”: ma non possiamo dimenticarci la “primaria” dinamica che ci lega alla natura che siamo. Imparare a guardare per imparare a vedere, e viceversa – negli stessi tempi, negli stessi contesti, negli stessi discorsi su «le cose che ci sono, in quanto ci sono, e quelle che non ci sono, in quanto non ci sono». (È quasi commovente ritrovare nella preoccupazione divertita dei bambini di 4a di cui sopra, a proposito di “come se”, le poche parole superstiti di un vecchio Protagora).

E non si può mai imparare “tutto in una volta”: perciò le tre “mosse” cognitive evocate all’inizio del punto 2) devono caratterizzare tutto il percorso di formazione culturale, continuamente rinnovate in nuovi cicli al crescere delle competenze. Come devono caratterizzare, quasi ostensivamente, i comportamenti cognitivi e culturali della mediazione adulta (si impara assai di più da quello che si vede fare che da quello che ci si sente dire).   

 

6) È difficile, da insegnare. Per esempio, l’energia

Quella strana “cosa”, così chiacchierata e così preziosa e così sfuggente, che se ne sta come intrappolata fra le parti piccolissime di cui è fatta ogni materia: e al tempo stesso è responsabile del loro stesso stare insieme, e di ogni loro disgregarsi e riassemblarsi in nuove forme - di ogni «generazione e corruzione», avrebbe detto Aristotele. E su un tema cruciale come quello dell’energia (giustamente le nuove Indicazioni dichiarano che in terza media bisognerebbe avere raggiunto idee chiare in proposito - senza peraltro suggerire come) si misura uno dei più tristi fallimenti del nostro incrostato modo di fare-scuola. Cerchiamo di vedere come e perché, almeno all’ingrosso.

Ci sono due “problemi a monte”, per arrivare a capire qualcosa sull’energia-nella-materia.

i) L’idea stessa di energia, con i relativi modi di utilizzarla per capire e indirizzare i fatti, è ben distinta ma al tempo stesso sempre strettamente collegata a quella di forza – in ogni contesto e accezione. (Diverse forme di energia in corrispondenza a diversi tipi di forze … conservazione e trasferimenti dell’energia in relazione agli equilibri fra forze … etc). Per appropriarsi almeno a livello di prima approssimazione di questo aspetto è indispensabile un’esperienza diretta (e ben diretta) su fenomeni quotidiani, di per sé formativamente importanti: e questo è possibile entro la 4a - 5a elementare, se il discorso si avvia ben prima – e ovviamente a scuola media.

ii) Per poter parlare sensatamente di energia-nella-materia occorre essersi appropriati almeno delle forme di discorso legate ai numeri (interi, per cominciare) “relativi” (cioè positivi e negativi). Si tratta di una competenza formale che è sperimentalmente ben accessibile ai bambini nell’intervallo fra 5 e 7 anni, purché ci si basi sul loro coinvolgimento in contesti di evidente significato: p.es. da un lato i passi avanti e indietro lungo una linea a partire da uno zero arbitrario (numeri associati ad “essere” in un certo posto, e allo spostarsi di posto); da un altro i debiti e i crediti (in termini di un qualunque “bene”), conteggiati a partire da uno “zero patrimoniale” pure arbitrario (numeri associati ad “avere” qualcosa, o a “mancare” di qualcosa, e al cambiamento di patrimonio in ambedue i versi).

Con queste competenze preliminari, il discorso sull’energia-nella-materia può svilupparsi in termini di modellizzazione (in termini di “come se” analogico) sulla base di evidenze sperimentali diverse, da organizzare coerentemente: “è come se” il fatto che nella materia le parti piccolissime stanno “attaccate” fra loro (con “forze” più o meno grandi) corrispondesse al fatto che l’energia che caratterizza il loro stato reciproco fosse (più o meno intensamente) negativa. (Sui libri si trova scritto, quasi sempre senza ulteriore spiegazione a parte disegni devianti, che le particelle sono “legate”). Se le particelle devono essere separate occorre perciò fornire energia positiva – “così come” per estinguere un debito occorre del denaro “libero”: e forme di energia “intrinsecamente positiva” sono per esempio il movimento, o i fotoni della radiazione elettromagnetica che ci arriva dal sole. D’altra parte se in una interazione fra particelle si passa da forme di legame “debole” (energia reciproca poco negativa) a forme di legame “forte” (energia reciproca molto negativa) “è come se” si passasse da situazioni di piccolo debito a situazioni di grande debito: da un lato si “libera” denaro spendibile (energia positiva) ma dall’altro si genera un debito (un legame) molto maggiore, che richiederà un investimento (di denaro libero, di energia positiva) molto maggiore se si vorrà tornare allo stato iniziale.

Gli atomi di carbonio, ossigeno e idrogeno sono debolmente legati nell’alcool; il calore stesso generato dalla combustione (una volta innescata) li “libera” dal loro legame originario, permettendo loro di legarsi in un legame estremamente più forte con gli atomi di ossigeno “presenti e disponibili”; il legame estremamente più forte (l’energia di legame molto più negativa) dei prodotti finali (anidride carbonica e acqua) da un lato “libera” energia utilizzabile  in forma di calore; dall’altro però “vincola” gli atomi molto più fortemente – e ci vuole l’energia dei fotoni in arrivo dal sole perché le piante riescano ad annullare i legami di H2O e CO2 e a ricostruire molecole “utilizzabili” per ripetere il gioco (noi ci stiamo provando, ma non ci siamo ancora riusciti bene).

E forse può essere divertente pensare a quanto i problemi di continuare a spendere aumentando i debiti, e continuare a “bruciare” aumentando la quantità di CO2 che ci soffoca, possano essere facilmente “assimilabili” uno all’altro.

Ovviamente le cose non sono sempre/tutte così semplici – ma si tratta di trovare, con calma e non nello spazio di poche righe, i discorsi e le azioni per avviare e accompagnare un percorso graduale e progressivo, variegato e significativo, attraverso tutti gli anni dell’obbligo.

 

7) Ovviamente insegnando non si può partire subito dall’energia...

Che costituisce se mai uno degli obiettivi a lungo termine di un percorso visto e progettato come multiennale. E ovviamente discorsi molto simili si possono fare per contesti e idee-chiave di biologia, e di altre scienze.

Quello che ora si propone è però innanzitutto un breve intervallo totalmente dedicato, prima di “andare in classe”, alla consapevolezza adulta: che poi avrà modo di progredire parallelamente al lavoro in classe, e alle necessità culturali e professionali che questo chiamerà in gioco.

Per cominciare, dunque, bisogna cominciare a provare, a guardare, a riflettere sull’esperienza quotidiana via via chiamata in gioco, a domandarsi “come potrebbe essere” … (cfr le “mosse” del punto 2). E bisogna cominciare a riflettere, sistematicamente e collettivamente, su qualche testo o materiale (o parte di testo/materiale) che si presti a “cominciare”. Poi, mano a mano che si va avanti a partire da qualcosa che si può supporre condiviso a livello di base, si potranno chiedere e avere “spiegazioni” sempre più adatte sia alla competenza culturale adulta, sia alla specifica mediazione adatta all’età dei bambini/ragazzi a cui professionalmente ci si rivolge.

Con un fondamentale augurio-auspicio di buon percorso – e buon divertimento!

 

CFR

Arcà, Bassino, Degiorgi - Dentro la materia - Carocci editore (Un ottimo testo per cominciare)

Arcà, Guidoni - Guardare per sistemi, guardare per variabili(Alcune parti si trovano sul sito del Cred Valdera)

A.A.V.V - Non solo far di conto -  (In part. il capitolo su acqua e zucchero; è sul sito del Cred Valdera)

A.A.V.V. - Capire per modelli – (Prodotto web con discorsi “teorici” ed esperienze; fra poco sul sito)