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“Insegnare scienze. Immaginare l’invisibile” Maria Arcà

 

girasole

“Insegnare scienze. Immaginare l’invisibile”

 

Maria Arcà

 

Premessa

L’articolo riporta l’intervento conclusivo di un incontro  residenziale  avvenuto nel maggio 2022  a San Panfilo d’Ocre, tra insegnanti uniti da anni di lavoro condiviso, al termine di  due giorni di discussioni, esperienze, confronti e serate conviviali (foto locandina). Qui, con l’aiuto e la preziosa partecipazione di amici scienziati, sono state  esplorate le  possibilità e le modalità con cui il pensiero scientifico riesce ad immaginare l’invisibile, costruendo modelli di pensiero astratto  a partire da esperienze e osservazioni di realtà.

Le discussioni si sono sviluppate intorno a “Cosa importa davvero capire a scuola”, come gestire “La conversazione nel laboratorio scientifico”, come comprendere “La complessità delle strutture biologiche”. Grande importanza è riservata al  significato delle esperienze in classe.

 Il convegno è stato organizzato da Sara Paleri, Francesco D’alessandro e Maria Arcà, con il supporto del Dirigente scolastico Antonio Lattanzi, coordinato dagli insegnanti e da quelli  che da anni hanno seguito queste modalità di formazione.

Ricordiamo e ringraziamo ancora:

 Andres Acher,  Anna Aiolfi, Roberto Argano, Emiliano Degiorgi, Annastella Gambini, Pino Macino,  Michela Mayer,  Nuccia Maldera, Paolo Mazzoli, Donatella Merlo.

Le esperienze di lavoro sono descritte nella locandina inviata ai partecipanti.  

 

Le linee guida del Convegno

Maria Arcà, Francesco D’Alessandro, Sara Paleri

 

In questi momenti di lavoro e di incontro….

 

•Vorremmo fare scienze senza cadere nella tentazione di semplificare la complessità del mondo, senza tessere attorno alla realtà una ragnatela fatta solo di nomi e formule.

 

•Vorremmo ancora meravigliarci della vita imparando a guardarla nella sua complessa fragilità, nell’intreccio dei suoi funzionamenti.

 

•Vorremmo imparare ad appassionarci a vere sfide di conoscenza, misurandoci con gli aspetti del mondo e guardando il loro continuo divenire con attenzione e rispetto.

 

•Vorremmo sviluppare il nostro pensare per modelli. Perché non pensiamo solo ciò che vediamo ma stabiliamo relazioni tra i fenomeni, relazioni che non si vedono eppure fondano le strutture portanti del nostro capire

 

•Vorremmo un linguaggio che non si stanchi di cercare il significato di ciò che si dice, che si costruisca come strumento per dialogare sul pensiero, sempre in cerca di spiegazioni, sempre mettendo in crisi soluzioni apparentemente convincenti.

 

•Vorremmo imparare a percorrere lunghi e coerenti sentieri della conoscenza con i nostri ragazzi, accompagnandoli alla scoperta di sempre nuovi punti di vista sul reale attraverso riflessioni minuziose e accorte, attente a cogliere “indizi”.

 

•Per questo proponiamo ai partecipanti, nel rispetto delle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, un modo di fare scienze a scuola che sviluppi l’attenzione alle relazioni invisibili che connettono le strutture di pensiero e i fatti di realtà.

 

•Lavoreremo quindi in piccoli gruppi su attività concrete che si riferiscono ad alcuni concetti chiave della fisica, della chimica, della biologia, con la guida di un tutor e la collaborazione di tutti

 

•Ospiti di un territorio che è tornato a scommettere sul suo futuro, di nuovo vicini, potremo finalmente riallacciare i fili di tante e diverse ricerche, di esperienze lontane che tornano a ri-conoscersi e a sentirsi unite da una stessa etica di conoscenza.

 

Intervento conclusivo

L’esperienza è solo il primo passo

 

Il divertente della conclusione di questo corso è che, dopo avervi costretto per due giorni a fare esperienze, comincerò ora a mettere in discussione proprio il fare esperienza. Io sono convinta che l'esperienza costituisca un legame forte tra noi e il mondo, e questo vale anche per i bambini.

Su come collegare il visibile all'invisibile abbiamo parlato fin troppo. Ora voglio dire che l'esperienza concreta è solo il primo passo di un percorso di conoscenza lungo e difficile. In questi giorni abbiamo pensato: facciamo esperienze, facciamo esperienze, facciamo esperienze, però questo non basta assolutamente per costruire conoscenza: esperienze si possono fare a scuola imparando poco e niente, mentre dovrebbero diventare la base per la costruzione di pensiero astratto, per la costruzione di saperi che modifichino il proprio sguardo sul mondo.

L'esperienza singola, in sé, non costruisce significato e quindi deve essere intrecciata con altre, accompagnata da riflessione e immaginazione. Bisogna che l'esperienza cresca e si ramifichi, che si diffonda nella mente come si diffonde in acqua una gocciolina di inchiostro, e che porti lontano facendo nascere più complessi modelli culturali. Perché se ci fermiamo all'esperienza o all'esperimento, isolati dal loro contesto problematico (come quelli presentati nei sussidiari) veramente è fatica sprecata, è mondo sprecato ed è tempo sprecato. Bisogna ragionare su che cosa vuol dire veramente fare esperienza, perché non si tratta soltanto di fare delle cose: è diverso perché è una attività che deve modificarci dentro, deve costruire idee mentre proviamo a vedere quello che succede. Serve per capire sia come e perché le cose cambiano, sia cosa cambia in noi e nel nostro sistema di pensiero. Quindi il messaggio forte di questo incontro è capire come possiamo prendere un'esperienza piccolina, un sasso che cade o una goccia d'acqua più o meno rotonda, e farla diventare pensiero, collegarla con dei fili di pensiero alle idee grandi della scienza. Questo è il mestiere, è l'arte didattica. Fare esperienza, altrimenti, può essere molto stupido e molto riduttivo. Il nostro stile di lavoro vuole partire dalle libere idee che nascono guardando e modificando cose per guidarle con calma verso le conoscenze che le spiegano e ci aiutano a capire meglio.

Così le cose che succedono, le mani che toccano, le sensazioni, le percezioni diventano modi di ragionare. Ma soprattutto come analizzarle?

Questa è la vera domanda: come si fa a capire? Non lo sa nessuno come si fa a capire.                           

Allora con i miei “complici”, Sara  Paleri e  Francesco D’alessandro, abbiamo cominciato a parlare da tempo di strategie cognitive. Guarda il grande, ma devi guardare anche il piccolo, guarda l'uguale, ma devi guardare anche il diverso. Guarda l’adesso, ma devi guardare anche nel tempo, il futuro. Guarda le analogie, ma devi guardare anche i fatti di realtà. Guarda le metafore, ma devi capire a che cosa si riferiscono. Ci sono tutti questi ma che sono fondamentali perché organizzano i modi di pensare, organizzano la capacità di leggere l'esperienza. E nonostante tutto, siccome la testa è dura da riempire, certe attività sperimentali bisogna farle e rifarle per guardare meglio; diventano esercizi che servono per fare pratica: ed è necessario affrontare anche la noia di un certo numero di esercizi o routines apparentemente poco significative, come fare le scale al pianoforte due ore al giorno per i pianisti; ma se non si fanno, le mani e la testa non riescono a collegarsi nel pensiero.

Si dice che bisogna partire dalle cosiddette esperienze di realtà. E qui cominciano le domande di sempre. La realtà per me è diversa dalla realtà per un bambino. Ma noi ci affidiamo alla realtà di un bambino o gli spalmiamo sopra la nostra? Quali sono la sua realtà, le sue curiosità, i suoi interessi, la sua voglia di capire? Perché un po’ possiamo provare a sviluppare e a guidare le sue realtà verso le nostre, ma presto, molte volte, seguiamo solo i nostri interessi! Magari gli accarezziamo anche la testa ma poi gli ficchiamo dentro le nostre realtà, quelle “giuste”. Prima o poi alla realtà adulta si perviene (con fatica), ma per arrivarci si deve cominciare da una realtà che quasi non conosciamo, da  una realtà  bambina che è difficile conoscere. Perché? Perché non è quella, diciamo, istituzionale, ma nasce dalla libera curiosità bambina, è quella di chi non ha la nostra esperienza e che la vive in maniera diversa da noi. E allora facciamoci gli occhi come insegnanti per imparare a vedere e a collegare queste due realtà, cominciando a riconoscere quanto pensiero si può sviluppare da cose da niente: andare in bicicletta, sudare, grattarsi, camminare… ma secondo me è difficile rendersi conto di quanta conoscenza serva per destreggiarsi nella realtà quotidiana. Le idee importanti possono essere sviluppate, come fa Francesco guardando gli scivoli delle gocce d'acqua, come fa Sara spennacchiando un cavolfiore, come fanno altri, partendo da cose da niente per far venire su nei bambini attenzione, voglia di guardare, stupore, meraviglia e consapevolezza. Il reale in sé, senza un'interpretazione, non è significativo; le piante crescono, ma se ne infischiano se noi sappiamo o no come fanno; siamo noi che abbiamo l’esigenza di capire. Accorgersi delle dinamiche, dei cambiamenti, delle relazioni che possiamo porre tra li eventi: questo è un punto importante. Ci accorgiamo di quanta scienza elementare serve per spiegare fatti evidenti? ci accorgiamo di quanta scienza elementare è già nelle spiegazioni dei bambini? Oggi abbiamo letto due frasi di una conversazione qualsiasi su una attività che i bambini avevano svolto, e non so nemmeno in che classe. Era più densa di un manuale, era più densa di un sussidiario. Ogni parola portava pensiero, osservazioni, idee, conoscenze, consapevolezza, voglia di provare altri fatti, confronti, spiegazioni e quant'altro. E quindi? Accorgiamoci che il laboratorio di scienze non serve per fare l'esperimento, ma per costruire pensiero, per costruire idee sulle cose, per ragionare, per tentare la realtà, per provocarla, per fargli dispetti, per vedere se poi ritorna indietro e fa come prima, oppure se invece è cambiata drasticamente. La scienza è questa tentazione della realtà, non è ripetere i gesti di un altro, o fare una cosa ben descritta di cui si conosce il come va a finire (e se va in un altro modo l’esperimento si considera sbagliato). Altro è il compito della scuola: guidare il pensiero a partire da una cosa normale, magari una gocciolina, e farlo diventare pervasivo attraverso diramazioni, contrasti, esplorazioni, con la prospettiva di saper attaccare la gocciolina nostra al pensiero degli altri, in modo che venga su un grappolo di goccioline di pensieri attaccate su uno stelo, come le gocce di rugiada su un filo d’erba, costruire cioè come un'impalcatura su cui si attaccano tutte le goccioline del pensiero dei bambini. E questa impalcatura è la trama della formazione scientifica, è il sostegno del pensiero scientifico costruito dai Greci fino ad adesso. Se non riusciamo ad attaccare, come le palline dell'albero di Natale, i pensieri dei bambini su questa impalcatura, il significato si perde.

Un'altra cosa importante è saper ricondurre la realtà alla sua trama essenziale, alla sua schematizzazione, e in questo gli esperimenti aiutano. Guardando un fatto, naturale o sperimentale, bisogna capire “cosa c'entra e cosa non c'entra”, cercare cioè le cause vicine e lontane, e capire l’ineluttabile: cosa non cambierebbe mai nemmeno se volessimo, quali sono le cose che invece necessariamente succedono. E poi capire come sedurre i fatti per far succedere quello che uno vuole. Non solo si diventa scienziati nel senso di acquisire competenze scientifiche, ma si diventa persone acquisendo competenze cognitive, cioè capacità di ragionare, capacità di avere pazienza, capacità di usare tempo, accorgersi delle cose, ricostruire da indizi, guardare le irregolarità. Tante scoperte importanti sono state fatte perché le cose non tornavano secondo il modello che lo studioso aveva in testa e la capacità di accorgersi delle discrepanze, di trovare lo strano, diventa fondamentale per capire altre cose e soprattutto per dire: “… ma io di questo ancora non me ne era accorta e chissà che succede…. come andrà a finire?”                                                                    

Un po’ di polemica. Accorgiamoci, diciamolo con parole, il metodo scientifico non è fatto di quelle quattro cose che stanno scritte sui sussidiari: osservazioni, ipotesi e quant'altro. È invece un metodo per capire, per accorgersi con attenzione delle cose che succedono. Serve non solo per immaginare spiegazioni dei fatti, ma per essere abbastanza sicuri che quello che si capisce corrisponde alla realtà, e per comunicare agli altri quello che si è capito.

E’ importante l'attenzione ai fatti, a come si collegano con quello che sappiamo, come lo arricchiscono o lo mettono in discussione, stimolando riflessioni che interpretano quello che succede. Bisogna poter dire a un altro:” Guarda, io ho fatto così e me lo spiego così, se lo rifai, ti succede quello che è successo a me, e vorrei sapere se la mia spiegazione ti convince” … L’altro rifà quasi le stesse cose, i risultati son un po’ diversi, si cercano le cause delle differenze, e questo accade anche in moltissimi esperimenti scientifici. Dai fatti si passa alle interpretazioni, dove bisogna trovare coerenza nel confronto tra quello che succede e quello che si pensa, tra quello che si dice e quello che si fa, tra quello che si guarda come caso particolare e si può generalizzare oppure non si può generalizzare, tra le tante idee che possono interpretare e spiegare un risultato. Interpretazioni e spiegazioni variano tra tutti quelli che si occupano di uno stesso  problema, i dati vengono letti anche alla luce delle idee e della cultura di chi interpreta, e ciascuno porta le sue prove, tentando di essere convincente, fino a convergere sulla spiegazione più completa e comprensiva.  La rete di confronti, di osservazioni, di prove… permette alla fine di avere un minimo di certezza sulle cose che succedono. Blande certezze, insomma…. E questo lavorio di tentativi ed errori, di spiegazioni tentative, di proposte per costruire un modello convincente viene banalizzato con bambini (e insegnanti) che scimmiottano un processo che invece è lungo e suggestivo, fondato sulla accortezza delle osservazioni, sulla proposta di spiegazioni, sulla speranza di trovare fatti che le confermino, sulla necessità di argomentare per convincere altri delle proprie idee.

Ma tutto questo lo sappiamo già da tempo.                                

Mi importa di più ragionare sul tipo di esperienze che portiamo a scuola. Quali sono le esperienze su cui vogliamo far ragionare i bambini? Come si scelgono? E’ chiaro che per cominciare si può accettare quello che i ragazzini portano in classe.  Lui ti porta il verme e la maestra lo spiaccica vigorosamente sulla cattedra, oppure ti porta il verme e si comincia a ragionare su quello.  Queste possono essere esperienze episodiche, importanti perché sono modi di far entrare in classe momenti della vita dei bambini. Poi ci sono esperienze meglio programmate e specifiche, che devono essere fatte con una certa cura, sapendo dove portano e che problemi aprono. Non si tratta di stupire facendo l'esperimento della matita spezzata nell'acqua o cose del genere: il lavoro in classe deve suggerire domande ed essere suggerito da domande, da un'idea di ricerca, da un interrogarsi su qualche fenomeno. Ogni insegnante ha il suo repertorio di esperienze, sa come interrogare un fatto e sa quali problemi possono nascere. Non si tratta di sgranellare una esperienza al giorno, ma di costruire un ambiente cognitivo tale per cui quella domanda, quella osservazione, quella esperienza possono avere senso e diventare produttive. Per questo l’attività proposta da una pagina qualsiasi del sussidiario, ed anche dalle 100.000 esperienze riportate nei libri rivolti agli insegnanti, mi danno un po’ fastidio: perché sono decontestualizzate, non nascono da una esigenza reale e non hanno uno scopo ampio; e le cose decontestualizzate in classe funzionano ben poco.

Come insegnanti, non dobbiamo solo insegnare ma dobbiamo aver cura del pensiero che si forma. Avere cura del pensiero in formazione è una frase che ogni insegnante dovrebbe avere stampata nel cervello, e riflettere su come far crescere il pensiero di ogni bambino, che deve essere portato su, e alimentato a modo proprio. A me piace additare, suggerire a gesti più che dire parole. E mi spiego.  Tante volte in classe quando i ragazzi sono in circolo e si parla a giro, l'insegnante fa una domanda e sembra che nessuno sappia rispondere. Allora basta fare con le mani dei gesti per portare l'attenzione su qualche piccola cosa, additare per orientare la direzione dello sguardo e del pensiero. Così quelli che sono furbi capiscono qual è la strada, e dopo un po’ vengono le parole. Ogni giorno si sviluppa questa cura del non dire ma di far dire, del non far succedere ma di organizzare un contesto in cui qualcosa succeda; e fare in modo che  i ragazzi trovino le parole giuste, cercando la problematicità nelle situazioni predisposte ma soprattutto in quelle inaspettate. Ragionare sull'ovvio sì, perché bisogna capirlo, ma anche su quello che non è ovvio, in modo che le idee crescano ramificandosi, ampliandosi e collegando pensieri nuovi.

Non solo dobbiamo dare, ma dobbiamo chiedere. Un insegnante che cosa chiede ai suoi bambini? Intanto di essere presenti con le mani, con la testa, con il corpo. Ma chiede anche autonomia. Pensa da solo, pensa a quello su cui si sta ragionando. Che idee ti vengono in testa? Ricordate la conversazione di stamattina sulle forze? L'insegnante chiedeva poco o niente, ma era un incoraggiamento vivente per i bambini, facendo in modo che venisse   loro la voglia di parlare e quindi sviluppando la capacità di discutere, di raccontare, di argomentare, di tenere il filo del discorso. Io lo dico per scherzo, ma odio i nonni, perché tutte le volte che si fa un discorso in classe non c'è niente da fare, c’è sempre un intervento su “… perché mio nonno mi ha portato al campo…” e comincia una lunghissima storia sulle esperienze fatte col nonno,  che portano moltissime esperienze vive ma fanno deviare la discussione. Bisogna riuscire a tenere il filo del discorso, nonostante i nonni, spesso aiutandosi con schemi o rappresentazioni grafiche, sui cartelloni o alla lavagna.

 

I disegni possono rappresentare pensiero ed emozioni, aiutare a vedere relazioni e si può insegnare sia ad evitare gli scarabocchi sia ad esprimersi graficamente.  Non si tratta del solito invito distratto, fatto dopo qualsiasi lavoro:” bambini, fate il disegno. No. Lo scopo è diverso: “Bambini fate un disegno che mi faccia capire che cosa abbiamo visto, di che cosa  abbiamo parlato”.  E si vedono anche bambini piccolissimi che esprimono graficamente idee importanti. E non trascuriamo il gioco meraviglioso di trovare esempi e analogie, sviluppando con i più grandi quelle metafore complesse che sono veramente il succo vitale della loro conoscenza.                                  Per concludere, bisogna imparare a diffidare. Diffidare delle risposte corrette. E’ più importante la risposta pensata che la risposta corretta, l'importante è problematizzare le risposte corrette, non prenderle come oro e mettersele in tasca, tirandole fuori per fare scena. Diffidare delle nomenclature. Diffidare dalle dimostrazioni convincenti. Cerchiamo di non essere mai convinti dall’ istituzionale. Cerchiamo di indagare sui significati quanto più possibile, aprendo le parole per farne uscire il significato e modificare pensiero e realtà in maniera problematica. Impariamo a vedere quello che i bambini vedono. Diffidiamo del linguaggio che dice che le piante si nutrono visto che, poverette, non hanno né bocca né altro. Diffidiamo dei batteri che si nutrono senza bocca, oppure che hanno funzioni antropizzate, quando loro hanno un corpo fatto a modo loro e cerchiamo di non usare le parole adatte ad un corpo come il nostro, applicandole ad altri viventi diversi da noi. Abituiamo i bambini a parlare, ma con rispetto delle loro parole. Possono parlare solo se qualcuno li ascolta. Noi dovremmo saper raccogliere le discussioni, leggerle, leggerne dei pezzi, confrontare i diversi interventi in modo da accorgersi di quali modelli sono dietro le parole dei bambini. Perché molte volte le parole sono una cosa e i modelli sono un'altra. E quindi far convergere le parole è un conto, ma far convergere i modelli è molto più difficile. Questo è quello che mi piace: lanciare frecce verso altri percorsi, in modo che quello che si dice qui possa aprirsi e sparpagliarsi in tante altre direzioni, in modo che attraverso il discorso, il pensiero possa crescere, e da ogni piccola cosa rinascano nuovi percorsi.

E adesso dico che questa storia del bambino come piccolo scienziato, mi fa veramente rabbia. Il bambino è proprio soltanto un bambino, non è un piccolo scienziato rompipalle che scimmiotta i suoi adulti, né è uno che ha memorizzato quel po’ di nozioni che l'insegnante gli tira fuori dalla testa come i pesci con l'amo. È invece importante farlo diventare un grande scienziato, senza pensare che abbia già incorporato tutto il sapere. Il pensiero si costruisce, si costruisce lentamente, con pazienza, con fallimenti e atroci delusioni, con garbo, con cura, con attenzione, con rabbia. Con tutto quello che volete, ma si costruisce nel tempo e deve continuare a crescere confrontandosi con il succedere delle cose. Non c'è niente di già fatto e stiamo cercando di fare qui con voi questo sforzo di costruzione, anche dicendo cose di male sul nostro stesso conformismo, evitando anche quel rispetto adorante con cui pare debba essere trattato il fanciullo o l'insegnante in ricerca. Guardiamoci in faccia e guardiamo le cose come stanno e se c'è da lavorare lavoriamo, se c'è da essere in disaccordo siamo in disaccordo, se siamo d'accordo tanto di guadagnato e cerchiamo comunque di crescere insieme. Questo è quello che speriamo che succeda.                          

Ci vediamo nella prossima vita.