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Osservazione e fantasia

 

 

Osservazione e fantasia

 

Maria Arcà

 

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sussidiari

Dunque non c’è sussidiario di scienze o libro di testo di scuola secondaria che non cominci con la sommaria descrizione delle quattro tappe del metodo scientifico, ritenuta indispensabile da qualsiasi Casa Editrice che si rispetti. Prima tappa, l’osservazione. Nella sindrome del Fare Scienze didattico, osservare cose semplici, cioè portare lo sguardo su quello che abitualmente si vede senza farci troppo caso, è veramente poco scientifico e sembra non meritare l’attenzione e la cura né dei ragazzi né degli insegnanti. Meglio parlare delle onde gravitazionali o del DNA oppure, con i bambini più piccoli, delle fondamentali differenze tra evaporazione e vaporizzazione. Così, senza osservarle mai, si continua a studiare il ciclo dell’acqua con la classica figura della nuvoletta sulla cima della montagna (in pianura non piove mai) disegnando sui testi le gocce d’acqua con la loro inesistente codina. Del resto, nessuno si prende cura di osservare le vere gocce d’acqua che, in caso di pioggia, cadono nelle pozzanghere facendo bellissimi cerchi che si muovono con interessanti trasferimenti di energia. Non si osserva la pelle delle proprie mani, né le venature azzurrastre che traspaiono sui polsi ma si chiede di sapere quante sono le ossa lunghe e le ossa piatte nel corpo. Non si osserva la buccia delle arance nè come cambiano le sezioni trasversali delle mele fino a quando compaiono i semi, ma si parla di come si classificano briofite e pteridofite senza che i bambini sappiano di averne spesso viste alcune a Natale; non si osservano le briciole dei biscotti così diverse da quelle del pane né il modo in cui il colore del tè si diffonde nell’acqua bollente e non nell’acqua fredda, perché è più facile fare una lezioncina su atomi e molecole. I bambini dell’infanzia potrebbero cercare di raccontare come si muovono piedi e ginocchia, mani e gomiti per gattonare ma non sono queste le osservazioni degne di un fare scienza secondo la maggior parte delle maestre. Così gradualmente i bambini imparano ad osservare… le parole dei libri, i pupazzetti che secondo gli autori rallegrano il fanciullo nell’arduo compito della lettura (e dell’imparare a memoria quello che si è letto), osservano disegni sistematicamente fuori scala che accompagnano l’esperimento (terza tappa del M.S.) solitamente proposto dall’insegnante.

La capacità di dare forma di parole a quello che si vede, magari inventando parole lontane da quelle con vera etimologia latina (quelle scientifiche) per esprimere percezioni e idee costituisce – in un insegnamento colto- una sorta di impalcatura grezza, capace però di sorreggere un pensiero in formazione, un interesse non condizionato dalla saccenza. Imparando a guardare con cura e interesse le tante cose apparentemente banali che costruiscono la quotidianità si impara ad aprire le porte ad una possibile curiosità scientifica vera, a trovare domande che portano gradualmente ad allargare il proprio punto di vista, a mettere collegamenti tra le cose che si vedono e quelle che si sono già viste, guidando l’interesse verso una conoscenza meglio organizzata del mondo reale. E si cominciano ad immaginare variazioni sul tema: e le gocce d’olio… e le gocce di miele saranno diverse da quelle dell’acqua? avranno o no la codina? E come mai? E la pelle delle mani dei vecchi è più o meno trasparente di quella di un bambino? La ricerca di variazioni è uno strumento cognitivo formidabile per la costruzione di pensiero scientifico ma purtroppo non rientra nell’elenco sedicente galileiano delle necessarie caratteristiche del fare scienza. Le osservazioni truccate, come le generalizzazioni a partire da un unico esempio che funziona (è il caso dell’acqua, con il suo comportamento veramente particolare), non danno conto della molteplice varietà dei fenomeni che richiedono di essere osservati – e poi capiti- nella loro specificità. Quindi, ri- raccontare l’esperimento standard proposto da tutti i sussidiari sull’evaporazione dell’acqua –III tappa (anche se non nasce da nessuna ipotesi di stuttura -II tappa) può servire ai ragazzi per superare una “verifica” (di che tipo di sapere? IV tappa) e seppure rimanda alle caratteristiche dell’acqua non è particolarmente utile a capire perché l’olio non evapora, o perché la carta, al fuoco, invece di fondere preferisce fare una bella fiammata, mentre l’alcool evapora e brucia. Fatti di realtà che richiedono, per essere spiegati una apertura di sguardi più ampia e più ricca della semplice distinzione tra fenomeno fisico e fenomeno chimico, o della complessa tabella su tutti i vari tipi di passaggi di stato, solitamente poco adatta per costruire conoscenza in un ragazzino. 

Agli insegnanti, debitamente condizionati dai loro libri di testo, manca proprio la fantasia per fare scienze sul serio, cioè per indagare con curiosità e con crescente competenza quello che succede nel nostro mondo. Oggetti e fenomeni sono assolutamente “normali”: che bisogno c’è di farsi tante domande? E che domande, poi? La normalità del succedere appiattisce qualsiasi curiosità, qualsiasi voglia di capire cause e possibili cambiamenti. Invece, la conoscenza scientifica si è costruita gradualmente nel tempo proponendo (tentativamente) idee e modelli di funzionamento sostenuti da osservazioni, talvolta casuali, talvolta organizzate, sfidando ogni volta le tante interpretazioni possibili per fare emergere quella più plausibile delle altre. Questa è la dinamica di pensiero che bisognerebbe far crescere nei bambini prima di appiattire le loro possibilità di osservazione sotto il peso di vere verità da imparare a memoria. Tabelle, schemi ed anche certi esperimenti (spesso irrealizzabili a scuola) sono i risultati di modi di guardare e di pensare i fatti, sono le conclusioni di percorsi fatti da qualcuno e io penso che, nel fare scienze, bisognerebbe dare ai bambini la possibilità di gustare il piacere del percorso, e non solo quella – piuttosto modesta- di ricordare il nome delle tante destinazioni raggiunte da altri viaggiatori del pensiero.

Penso che analoga mancanza di fantasia si trovi nell’insegnamento della aritmetica-geometria elementare, in cui vengono proposte situazioni numeriche di nessun interesse e figurelle geometriche condizionate dall’iconografia tradizionale. E’ il caso delle tristi vicende dei venditori affaristi che vogliono guadagnare vendendo quantità improponibili di oggetti inutili, o della classificazione delle rette, orizzontali verticali o oblique, disposte sulla paginetta senza alcun sistema di riferimento spaziale… e così via. Può sembrare strano, ma gli unici esempi di fantasia nelle richieste dei matematici ai ragazzi non si trova nei testi ma… nelle prove INVALSI che cercano di valutare non tanto il nozionismo rituale quanto le capacità di pensiero matematico nei ragazzi italiani. L’avversione degli insegnanti per queste prove nasce, in buona parte, proprio dalla richiesta in fantasia, nella velocità di intuizione che i ragazzi dovrebbero aver sviluppato nel loro percorso didattico. Questa creatività manca nelle centinaia di espressioni aritmetiche, gioia della scuola media, come manca nell’apprendimento tradizionale delle formule di geometria: le strategie di confronto, di composizione e scomposizione fondate sulla concezione dello spazio, sulla manipolazione astratta dei simboli, sulla fluidità del pensiero e sulla invenzione di possibilità, sulla fantasia dello sguardo sono sistematicamente assenti. Ed anche l’INVALSI verrà abolita...