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Dietro le quinte di "Lessico famigliare"

 

Lidia Tanzi foto

Dietro le quinte di "Lessico famigliare"

 

La “dotta ignoranza” di una madre gioiosa

 

Marco Piccolino
 
In quelli di noi che hanno letto, magari in tempi ormai lontani, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, saranno forse rimasti i ricordi sfumati di alcune parole singolari; e tra queste, in particolare, le “malagrazie”, gli “sbrodeghezzi”, i “potacci” che prorompono subito all’inizio con tono imperativo dalla tuonante voce paterna, quella di Giuseppe (Beppino) Levi, “il professore”, di cui - rimanendo all’interno del testo - riusciamo a identificare le generalità solo in modo indiretto. Questo accade quando, rifugiatosi a Firenze durante le persecuzioni razziali con il cognome mutato in Lovisatto, egli si lascia sfuggire di chiamarsi “Levi. No, via, cioè, Lovisatto”.
Parole o frasi singolari, che - ci dice Natalia - sono “il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d'un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo”.
Altri vocaboli del lessico paterno che ricorrono con frequenza nel libro della Ginzburg sono “sempiezzi” (anche nella varietà aggettivale di “sempio” o “sempia”), o “fufignezzi”, o “sgarabazzi”, o “ciuciottare”, termini tutti che portano con sé la connotazione negativa del rimprovero o della disistima; così come “vaniloquio”, “impiastro”, “asino” o “asina”, o addirittura “asinissima”, “negri” o persino “negrigure”, usati per stigmatizzare in tono perentorio comportamenti variamente impropri di membri della famiglia.
Contrapposta alla figura paterna imperante e severa dello studioso, tutto assorto nella sua scienza e nelle sue passioni (“le cose che mio padre apprezzava e stimava erano: il socialismo; l'Inghilterra; i romanzi di Zola; la Fondazione Rockefeller; la montagna, e le guide della Val d'Aosta”), è la figura materna, Lidia, che - a parte il socialismo - amava cose diverse (“le poesie di Paul Verlaine; la musica e, in particolare, il Lohengrin, che usava cantare per noi la sera dopo cena”). Tutte cose che “il professore” disdegnava o disprezzava, e tra queste persino Proust, lo scrittore francese da poco conosciuto in Italia, che Lidia, seguendo la figlia maggiore Paola e amici di famiglia (Debenedetti e Terni), aveva letto e “amava moltissimo”. Al marito curioso di tanto interesse, Lidia rispondeva che Proust era “uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l'asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza”. Ricevendo per tutta risposta una frase lanciata da Levi nel suo solito modo perentorio “Doveva essere un tanghero”, parole che sembrano sancire l’irriducibile distanza e insanabile contrapposizione tra il severo spirito scientifico del professore e le più lievi passioni culturali o artistiche della moglie.
Più ancora della figura paterna è comunque Lidia, la madre, a dominare la scena, o - ci verrebbe da dire - con il professore - “il teatrino” di casa Levi. Vista nella prospettiva infantile della narratrice-autrice come espressione della leggerezza femminile, a tratti anche un po’ frivola, e dell’affetto materno fonte di sicura “protezione”, ma anche di spensierata allegria, utile a stemperare la severità burbera - e a tratti decisamente pesante - creata dall’irruenza paterna. La madre che ama il cinematografo e il teatro, che va in città per “guardare, nelle vetrine, «i vestiti di seta pura»”, insieme a Paola, la figlia più grande, che le “dava più spago” di Natalia, sempre “scura, imbronciata”; che si taglia i capelli corti, seguendo le indicazioni “della Frances” (cioè di Frances Strauss-Herlitzka, indicata come Lopez nel testo di Natalia), l’amica di famiglia appena rientrata da Parigi, con le ultime notizie di moda; Lidia che si preoccupa delle sartine o delle serve di casa, che ci tiene anche lei, come la sorella Drusilla, alla “robina” di famiglia, che circonda figli e nipoti di un affetto allegro e rassicurante (a proposito di Gino, il primogenito, diceva: “È bello anche Gino… Com'è simpatico Gino! Il mio Ginetto! A me mi piacciono solo i miei figli. Io mi diverto solo con i miei figli!”).
La mamma che intona il Lohengrin, e crea e recita versi nonsense o filastrocche, e che ha addirittura composto e musicato un’opera che inizia così:
 
Io son don Carlos Tadrid,
E son studente in Madrid!
Mentre andavo una mattina
Per la via Berzuellina,
Vidi a un tratto a una finestra
Una giovane maestra!
 
Tra queste creazioni di Lidia ce n’è una che ci interessa qui in modo particolare, e che, inserita nel Lessico famigliare, sembra convalidare l’immagine della figura materna come archetipo di allegra leggerezza femminile:
 
Salve o ignoranza,
Al tuo pensier mi cessa il mal di panza!
Salute regna ove tu sei,
Lasciam lo studio ai maccabei!
Beviam, danziamo e non pensiamo,
Facciamo festa!
Or tu Musa ispirami un concetto,
Dettami tu quel che mi dice il cuore,
Dimmi tu che il filosofo è molesto,
Nell'ignorante trovasi l'amore.
 
Questo “inno all’ignoranza” ritorna - oltre che nel testo di Natalia - anche nel libro scritto dal fratello Gino, nel 1995. È però differente la prospettiva con cui ci viene presentato, e che fa intravedere una speciale intelligenza di Lidia, una intelligenza che – in qualche modo – va oltre il sapere scientifico di Giuseppe, “il professore”.
Scrive Gino:
Il modo, la voce, gli atteggiamenti della mamma quando ci cantava questa filastrocca, nell'interpretazione nostra, ce la facevano apparire come un invito a interrompere ogni tanto lo studio nella sua versione scolastica, a dare sfogo alle energie fisiche giovanili. Suggerivano altresì che lo studio non esclude l'allegria, non esclude di godere di quanto la vita può offrire. Ricordavano infine che la cultura, per non essere gelida, per non apparire scostante, inoperante, non può prescindere dai generosi sentimenti d'affetto, d'amore, dai moti del cuore, e questi non tengono conto dei titoli di studio. Così la mamma ci faceva intendere come comporre apparenti opposti: ignoranza e sapere, spensierata fantasia e severo impegno nello studio. Un pizzico di fantasia, una modica sniffata d’irrazionalità non guastano nella vita dell'uomo e della società. Anzi si rivelano spesso come la scintilla che da fuoco alla scoperta, all'invenzione. Il dimenticarlo potrebbe far perdere allo scienziato, come all'ingegnere qualcosa dell’incontaminata purezza, del verginale cantore mentale dell'analfabeta, dell'ignorante integrale che privo di alcun appoggio altrui, di ogni punto di riferimento è il sole essere umano che possa dirsi veramente libero.
 
Di Giuseppe Levi, grande studioso di anatomia e precursore delle tecniche moderne dell’indagine biologica, cominciamo ora a sapere molto, soprattutto per l’interesse che negli ultimi decenni la sua figura ha richiamato, da due diverse direzioni. Da quella scientifica, perché - oltre alle sue importanti scoperte personali nello studio dell’istologia e dell’embriologia - egli ha avuto il merito di avviare alla ricerca scienziati importanti, tra cui tre premi Nobel (Renato Dulbecco, Rita Levi-Montalcini e Salvador Luria). Da quella letteraria perché, appunto, padre di Natalia Ginzburg, che lo ha immortalato nel suo Lessico.
Di Lidia Tanzi, la moglie, altra, e – forse principale – protagonista del capolavoro di Natalia, conosciamo invece poco. Dal Lessico veniamo a sapere, nel solito modo indiretto, che il suo cognome era Tanzi; che la famiglia era di origine triestina, e suo zio (Eugenio Tanzi) uno scienziato importante (chiamato però in casa, con transitiva ironia, “Il Demente”, perché direttore della Clinica psichiatrica di Firenze). Sappiamo, inoltre, che Lidia era nata a Milano, doveva aveva frequentato le scuole in un collegio di monache, e poi (a sedici anni) si era trasferita a Firenze per continuare gli studi. Qui – ci dice Natalia - “si iscrisse in medicina; ma non finì mai l'università, perché conobbe mio padre, e lo sposò”. Sappiamo anche – sempre da Natalia - che la madre di Giuseppe, ebrea di origine pisana (Emma Perugia) “non voleva quel matrimonio, perché Lidia non era ebrea”, ma che alla fine acconsentì, sebbene mantenesse in alcune occasioni un tono di severo rimprovero verso la famiglia del figlio (“voi fate bordello di tutto. In questa casa si fa bordello di tutto” – usava dire”).

 

anna 

Se indaghiamo, per quello che si può a distanza di tanto tempo, la vita di una persona ricordata apparentemente solo perché moglie o madre di persone celebri, possiamo scoprire notizie sorprendenti , che rimettono in parte in questione l’immagine di Lidia che filtra tra le trame del Lessico di Natalia. Notizie che ci aiutano a capire come – con la sua apparente leggerezza – Lidia non era per nulla inferiore intellettualmente al marito, e forse proprio per questo riusciva a tener testa al professore e a controbilanciarne l’irruenza potenzialmente devastante.

 

Forse non inferiore - si dirà - Lidia al marito, dal punto di vista dell’intelligenza umana e della cultura letterario-umanistica.
Non inferiore neppure, come vedremo - almeno alla partenza - nella dimensione della cultura medico-scientifica. Basterà consultare, grazie all’aiuto di gentili e competenti archiviste, i “registri della carriera” relativi rispettivamente a “Levi Giuseppe” e a “Tanzi Lidia”, entrambi studenti nella Sezione di Medicina e Chirurgia del Regio Istituto di Studi Superiori, pratici e di perfezionamento in Firenze, sebbene in anni diversi. Il confronto è possibile solo per i risultati del primo anno (in seguito Lidia, ormai alle soglie del matrimonio con Giuseppe, lascia Medicina e si trasferisce a Scienze Naturali, che rapidamente abbandona con la nascita di Gino).

Negli esami del primo anno del corso di Medicina, sostenuti tra il 1890 e il 1891, il futuro grande scienziato ha una media men che mediocre (22,6), con un doloroso “diciotto” in “Zoologia dei Vertebrati” (cosa davvero sorprendente per uno studioso che applicherà ampiamente il metodo comparato allo studio embriologico). La “leggera” Lidia invece, negli esami che affronta tra il 1899 e il 1890 (anno in cui cambia corso), ha la media del tutto rimarchevole di 27,8, con ben due “trenta e lode”, uno dei quali proprio nella materia in cui il futuro marito era inciampato in modo così catastrofico.

Si dirà che poco brillanti carriere scolastiche non precludono successive importanti affermazioni professionali, soprattutto in campi, come quelli della ricerca biologico-medica, in cui il genio è in ampia misura frutto di una lunga fatica.
Tutto vero, questo! Ed è anche vero che il futuro professore si rifarà negli anni successivi con voti brillanti nelle discipline fondamentali del corso di laurea.
Riportando però l’attenzione sugli inizi molto promettenti negli studi medici di una giovane donna seria e intelligente - come indubbiamente fu Lidia Tanzi nei suoi brevi anni universitari - vorremmo però, sottolineare le difficoltà e gli ostacoli che - oltre un secolo fa (e anche in tempi meno lontani) - si frapponevano all’affermazione scientifica e professionale delle donne, per capaci e brillanti che fossero. Le loro forze sono state imbrigliate per secoli da un mondo che ha privilegiato il ruolo pubblico degli uomini, costringendo le donne nei limiti della famiglia, nella quale si ritagliavano ruoli necessariamente minori, e in cui Lidia seppe manifestare de toutes façons la sua vivificante allegria e la sua intelligenza, anche componendo, con sapiente ironia, il suo “inno all’ignoranza”. Rincuorava così i figli in difficoltà, permettendo che maturassero in loro, in piena libertà, le loro energie morali ed intellettuali, che - come ci ricorda il primo dei suoi figli - hanno bisogno di non essere soffocate, e devono essere invece lasciate allo stadio “dell’incontaminata purezza, del verginale candore mentale dell'analfabeta dell'ignorante integrale”, per poter fiorire poi in modo davvero libero.
 
Lidia ritratta insieme con il marito, Giuseppe Levi a Forte dei Marmi
 
Fig. 1. Un ritratto fotografico di Lidia Tanzi © Archivio Levi-Ginzburg 
Fig. 2. Lidia Tanzi (a destra) negli anni degli studi universitari, fotografata insieme ad Anna Kuliscioff, sua grande amica che la considerava come una figlioccia e la chiamava affettuosamente Lydiett. La foto è stata probabilmente scattata nel 1900 a Milano, nell’occasione di una inaspettata visita di Lidia alla casa di Anna, nella zona di Piazza del Duomo. © Archivio Levi-Ginzburg
Fig. 3. Lidia ritratta insieme con il marito, Giuseppe Levi, in vacanza sulla spiaggia di Forte dei Marmi. © Anna Olivetti
 
Nota: Questo articolo in forma ridotta  è stato pubblicato da "la Stampa" del 25 aprile 2019