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Giuseppe Levi e i giovani scienziati ebrei perseguitati 1. Hertha Meyer

 

La foto dell’archivio nazionale brasiliano scattata il 20 aprile 1939, in relazione alle procedure di immigrazione di Hertha Meyer. Immagine significativa, anche perché sembra rappresentare in modo iconico le sofferenze e le umiliazioni a cui andò incontro chi tentava di fuggire dall’Europa delle guerre e delle persecuzioni razziali.  © Archivio storico dell’Istituto di Biofisica “Carlos Chagas filho” di Rio de Janeiro.

Giuseppe Levi e i giovani scienziati ebrei in fuga negli anni delle persecuzioni razziali e della guerra:

 

1 • Hertha Meyer

 

Marco Piccolino ©

 

In un numero precedente di NATURALMENTE avevamo parlato della storia di un vetrino istologico con una sezione dei gangli spinali del pesce luna, preparato da Giuseppe Levi negli anni del suo soggiorno a Palermo come professore di anatomia, e giunto fino a noi per le complesse vie della piccola storia più o meno personale. (1
La vicenda umana e scientifica di Giuseppe Levi e delle sue ricerche si incrocia in vari momenti con la grande e drammatica storia del Novecento. In una prima fase – come abbiamo già messo in evidenza nel precedente articolo – con la storia della prima guerra mondiale, che vede lo scienziato trascorrere gran parte del periodo della cattedra palermitana non nella città siciliana, ma nei campi di battaglia del nord, nella zona delle Dolomiti, ad Alleghe, dove – come ci racconta il figlio Gino (Levi) Martinoli – pur non essendo Levi per nulla militarista, affrontò con coraggio i pericoli e i disagi della guerra, e anzi sembrò approfittare della situazione non proprio favorevole, per dare sfogo alla sua passione per la montagna, tra l’altro usando gli sci per i suoi spostamenti (cosa all’epoca abbastanza non convenzionale, soprattutto per gli ufficiali).
La seconda fase – ben più complessa e dolorosa sia per lui che per i membri della sua famiglia e per i suoi collaboratori – corrisponde al periodo della seconda guerra mondiale, sebbene le difficoltà per i Levi inizino prima, con l’avanzare della pervasiva presa del fascismo sulla società italiana e, soprattutto, con la promulgazione delle leggi razziali. Per poter continuare le loro ricerche, Levi e la sua allieva, Rita Levi-Montalcini, furono costretti all’esilio (entrambi riparando in Belgio, seppure in istituzioni differenti) tornando poi in Italia, con loro grande pericolo personale, soprattutto dopo l’invasione nazista del nostro Paese. La vicenda dell’emigrazione dei due scienziati è relativamente nota, soprattutto per la narrazione che ne fa la Levi-Montalcini nella sua biografia, Elogio dell’imperfezione (Levi-Montalcini, 1987), sebbene molti dei dettagli siano ancora da mettere in luce, come per esempio la decisione che Levi prese a un certo punto di lasciare per sempre l’Italia e trasferirsi a Gerusalemme, dove gli era stato offerto un posto alla Università Ebraica).

 

Meno noto è il ruolo di Levi nel dare aiuto e ospitalità nel suo istituto di Torino a scienziati ebrei alcuni dei quali in fuga per le leggi razziali. Su questo aspetto dell’attività di Levi ci soffermeremo ora, prendendo lo spunto dalla prolusione che egli pronunciò il 3 settembre 1945, nel riprendere il corso di Anatomia Umana Normale nell’Università di Torino. Levi tornava a insegnare (e a fare ricerca nell’Istituto anatomico torinese) dopo una interruzione durata sette anni (che comprendeva, nel caso suo e di altri docenti ebrei – oltre al periodo della guerra – anche la fase dell’espulsione dalle aule universitarie conseguente alla promulgazione nel 1938 delle leggi razziali. La prolusione di Levi era dedicata “alla memoria di Leone Ginzburg e di tutti gli universitari torinesi periti per la causa della libertà” (Levi, 1945, p. 81). Sebbene il contenuto di questo discorso sia importante, tanto dal punto di vista storico che scientifico, qui ci interessa notare solo un aspetto delle parole di Levi: il riferimento che egli fa a “numerosi, valenti collaboratori” sia italiani che stranieri, alcuni dei quali gli erano stati vicini “in un periodo – come egli riconosce – per me difficile”. Dell’elenco abbastanza vasto, che è suddiviso tra un numero ristretto di studiosi affermati, e una più ampia schiera di “giovani collaboratori”, consideriamo qui brevemente solo quattro personaggi.


Nella prima categoria Levi menziona, insieme ad alcuni allievi italiani, (Tullio Terni, Oliviero Mario Olivo, Luigi Bucciante), e due studiosi stranieri abbastanza ben conosciuti (lo spagnolo Fernando De Castro, allievo di Cajal, e il belga Maurice Chévremont), uno straniero, che indica con il solo cognome “Szantroch”, e di cui dice che è “attualmente professore di anatomia a Cracovia”. Nella categoria dei giovani, elenca, oltre a numerosi italiani (tra cui Rita Levi-Montalcini) tre studiosi stranieri: Hertha Meyer e Wolfgang Jablonski, e poi Henry Grossfeld, un biologo polacco (che in realtà quando arrivò a Torino aveva 48 anni).
Szantroch è accomunato a Meyer, Jablonski e a Grossfeld dal fatto che era di origini ebraiche. Un altro elemento che caratterizza questi studiosi è anche il fatto che tutti loro poterono lavorare nel laboratorio di Levi grazie a finanziamenti elargiti dalla Rockefeller Foundation, un’istituzione che in quegli anni stava svolgendo una efficace azione di promozione della ricerca biomedica in vari paesi del mondo. In qualche modo si può dire che, negli anni già difficili che precedettero la sua espulsione dall’università, tra le altre azioni meritorie dello scienziato torinese, vi sia stata quella di dare supporto a giovani studiosi ebrei (lo stesso Szantroch aveva solo 37 anni quando arrivò a Torino), permettendo che così continuassero le loro ricerche, e contribuendo anche alla loro salvezza personale. A un certo punto – come già sappiamo – lo stesso Levi, lui non più giovane, conobbe – insieme alla giovane allieva, Rita Levi-Montalcini – i disagi della triste condizione dell’ebreo in fuga nell’Europa delle persecuzioni razziali e della guerra.


In questo e nei prossimi numeri di NATURALMENTE, tracceremo delle brevi biografie di questi personaggi, che metteranno in luce le difficoltà che incontrarono gli studiosi ebrei in quegli anni tragici, nel tentativo di sopravvivere e nello sforzo di continuare il loro percorso di ricerca. Iniziamo da Hertha Meyer, un personaggio abbastanza ben conosciuto, perché stabilitasi in Brasile dopo la sua seconda emigrazione a seguito delle persecuzioni razziali (la prima dalla Germania nel 1933, la seconda dall’Italia nel 1939), riuscì a conseguire una significativa affermazione a livello internazionale come ricercatrice nell’Istituto di Biofisica dell’Università di Rio de Janeiro.


Hertha Meyer: “una donna in un laboratorio di cristallo” e le due emigrazioni di una scienziata ebrea al tempo della Shoah

L’unica donna del gruppo degli studiosi ebrei ospitati da Levi nel suo laboratorio di Torino all’epoca delle persecuzioni razziali è Hertha Meyer, che era nata a Berlino nel 1902 e aveva frequentato le scuole superiori nella città natale, senza però avere l’opportunità di continuare, probabilmente per le modeste condizioni della famiglia, gli studi fino a conseguire un titolo universitario. Hertha aveva iniziato a lavorare giovanissima come tecnica di laboratorio nell’istituto di ricerca sulle malattie infettive berlinese fondato nel 1891 da Robert Koch (il Königlich Preußischen Instituts für Infektionskrankheiten). Era poi passata all’Istituto di Patologia Generale dell’Università di Berlino, quindi nel Kaiser-Wilhelm-Institut für Biologie della stessa città, dove aveva collaborato con Albert Fischer, uno studioso di origine danese che aveva appreso la tecnica delle culture in vitro lavorando a New York con uno dei fondatori della metodica, Alexis Carrel.
Nel 1933 la Fondazione Rockefeller facilitò l’emigrazione di Hertha dalla Germania nazista finanziando la sua venuta in Italia per svolgere ricerche nell’Istituto anatomico di Torino insieme con Giuseppe Levi, il quale la stimava molto e – insieme a sua moglie – la accolse calorosamente (nell’estate di quell’anno la giovane tedesca trascorse le vacanze a Forte dei Marmi insieme a Lidia Tanzi e alla sua famiglia). A Torino la Meyer mise in funzione un modernissimo apparato per la cultura di cellule e tessuti e lavorò con Levi e con suoi collaboratori (tra cui Jablonski) in ricerche basate sull’uso di queste tecniche. Tra l’altro fu lei, insieme a Levi stesso e ad altri suoi allievi (tra cui Rodolfo Amprino e Enzo Delorenzi), e con la collaborazione tecnica (peraltro piuttosto criticata da Levi) del cineasta Roberto Omegna, a iniziare a Torino la tecnica della microcinematografia a contrasto di fase in cellule in culture.
Da lei appresero queste metodiche molti giovani ricercatori dell’istituto di Levi, e tra essi anche Rita Levi-Montalcini e sua cugina Eugenia Sacerdote (oltre che Grossfeld e Jablonski). Hertha Meyer rimase in Italia fino al 1939, quando fu costretta di nuovo a emigrare a seguito della leggi razziali fasciste. Il momento in cui a Torino viene installata la nuova e modernissima attrezzatura per le cellule in cultura, con la Meyer che presiede ai lavori degli operai, verrà descritto molti anni più tardi, in modo suggestivo, da Eugenia Sacerdote, anche lei ebrea e anche lei costretta a emigrare (nel 1939 verso l’Argentina), in un capitolo di un libro che porta un titolo suggestivo: Una mujer en un laboratorio de cristal.

 

Ecco alcuni passaggi significativi

 

Hertha era molto tedesca, rigorosa e disciplinata. Era una vera cerimonia vederla entrare nella camera delle culture, ricoperta da capo a piedi con maschera e camice, indossando anche gli stivali per non bagnarsi, perché sul pavimento scorreva una lamina d’acqua per evitare che si sollevasse la polvere e si contaminassero così le preparazioni.[…] Con il permesso di Levi una ventina di noi studenti la circondavamo ogni mattina come api, schiacciando le nostre narici per varie ore contro il cristallo della camera. [Rozenberg, 1993, p. 40-41]


Nel periodo trascorso a Torino la Meyer pubblicò circa una ventina di lavori scientifici, la maggior parte in collaborazione con Levi, e di solito – ma non sempre – in lingua tedesca. Inoltre Levi la indica come collaboratrice in un lunghissimo articolo (oltre 170 pagine e 136 figure in tutto) che egli scrive durante il periodo dell’esilio a Liegi, e pubblica nel 1941 nella rivista belga Archives de Biologie (come ebreo, espulso dall’Università, gli era stata anche preclusa la possibilità di pubblicare su giornali e volumi italiani). Data la grande esperienza della Meyer con le culture in vitro (acquisita – come sappiamo – negli anni in cui lavorò a Berlino con Albert Fischer, che aveva appreso la tecnica durante un soggiorno a New York, da Alexis Carrel uno dei pionieri delle culture di tessuti) fu in particolare sulle culture cellulari, e specialmente in quelle di cellule nervose, che si articolò la ricerca di Hertha a Torino. Oltre ai già menzionati studi in culture mantenute a lungo, eseguiti in collaborazione con Jablonski, le ricerche della Meyer (da sola o con Levi) riguardarono soprattutto i processi della crescita e le trasformazioni che le cellule nervose subiscono nelle condizioni artificiali in vitro, gli effetti dell’uso di mezzi di cultura diversi o di particolari variazione della tecnica, e – inoltre – le relazioni che le cellule nervose stabiliscono in cultura, l’una con l’altra, o con cellule di diversa natura.

 

Dopo l’Italia la Meyer emigrò verso il Brasile, una delle destinazioni in cui in quegli anni cercarono più frequentemente rifugio gli ebrei d’Europa che tentavano di sfuggire alle persecuzioni nazifasciste. “Nel gennaio del 1939 in una giornata gelida” la accompagnò a Genova, dove Hertha andava ad imbarcarsi per Rio de Janeiro, Rita Levi-Montalcini, insieme con Germano Rondolini, suo compagno di corso e anch’egli allievo di Levi, come Rita ricorderà poi in una lettera alla sorella Paola scritta nel dicembre del 1949.
Giunta a Rio de Janeiro, Hertha, lavorò in un centro di ricerca per la produzione di vaccini finanziato dalla Fondazione Rockefeller, e poi – a partire dal 1941 – entrò nell’Istituto di Biofisica fondato da Carlos Chagas junior (figlio dell’omonimo scienziato scopritore della malattia infettiva che porta il suo nome, il morbo di Chagas). Il laboratorio di culture cellulari da lei messo a punto nell’istituto di Chagas divenne uno dei centri di ricerca di punta nell’uso delle culture, e tra il 1952 e il 1953 Rita Levi-Montalcini passò un lungo periodo a Rio de Janeiro per collaborare con lei in ricerche sul fattore della crescita nervosa presente in tumori murini basate sull’uso di cellule in cultura. Nel suo laboratorio Hertha mise anche a punto un importante centro di microscopia elettronica. Le sue ricerche si svolsero in vari settori tra cui – oltre a quello neurobiologico – furono importanti le investigazioni sui microrganismi patogeni, e in particolare sul Tripanosoma cruzi, il protozoo responsabile del morbo di Chagas.

 

Uno degli studi che la Meyer stava conducendo in questo la portò, all’inizio degli anni ’60, di nuovo a Torino per studiare lo sviluppo del microrganismo in vitro con la tecnica della cinematografia a contrasto di fase. In queste ricerche collaborò con uno di noi, Antonio Barasa, che riporta in un testo a parte i suoi ricordi su Hertha e sul lavoro svolto con lei.
Le notizie su Hertha Meyer provengono per la maggior parte dal saggio biografico scritto su di lei da Darcy Fantouro de Almeida e Wanderley de Souza, suoi collaboratori nell’Istituto di Biofisica di Rio de Janeiro. Altri piccoli spunti biografici su di lei si trovano nelle lettere di Levi indirizzate al suo allievo, Oliviero Mario Olivo, in cui i riferimenti che lo studioso torinese fa alla Meyer sono sempre molto lusinghieri; e anche nelle relazioni sull’attività dell’istituto di Torino che Levi scriveva con una certa regolarità fino alla sua espulsione dall’Università all’epoca delle leggi razziali. Riguardo a lei, particolarmente significativa tra le lettere di Levi a Olivo, è la prima che lo scienziato scrive dopo l’arrivo di Hertha in istituto, l’otto di giugno del 1933. Riportiamo qui il passaggio di questa lettera in cui si fa il suo nome che Levi scrive quasi costantemente nella grafia errata “Meier” invece che “Meyer”.

La Sig.na Hertha Meier è arrivata e credo potrà rendere segnalati servigi all’Istituto; ha grandissima esperienza di colture, di tecnica istologica e di microfotografia; certo ne sa molto più della Rhoda Erdmann (2). Personalmente è modesta e molto educata, e per terminare con un pettegolezzo mi raccontò che ha dovuto abbandonare l’Istituto di Fischer (e come Lei altri) perché la moglie N° 2 spadroneggiava troppo, e nessuno ci andava d’accordo. Le affiderò la coltivazione di uno stipite di cellule; e quando avrò finito gli esami (che ho dovuto ritardare ancora per ordine del segretario del partito (autentico) ci metteremo assieme a riprovare colture di tessuto nervoso.

Il “pettegolezzo” riferito da Levi a proposito dell’istituto di Fischer può essere rilevante storicamente. Le discordie causate nel laboratorio in cui la Meyer aveva lavorato prima di venire in Italia dalla seconda moglie dello scienziato danese, potrebbero aver spinto la giovane studiosa all’emigrazione in una fase in cui andare via dalla Germania per una ebrea era ancora relativamente facile. E questo potrebbe aver contribuito alla sua salvezza.
L’accenno poi, sempre nella lettera a Olivo, al ritardo degli esami imposto a Levi “per ordine del segretario del partito [fascista]” è interessante come spia della pervasività del potere fascista in ambito universitario, ancor prima delle emanazione delle leggi razziste. Lo studioso torinese, antifascista dichiarato e con evidenti simpatie socialiste, era inviso agli organi del partito tra l’altro anche perché aveva firmato nel 1925 il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti scritto da Benedetto Croce in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. L’anno successivo, per gli eventi legati al tentativo compiuto dal figlio Mario, in compagnia di Sion Segre, di far entrare dalla Svizzera in Italia, attraverso il ponte sul fiume Tresa, materiale di propaganda antifascista, Levi subirà l’umiliazione delle carceri fasciste, da cui venne liberato dopo breve tempo, grazie a prese di posizioni a livello internazionale che videro tra gli altri impegnati personaggi del calibro di Ross Granville Harrison, e Santiago Ramon y Cajal.

 

Harrison, apprendendo la lui la tecnica delle culture cellulari. Harrison la volle all’Università di Yale, in cui fu la scienziata fu la prima donna ad avere una posizione ufficiale come membro della “Graduate Faculty”, posizione che mantenne fino al 1918. Il suo periodo americano ebbe termine in modo inatteso quando, impegnata com’era in ricerche batteriologiche, venne accusata di inquinare con il colera l’acquedotto di New Haven. Imprigionata, venne poi rilasciata per l’intervento di Harrison e di altri colleghi e amici, e quindi espulsa dagli Stati Uniti e ricondotta in Germania. Dopo varie difficoltà riuscì a riprendere una carriera accademica e di ricerca nel suo paese, e fu in effetti la prima donna a dirigere un istituto universitario tedesco. Tra i suoi contributi più importanti di questo periodo fu la dimostrazione della possibilità di propagare un tumore attraverso un ultrafiltrato privo di cellule, ma contenente virus. Molto attiva in vari aspetti della scienza, fondò nel 1925 l’importante rivista scientifica Archiv für experimentelle Zellforschung, besonders Gewebezüchtung” dedicato in particolare agli studi sui tessuti in vitro, chiedendo a Levi di entrare nel comitato editoriale. Questa rivista veniva pubblicata in quattro lingue (francese, inglese e italiano, oltre che tedesco),cosa voluta anche per sancire la ripresa della collaborazione internazionale dopo gli anni del primo conflitto mondiale. Con l’avanzare del nazismo in Germania, Rhoda fu inizialmente accusata di essere ebrea (cosa non vera) e poi di aver aiutato gli studenti ebrei a fuggire dalla Germania. Fu imprigionata dalla Gestapo, ma poi rilasciata e riabilitata. Nelle sue lettere a Olivo, Levi nomina spesso la Erdmann che nel 1927 aveva offerto all’allievo di Levi “un posto di assistente” nel suo istituto a Berlino. Di solito però Levi non sembra avere molta simpatia per la collega tedesca (che trova “noiosissima” nel corso di una visita di quest’ultima a Torino nell’autunno del 1928).

 

  

Bibliografia

 

De Souza Wanderley. (2013) Capítulo 8: Hertha Meyer. In: Almeida, Darcy Fantouro e De Souza Wanderley (a cura di) Construtores do Instituto de Biofísica Carlos Chagas Filho Rio de Janeiro: Rio de Janeiro, UFRJ, (pp.77- 89).

 

Note

 

1) https://www.naturalmentescienza.it/Piccolino/Piccolino_Levi_Orthagoriscus31-01-2020.pdf

2) Rhoda Erdmann (1870-1935) fu una importante biologa tedesca, una delle poche donne della generazione di Levi ad acquisire una posizione di rilievo nell’ambito della biologia. I suoi interessi di ricerca furono nell’ambito dello studio dei microrganismi patogeni e della biologia cellulare. La sua vita fu particolarmente “movimentata”, sia in senso geografico (lavorò a lungo negli Stati Uniti oltre che nel suo paese natale). In America lavorò con Ross Granville