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L’orma dei passi perduti

 

L'orma dei passi perduti

L’orma dei passi perduti

 

Paolo Buchignani

Tralerighe Libri, Lucca, 2021


Marco Piccolino


Accingendomi alla recensione per Naturalmente Scienza del volume di Paolo Buchignani, L’orma dei passi perduti, chiarisco subito la peculiarità della condizione nella quale mi trovo a parlare di questo libro. Peculiarità che viene da una parte dal fatto che non sono un esperto di narrativa, né tanto meno un critico letterario. Dall’altra perché la mia posizione, sia rispetto all’Autore che ai temi di questo volume, non è per nulla neutra. Di Paolo sono amico da molti anni, e anzi posso dire con ragionevole certezza che l’incontro con lui è avvenuto circa quindici anni fa, nel 2008, poco tempo dopo che su questa stessa rivista (allora pubblicata esclusivamente in forma cartacea e diretta dall’indimenticabile Enrico), era apparso un mio articolo intitolato Le storie di Franco, dedicato a Franco Guidotti, l’oste della Trattoria dei Quattro Venti, sul Monte Pisano, nella zona di Molina di Quosa, al confine tra il versante pisano e quello lucchese.

In quell’articolo parlavo di Franco da poco scomparso e delle storie che spesso mi raccontava quando, stanco e affamato, al termine delle mie lunghe camminate sul monte mi fermavo ai Quattro Venti a mangiare una fetta di torta e bere un bicchiere di vin santo. Quelle storie, come sottolineavo allora, avevano contribuito in modo determinante ad accendere in me l’interesse per le montagne, e – allo stesso tempo – per il mondo perduto della mia infanzia vissuta in un piccolo paesino ai piedi di un alto monte, dove, nelle lunghe sere d’inverno, davanti al focolare, noi bambini ascoltavamo storie in parte analoghe a quelle narrate da Franco. Quel mio articolo era capitato per caso nelle mani di Paolo, come me amante delle storie e dei monti, ed era servito da occasione e tramite per il nostro primo incontro, inizio di una lunga amicizia trascorsa insieme soprattutto a camminare per i sentieri tra i boschi e casolari abbandonati, e a interrogarci sulle loro storie.

Alcuni dei luoghi evocati da Paolo nei racconti ripresi ora nell’Orma dei passi perduti, ma pubblicati diversi anni fa in due volumetti separati, L’orma di Orlando nel 1992, e Santa Maria dei Colli nel 1996, io li ho conosciuti proprio nel corso di queste camminate con Paolo, che li frequentava già da molti anni e che – diceva – erano stato lo spunto per storie che aveva narrato. E a volte persino luoghi in cui quelle storie lui le aveva “fisicamente” scritte, magari seduto su un masso, all’epoca ormai remota in cui per scrivere, anche un romanzo, bastava avere una matita o una penna, insieme a un foglio o un taccuino.

E ovviamente storie da raccontare.

Di storie da raccontare Paolo ne aveva molte, e non solo per la sua indole creativa che lo portava alla scrittura, e per gli stimoli che gli venivano da vari incontri. Il primo, e fondamentale, fu, ai tempi dell’adolescenza, quello con Mario Tobino, il grande scrittore e psichiatra che nelle sue abituali passeggiate dal manicomio di Maggiano sulla collina di Fregionaia, di cui era il mitico direttore, si dirigeva “scapigliato e assorto, i capelli al vento” con passo libero e grande simpatia umana per il mondo attorno a lui, percorrendo la via Sarzanese, verso le belle piane che circondavano l’antica abbazia di Farneta, passando accanto alla casa in cui Paolo abitava, a Santa Maria a Colle.

Un giorno il ragazzo, che di Tobino aveva letto tutto, riuscì a vincere la naturale timidezza e “impacciato, un po’ balbettante” ebbe l’ardire di fermare lo scrittore per chiedergli di mettere la dedica al libro “più amato” (forse Per le antiche scale). Fu l’inizio di una stagione di incontri e di discussioni – come Paolo ricorda nella prefazione scritta espressamente per la pubblicazione dell’Orma dei passi perduti – “sulla letteratura, su Beatrice e su Laura, sull’amatissimo padre Dante, di cui [lo scrittore] declamò alcuni versi, e su Francesco Petrarca”. E anche su argomenti diversi, come “le forme procaci di una bella ragazza” che li sorpassa in bicicletta e “il fascino irresistibile delle belle donne”, argomenti ancor più schiettamente vitali, soprattutto per un adolescente, e che lo scrittore evoca non solo per la sua natura di spirito toscanamente libero e salace, ma forse anche per mettere a suo agio il ragazzo.

E poi, a distanza, dal primo incontro di un tempo – lasciato forse volutamente indefinito nel ricordo che ci viene trasmesso – ecco il momento culmine, dal punto di vista letterario, di questa familiarità con Tobino, che Paolo descrive con queste parole:

 

Un pomeriggio d’inverno, il cielo spazzato dalla tramontana, mentre lo accompagnavo sulla via di Fregionaia, si fermò di colpo, mi afferrò un braccio e mi guardò fisso, tra il serio e il faceto: “Sono sicuro che hai scritto qualcosa di narrativa o di poesia», sentenziò. E aggiunse: “Con quella faccia, con quegli occhi, non puoi non aver scritto!”.

 

Non sappiamo se quest’ultima affermazione fu pronunciata da Tobino sulla base della sua dimestichezza con la fisiognomica, maturata nel corso della lunga carriera di scrittore-psichiatra, ma è certo che essa era destinata a rivelarsi, a posteriori, profetica. Certo è che lo stimolo, e poi il giudizio positivo e incoraggiante che lo scrittore espresse davanti a primi abbozzi letterari del ragazzo, furono fondamentali per la decisione di Paolo di non limitare la sua creatività unicamente a saggi di storia, il suo interesse principale di studio dall’epoca dei suoi corsi universitari nella Pisa allora attraversata ancora dalla coda delle agitazioni e dei tumulti del sessantotto.

Oltre la grande storia del Novecento, di cui il giovane sarebbe divenuto uno dei maggiori studiosi, in relazione soprattutto al fascismo e a una sua particolare componente – quella del cosiddetto “fascismo rivoluzionario” – Paolo di storie ne aveva tante da raccontare.

In effetti, se la sua generazione, quella nata negli anni ’50 del secolo breve, si era aperta alla vita e al mondo quando ormai si era esaurita (o aveva mutato forma) la tempesta creativa che aveva attraversato i giovani del periodo della Guerra o della Resistenza, per una ragazzo nato in un borgo contadino erano materia di scrittura, oltre ai racconti degli adulti (ascoltati a volte di soppiatto durante le veglie attorno al focolare, proprio sulla guerra, con le sue tragedie e le sue storie intense), anche i processi di una trasformazione che si avviava a divenire irreversibile, e che Paolo sentiva la necessità di narrare, in un modo suo particolare. E cioè dalla sua visuale di ragazzo curioso e al tempo stesso trepidante dinanzi al mondo in trasformazione, e con i mezzi della cultura letteraria e storica che andava acquisendo allora, sia all’università che in incontri importanti. Tra questi, di particolare rilievo quello con un altro grande scrittore, Romano Bilenchi, il quale aveva anch’egli incoraggiato la verve letteraria del giovane (e certamente influenzato il suo stile narrativo). E poi c’erano le letture avide di quel periodo, che oltre ai classici degli anni di scuola e di università, si rivolgevano a Thomas Mann e Marcel Proust, i due grandi autori del “tempo perduto”, ai classici francesi e russi, e ai contemporanei e – tra questi – oltre a Tobino e Bilenchi – certamente Calvino (punto di riferimento per alcune trame di uno dei racconti più belli di questa raccolta, La Grotta dell’Aquila).

Un mondo, quello di cui Paolo sentiva di dover raccontare le storie, che era rimasto fondamentalmente immobile nelle sue pratiche quotidiane essenziali, dall’epoca del Medioevo, con la vanga e l’aratro che dominavano il lavoro dei campi, con le case attorno alle corti in cui si “sfogliavano” le pannocchie o si sgranavano ceci e fagioli, ciascuna con il suo orto, le sue galline e i conigli, i carretti trainati da stanchi muli come fondamentale mezzo di trasporto, i lavoranti che attendevano lunghe ore “a Ponte San Pietro” nella speranza di essere scelti a giornata dai padroni, l’emigrazione verso le Americhe, le serate passate da uomini a bere e a giocare a carte all’osteria (che era o poteva essere anche un covo dell’antifascismo, come quella di Annibale l’oste irriducibile che i fascisti trucidarono nei primi anni del ventennio), e le donne a veglia con i loro racconti e le loro leggende, i tanti mestieri e botteghe, i riti e feste religiose, con la chiesa e il parroco come punto di riferimento per i paesani in difficoltà dinanzi alla violenza di fascisti e nazisti, e alla spietatezza criminale di alcuni di loro.

Tutte queste storie che Paolo ascoltava da ragazzo rischiavano di scomparire e, insieme ad esse, si dissolveva negli anni della sua giovinezza, il mondo antico delle campagne e dei contadini, fatto di una vita certamente difficile ma caratterizzata da elementi di una antica cultura e coesa umanità. Insieme con le storie e i luoghi che scopriva camminando tra i sentieri di quei monti, di cui dalla finestra della sua casa intravedeva le cime, tutto questo Paolo sentiva di doverlo raccontare. E lo ha fatto negli anni della sua giovinezza in una serie di racconti pubblicati in semplici ma preziosi volumetti diventati rapidamente introvabili, molti dei quali raccolti ora – come ho detto – nell’Orma dei passi perduti.  

Nel racconto intitolato Il Passo di Dante (che fa riferimento a uno dei luoghi più noti del Monte Pisano), il senso del dovere di narrare il tempo perduto della propria infanzia, è reso dalle riflessioni del protagonista, il professor Lapo Tusci, che ne avverte la necessità resa più acuta dalla scomparsa di quelli che quel mondo e quelle storie le avevano vissute in prima persona, prima di raccontarle, i suoi nonni.

 

Certo la scomparsa dei due vecchi, testimoni degli anni che furono, di un tempo trascorso, impresso sui loro volti, penetrato a fondo nel loro spirito, era stata per lui qualcosa di speciale – pensava ora il professor Tusci – qualcosa che aveva tagliato le sue radici, che l’aveva strappato di colpo da una storia minore, da un passato che considerava parte viva di se stesso. Non a caso, proprio quel duplice lutto l’aveva reso smanioso di raccontare quel passato, di fermare sulla carta un volto, un ricordo, un’emozione, perché nulla andasse perduto di ciò che era stato, perché almeno i fantasmi di un mondo estinto continuassero a vivere sulla pagina scritta.

 

Nei racconti di Paolo, l’evocazione di un’epoca e di un mondo, seppure ampiamente nutrita dalle sue conoscenze e ricerche di storico contemporaneo, non si limita certo alla trascrizione di testimonianze e alla descrizione di luoghi e fatti. Diviene invenzione letteraria, giungendo a volte persino a sfiorare il lirismo gotico-onirico. Questo avviene in particolare nel racconto già citato, La Grotta dell’Aquila, in cui, ad un certo punto, il personaggio narrante si addentra “in stretti cunicoli […]  la faccia invischiata di ragnatele” e poi a tratti attraversa “ampie caverne in cui filtrava, chissà da dove, una pallida luce crepuscolare”. In questo viaggio fantastico, immagini diverse e inquietanti si dischiudono ai suoi occhi: il corpo di un uomo che “indossava un’armatura da guerriero medievale […]  inchiodato a terra […] da una lunga lancia, conficcata nel petto all’altezza del cuore”; e poi “una processione di “spettri in fila, con le candele in mano” che salmodiavano “Miserere nostri!! Miserere Domineee!!”; e poi un vecchio eremita che “ritto davanti al fuoco, rosso in volto, gli occhi fiammeggianti, predicava minaccioso come rivolto ad una folla sterminata di peccatori incalliti”.

È la trasfigurazione, questo eremita, delle paure infantili che si accendevano nel cuore di Lapo bambino durante le prediche di don Alfonso, il quale dal pulpito della chiesa parrocchiale narrava le storie di peccatori incalliti che, “ormai preda di Satana”, in punto di morte sputavano sull’ostia consacrata.

Ho già detto che non sono esperto di narrativa, e non mi addentro dunque nell’analisi letteraria dei racconti di Paolo, che ho letto tanti anni fa, e riletto di recente, con molto gusto e interesse. Rinvio per questo i lettori interessati alla acuta recensione del libro scritta da Giacomo Magrini per L’Ospite ingrato, rivista online del Centro Franco Fortini dell’Università di Siena.

Un aspetto del piacere che ho trovato nella lettura dei racconti dell’Orma dei passi perduti è stato quello di vedere animarsi i luoghi che da tempo conoscevo e che poi ho conosciuto meglio nel corso delle mie camminate con lui, e con anche altri amici che a volte si univano a noi (soprattutto Adriano ed Elena).  Attraverso questi racconti, l’incavo in una roccia conosciuto come Orma di Orlando, sulla cresta omonima del Monte Pisano, o Castel Passerino, o l’antico convento di Rupe Cava, o la Grotta dell’Aquila, o tutto il monte con le sue rocce, boschi, sorgenti, ruscelli, finivano di essere solo il “paesaggio” in cui si snodavano i nostri percorsi. Diventavano luoghi di storie narrate, e – in ampia misura inventate e raccontate con grande espressività creativa da Paolo Buchignani. Riprendendo le parole scritte da Calvino nella prefazione tardiva al ­Sentiero dei nidi di ragno, a proposito della sua Sanremo degli anni della Resistenza, per me, il Monte Pisano, scenario quasi quotidiano della mia vita, diventava allora – attraverso i racconti di Paolo – un luogo “interamente straordinario e romanzesco”.

Che poi cercando, sul Monte Romagna, la Grotta dell’Aquila, non vi troveremo né guerrieri medievali, né spettri salmodianti, né eremiti, e neppure stretti cunicoli in cui addentrarci, perché questa non è una grotta, ma solo una maestosa roccia del monte, senza alcuna cavità in cui penetrare, non dovrà essere fonte alcuna di deception. Ma anzi motivo in più per essere grati a Paolo-Lapo di aver narrato queste storie “perché almeno i fantasmi di un mondo estinto continuassero a vivere sulla pagina scritta”.