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I dolci Santi

 

occhietti di Santa Lucia

I dolci Santi

 

Luciano Luciani

 

I Santi, ha scritto qualcuno, vivono con noi. Lo fanno con discrezione, ma aderendo alla parte nostra più propria, più intima: il nome di battesimo. Nomen omen: nel nome c’è un presagio, un augurio. Una promessa di quello che davvero potremmo essere se solo ci modellassimo, appena un po’ di più di quanto in genere facciamo, su quel paradigma di umanità di cui portiamo, non sempre degnamente, il nome.

Ma c’è una dimensione ancora più profonda, antropologicamente più densa e più forte della sopravvivenza dei Santi nella vita quotidiana di tutti quanti noi: il loro legame, coi cibi, coi sapori, gli odori, le sensazioni tattili, i colori degli alimenti che ci danno piacere, in cui ci riconosciamo e che hanno segnato e segnano indelebilmente la nostra storia personale, i nostri ricordi. Ad essi ritorniamo volentieri con la memoria materiale, fisica congiunta al gusto, al tatto, all’olfatto, alla vista… Vi dicono niente, in proposito, les petites madeleines di Marcel Proust? Oggi lo affermano con assoluta sicurezza anche i neuroscienziati: l’olfatto e il gusto hanno un ruolo fondamentale per la memoria e il recupero dei ricordi. E molti sapori e molti cibi li colleghiamo a nomi di Santi. Alcuni esempi: a Roma san Giuseppe è frittellaro; in Toscana vanno ancora fortissimo i brigidini di Lamporecchio che legano da secoli  santa Birgitta, un’oscura monaca svedese, con un fragile dolcetto della montagna pistoiese; e il 13 dicembre è santa Lucia... con tutti i sapori che seguono.

 

13 dicembre

Gli “occhi di santa Lucia”

 

Martire del IV secolo, tra storia e leggenda, la siracusana Lucia, gode ancora, almeno a giudicare dall’onomastica diffusa, di un largo seguito popolare. Il suo nome che contiene la radice della parola latina lux, luce, viene antifrasticamente festeggiato dalla Chiesa alla data del 13 dicembre, corrispondente nell’antico calendario giuliano al solstizio d’inverno, “il giorno più corto che ci sia”.

Esemplare la storia della sua testimonianza di fede. Promessa in matrimonio dalla famiglia a sua insaputa, aveva, invece, per amore di Cristo, fatto voto di castità. Ottenuto da un pellegrinaggio miracoloso sulla tomba di sant’Agata di Catania lo scioglimento del vincolo nuziale, fu però vittima della vendetta del fidanzato per nulla disposto a rassegnarsi facilmente allo scioglimento della promessa e alla possibilità di un buon matrimonio con una fanciulla di nobile e ricca famiglia. La leggenda vuole che per significare la sua totale fermezza nel voto Lucia si strappasse gli occhi e li inviasse al promesso sposo su un vassoio. Ma questo, non ancora soddisfatto, la chiamò in giudizio davanti al proconsole romano non solo per la rottura della promessa matrimoniale, ma, accusa gravissima, per la frequentazione con i cristiani. Pascasio, il funzionario imperiale, la condannò, allora, a una pena infame: essere condotta e costretta a vivere in un lupanare per essere profanata nel corpo e nella sua dedizione a Cristo. Ma il rappresentante del potere romano non aveva fatto i conti con la forza dello Spirito Santo che rese la fanciulla pesantissima e, quindi, inamovibile. Solo dopo altre atroci torture, ferita mortalmente alla gola, Lucia spirò. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa veneziana che porta il suo nome, mentre i suoi occhi sono venerati a Napoli nel tempio cristiano di san Giovanni maggiore.

 

Tarallini detti “occhietti di santa Lucia”

Ingredienti:

- 1 kg di farina di tipo 00;

- 200 gr di olio extravergine;

- un pizzico di sale;

- 200 gr di vino bianco secco.

Impasta la farina, l’olio, il vino e il sale fino a ottenere un amalgama dalla consistenza morbida. Stendilo e con la pasta realizza dei bastoncelli con cui confezionerai dei tarallini. Cuocili in forno a 150° per circa 20 minuti. Completata la cottura, tuffali nella glassa e falli asciugare.

 

La “cuccìa”

 

La salvifica “cuccìa”

In Sicilia, ma anche in Lucania, Puglia e Calabria, il giorno di santa Lucia viene celebrato con la “cuccìa”, dolce ben augurale e foriero per la famiglia di felicità, benessere, ricchezza... Racconta la tradizione che in un lontano 13 dicembre, mentre la popolazione languiva per una terribile carestia, si vide arrivare in porto una nave carica di grano. Era tale la fame che quella gente non attese a macinare il grano per farne farina per il pane, ma decise di cibarsi di quel grano appena appena bollito. “Cuccìa, cuccìa”, “è cotto, è cotto”, fu il grido con cui quei cuochi improvvisati sollecitavano gli affamati a cibarsi di quell’alimento salvifico, semplici chicchi di grano cotto. Il ricordo di quella povera mensa, tanto magra quanto miracolosa, si trasformò col trascorrere del tempo in una festa e per il 13 dicembre divenne consuetudine nelle famiglie presentare in tavola un dolce di grano bollito condito con miele, vino cotto, ricotta canditi a cui nel corso degli anni si sono aggiunti cioccolata calda, noci, scorze d’arancia, chiodi di garofano… Un profluvio di dolcezze che potrebbe risultare stucchevole a qualche palato e che ci sollecita a proporre la versione calabrese della “cuccìa”, più sobria e con un minore tasso glicemico.

 

“Cuccìa” calabrese

Ingredienti:

- 100 gr di grano tenero;

- 300 gr di ceci, fagioli, lenticchie, gherigli di noce;

- una manciata d’uva passa che avrai fatto rinvenire nell’acqua tiepida;

- miele d’api.

 

Metti a bagno in acqua tiepida per 12 ore ma separati il grano e i legumi. Lessali separatamente, scolali e passali in un tegame nel quale avrai fatto sciogliere il miele d’api. Aggiungi le noci spezzettate e l’uvetta. Amalgama e servi freddo.

 

 

“Cuccìa” siciliana

Ingredienti:

- 1 kg di grano duro;

- 1 manciata di ceci;

- miele d’api per condimento.

 

Metti a bagno in acqua fredda per 12 ore il grano e i ceci, separatamente, poi scolali e falli cuocere insieme per circa 40 minuti o un po’ di più dal momento dell’ebollizione. Scolali e servili in una ciotola tiepidi o freddi, e brodosi, da mangiare con il cucchiaio, conditi con un po’ di miele.

In questo giorno, il 13 dicembre, in tutta la Sicilia, nei tempi andati e in alcune famiglie anche oggi, si cominciava con la “cuccìa” a colazione e si continuava durante gli altri pasti aggiungendo solo riso e patate, conditi con poco pomodoro. Un giorno in cui ci si asteneva dalla carne.