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Prospettive di riforma e insegnamento scientifico

Prospettive di riforma e insegnamento scientifico
di Giorgio Porrotto

 

Lo scritto fa parte degli atti dellla giornata di studio Scienza, scuola, società in ricordo di Giuseppe Salcioli a venti anni dalla scomparsa, svoltasi a Pontedera presso il Museo Piaggio. Gli atti sono in corso di pubblicazione a cura di NATURALMENTE scienza per conto del Comune di Pontedera e dell'Unione dei Comuni della Valdera che hanno promosso l'iniziativa.

Per informazioni


1- Politica scolastica, partiti e altri poteri
2- Scuola, cultura, economia: mix credibile?
3- Le cause prime dell’immobilismo
4- La modernizzazione? ciampicante
5- Sublimazione (o superfetazione?) della parola
6- Ma è poi davvero esistita la “scuola di Gentile”?
7- La cultura “disinteressata” dello Stato “che insegna”
8- Più forti i fatti delle idee, ma sempre gli stessi
9- La mancanza di mobilità sociale e altre ipoteche
10- Scuole di tendenza vs. cultura scientifica e non solo
Note

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Cultore di politica scolastica
Una vita lavorativa nella scuola secondaria come insegnante e come preside (al Liceo Scientifico XXV Aprile di Pontedera negli anni di Giuseppe Salcioli, e al Liceo Classico Parini di Milano), con una decennale esperienza di “ufficio studi e formazione” in un’organizzazione di categoria. Dal 2000 è componente dell’Osservatorio sulla scuola dell’autonomia (Centro Bachelet della LUISS). Ha insegnato “Politiche, legislazione e organizzazione scolastica” alla SSIS del Veneto dal 2000 al 2009, e “Educazione comparata” alla Università di Roma Tre dal 2005 a 2008, come docente a contratto. Da quarant’anni pubblica articoli e saggi, sempre di politica scolastica, in libri e riviste.

Non posso iniziare la relazione in programma se prima non aggiungo un piccolo contributo a quelli espressi da altri, in mattinata, per recuperare la figura di Giuseppe Salcioli al ricordo collettivo. Chi, come me, lo ha conosciuto sul lavoro, è rimasto impressionato dalla determinazione con cui impiegava le proprie competenze nella sperimentazione: era come se la legge che l’aveva appena introdotta nell’ordinamento scolastico fosse stata studiata per dare campo alla sua cultura scientifica e alla sua confidenza con quella particolare scienza di sintesi, non sempre riconosciuta come tale, che è la didattica. E non si trattava soltanto di dedizione all’insegnamento e di amore per la sua Fisica, che peraltro all’epoca non aveva ancora perduto il ruolo di Grande Scienza. C’entrava anche, o soprattutto, la sua vocazione ai tentativi di superamento dei fenomeni di stagnazione e di acquiescenza. Ne è prova il fatto, appena ricordato da Fontanelli, che al famoso strappo di Enrico Berlinguer rispetto al modello sovietico reagì con la frase Ha detto troppo poco, che faceva scandalo nel PCI di allora ma era scontata per chi, come lui, aveva il coraggio della coerenza interiore e quindi dell’agire secondo coscienza e non per opportunità. Non c’è forzatura nell’accostare il suo impegno nella sperimentazione scolastica a quello che dedicava al rinnovamento della linea politica del partito (come allora si usava dire) che rappresentava. Stiamo parlando di una persona capace sempre di andare alla radice dei problemi, e quindi là dove questi ultimi, pur essendone evidente la diversità, vanno soprattutto messi a confronto l’un l’altro per quanto hanno a che vedere col fare e coi rapporti sociali, che costituiscono le finalità ultime dei processi evolutivi. Su questo terreno c’era sempre da imparare da Salcioli, e molto. Per quanto mi riguarda, e limitandomi ad un tema professionale come appunto la sperimentazione, ho poi continuato a studiarla e a proporla altrove e in altri termini, ma nelle logiche di fondo individuate ed elaborate con lui.

1- Politica scolastica, partiti e altri poteri
Ho ascoltato con molto interesse l’intervento del dirigente scolastico e assessore comunale Canovai, e condivido in linea di massima sia la sua concezione delle finalità odierne della scuola, sia i suoi riferimenti a una visione aggiornata delle problematiche riguardanti il rapporto tra insegnamento e apprendimento. È peraltro evidente che il suo duplice impegno nel settore dell’istruzione rende opportuno, se non indispensabile, il pressing implicito con cui propone al mondo locale traguardi innovativi e raggiungibili. E però devo anche dire che dall’analisi delle logiche interne al sistema scolastico italiano, e del rapporto tra quest’ultimo e gli orientamenti delle forze politiche e sociali, non riesco a ricavare buoni pronostici per i progetti a indirizzo realmente innovativo su scala nazionale.
Nella storia repubblicana i traguardi innovativi e raggiungibili del settore scolastico sono stati varcati soltanto in ambiti e in tempi molto circoscritti. Invito a non dimenticare che nei cinquant’anni che hanno preceduto il Duemila abbiamo avuto cicli compiuti di riforme efficaci soltanto nella scuola dell’infanzia e in quella elementare; per il resto una riforma fondamentale ma presto depotenziata nella media, e nella superiore soltanto cortei di protesta, per giunta affidati in prevalenza agli studenti.
Invito soprattutto a considerare l’eccezionalità -rispetto agli orientamenti che connotano la politica scolastica dei Paesi avanzati, oltre che al nostro passato- degli accadimenti di cui ci siamo resi protagonisti nel primo decennio del 2000: un impensabile e improduttivo furore legislativo, con tanto di abrogazione o abbandono di leggi di sistema appena varate; l’inaugurazione di una politica di riforme scolastiche, quella attualmente in corso, con finalità esterne all’attività d’istruzione. Riepiloghiamo, per una più precisa presa di coscienza: dopo 77 anni di attesa di una riforma generale di sistema, e in particolare di riforma degli ordinamenti della secondaria di secondo grado, ne sono state varate una nel 2000 (De Mauro), un’altra nel 2003 (Moratti) che abrogava quella del 2000 e recuperava quella gentiliana del 1923, e un’altra ancora (Gelmini) sta entrando in fase applicativa per rifare il trucco a quella del 2003 mai veramente attuata; per giunta nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione ha introdotto la potestà legislativa delle Regioni in materia di istruzione, ed ha  esteso la potestà amministrativa dei Comuni1 fino a comprendere anche le scuole (due norme costituzionali tuttora nel cassetto). Nel frattempo si è dato corso a un’imponente operazione sul bilancio di spesa dell’istruzione: era auspicabile da tempo un riequilibrio del reclutamento per incrementare l’attività di formazione dei docenti (e cioè per ottimizzare quella iniziale e rendere sistemica quella permanente), ed invece sono state sottratte ingenti risorse sia al reclutamento che alla formazione per esigenze di risparmio del Tesoro, aggravando la crisi della professionalità scolastica, sempre più distante dagli standard europei.
Sembra ormai impossibile che dal turbinio di eventi scatenati da questo primo decennio del 2000 sulla scuola -unico settore del paese bloccato da sessant’anni d’immobilismo e di velleitarismo- possa emergerne uno destinato a modificarla, anche di poco,  nell’orientamento culturale, nelle strutture di funzionamento, nell’ordinamento degli studi. Non ci sono le premesse per sperare in una riforma che riformi, e non sia atto conservativo o addirittura restaurativo. E precisiamo: non è in discussione il colore di questo governo, ma quello, sempre meno definibile e sempre meno motivabile, della politica scolastica di tutti i governi anche di opposto indirizzo alternatisi dall’inizio dell’anno duemila fino ad oggi.
Non sto indulgendo al pessimismo, ma tentando di attenermi a un dato di realtà: ogni problema scolastico con qualche dimensione politica è sottratto alle analisi di merito dai partiti in competizione fra loro, e molto più di quanto accada per altri ambiti della vita produttiva del nostro paese. Eccoci alle prove. Per qualsiasi altro settore le situazioni problematiche sono affrontate pubblicamente, e almeno parzialmente esposte al giudizio dell’opinione pubblica, da parte sia dei tecnici sia dei politici, e i pareri degli uni e degli altri spesso s’intrecciano e s’incalzano anche pubblicamente. Quando invece si tratta di scuola valgono soltanto i pareri dei politici, ai quali sono riservati in esclusiva anche i rarissimi confronti dibattimentali; di riflesso, non si dà il caso che quotidiani e settimanali, neppure i più quotati, pubblichino articoli di esperti in materia d’istruzione (pedagogisti, storici della scuola, sociologi o economisti o politologi dell’istruzione ecc.). Il che significa che la specificità dei problemi dell’istruzione è sistematicamente scavalcata dalle mediazioni tra i poteri politici (o politici non ufficialmente tali) del momento. Si può allora non concludere che la scuola è oggetto di vicende politiche che nemmeno è messa in grado di capire? Si può evitare di dire del suo futuro che non se ne vedono logiche educative?
E ancora. In altri paesi europei la scuola sta spesso al centro di campagne elettorali (es. Inghilterra), o è oggetto di grandi consultazioni pubbliche (es. Francia), o mobilita gli ambiti territoriali (es. Nord Europa). In Italia, da anni, le decisioni in materia di riforme scolastiche sono semplicemente notificate dal Ministero dell’istruzione, e gli organi d’informazione ne affidano l’interpretazione soltanto a cronisti generici. Si aggiunga che a questo declassamento della scuola e della democrazia sul piano dell’informazione corrisponde quello analogo che si materializza nelle procedure, nemmeno sfiorate dalle cronache, con cui dette decisioni sono assunte. Si tratta di faticosi confronti tra i gruppi ufficialmente delegati alla trattativa dalle principali parti politiche maggioritarie e le “sigle” (sindacati dei lavoratori o dell’imprenditoria, associazioni professionali di tendenza ideologica e/o religiosa, e poi enti, fondazioni, comunità ecc.), che naturalmente si avvalgono di chance di ascolto differenziate a seconda delle stagioni politiche. Si tratta di un’ansiosa routine che agli occhi non ingenui rende ancor meno accettabile lo svilimento della politica scolastica, giacché le sigle predette sono sì portatrici di istanze, proposte, progetti, ma anche, sostanzialmente, di interessi corporativi o quanto meno settoriali, e spesso incrociati con quelli delle fazioni di partito. Si aggiunga che il senso di appartenenza e il mandato di rappresentanza di cui esse si avvalgono sono spesso espressione di oligarchie troppo stagionate e troppo povere di intenti. Quel che di più drammatico emerge da questi andamenti è insomma l’assenza di prospettive di ampia portata, e individuate ed elaborate scientificamente sulla scorta di comprovati orientamenti culturali.
La scuola ha oggi legami troppo deboli con il mondo che sa leggerla e interpretarla scientificamente: la ricerca educativa, l’analisi dei bisogni formativi della società in trasformazione, gli stimoli dell’educazione comparata non riescono a fare opinione a nessun livello. È dunque indispensabile il supporto di un pensiero riformatore forte: può provenire soltanto dal mondo degli studi -accademici e non, e in particolare dalle scienze umane e sociali- e sempre che riesca a radicare le proprie valutazioni nella realtà scolastica, e a rendersi propositivo nella battaglia delle idee quanto autonomo da partiti e chiese. Nessuno attualmente sollecita un tale supporto, e meno che mai gli attori della politica scolastica (molto politica, nel  senso di partitica,  e assai poco scolastica). L’esercizio della democrazia richiede chiarezza e competenze in ogni dimensione della vita pubblica. E Calamandrei diceva: La scuola è organo centrale della democrazia. Ma s’era nel 1950.2

2- Scuola, cultura, economia: mix credibile?
C’è poi, per quanto riguarda la questione scolastica, anche la necessità di considerare i rapporti tra passato e presente, o, meglio, tra la storia più o meno recente del sistema di istruzione e la pluralità dei problemi e delle istanze che continuano ad emergere all’interno o all’intorno di esso. È ancora possibile individuarne oggi delle costanti imprescindibili? Esistono vere e proprie strategie per sintonizzarlo ai ritmi, alle esigenze e alle tendenze dell’evoluzione sociale nell’attuale fase dello sviluppo economico? Non è ora di ridurre le distanze tra i saperi scolastici e l’impetuosa crescita della scienza e della tecnologia? I processi di globalizzazione incrementano le difficoltà dei singoli sistemi nazionali  o ne favoriscono l’evoluzione?
Le ipotesi di risposta ci inducono a considerare come potere di riferimento non la sola politica ma anche l’economia, e non soltanto per le fasi di centralità che quest’ultima sta acquisendo nel mondo, ma soprattutto per ragioni specifiche: se la politica esercita sulla scuola un’incidenza diretta e istituzionale, è l’economia che oggi determina tanto la consistenza quanto gli obiettivi reali della domanda d’istruzione. È infatti ricorrente, fra gli economisti, la convinzione che un paese si sviluppa nella misura in cui economia e cultura, scuola e cultura ed economia viaggiano affiancate.  C’è paese e paese però, e torna utile, a questo proposito, un’intervista rilasciata di recente da un economista italiano di lungo corso e di larga fama, anche per la riconosciuta libertà di giudizio, Giorgio Ruffolo3. Le sue dichiarazioni riguardano gli orientamenti culturali che oggi caratterizzano il mondo economico nostrano, ma hanno a che vedere -proprio per la citata sinergia di scuola, cultura, economia-  anche con l’andamento dell’istruzione. Non c’è una visione della storia … il presente bisogna viverlo come storia e invece oggi non lo si vive più come storia. Dove stiamo andando? è una domanda che nessuno si pone più: si tira avanti. La coscienza della storia dava alla società politica una direzionalità, bisognava spiegare alla gente verso dove si andava, ma tutti quelli che predicavano la progettazione, la programmazione sono stati completamente surclassati perché il tirare a campare è meno costoso dell’impegno politico.  Conclude Ruffolo che il logorante ricorso al “continuare a campare” tende a tradursi in una sorta di fibrillazione continua.
Se tentiamo qualche approfondimento sul tema non basta riconoscere che anche la nostra scuola “tira a campare” in quanto, come appena detto, è all’oscuro delle proprie prospettive. C’è da aggiungere subito che essa non riesce nemmeno a far registrare fibrillazioni (le residue agitazioni studentesche sono ormai petardi rituali che miscelano a stento gli istinti vacanzieri e le istigazioni parapolitiche). E c’è anche da chiedersi in quale misura la scuola possa risvegliare la coscienza della storia nei cittadini e in particolare negli ambienti dove si realizza l’economia del paese. Istruzione ed economia sono in Italia due propulsori non propriamente caratterizzati da convergenze. Intanto sotto il  profilo storico. Quello dell’economia è ricco di contraddizioni ma anche di impennate vigorose, le une e gli altri riassumibili nei passaggi dal feudo alla civiltà comunale, dal proto-capitalismo mercantilistico alla ricaduta nella ruralizzazione post-cinquecentesca, dalla lunghissima e frammentata rincorsa per avvicinarsi ai paesi già industrializzati al “miracolo economico” degli anni sessanta e al balzo nel G8. Di contro a queste fasi di dinamismo economico risaltano i deficit del sistema scolastico italiano (nascita tardiva e alfabetizzazione completata dalla TV), e soprattutto la sua staticità: sottratto già dalla legge Casati alla gestione degli “uomini di scuola” (come si recriminava allora ma non in seguito), esso è stato ulteriormente incardinato nella burocrazia amministrativa dal fascismo, e oggi - nonostante l’allentamento dei controlli e la legislazione sull’autonomia - resta non abilitato a conquiste proprie.
Ma le maggiori divaricazioni tra scuola ed economia sono individuabili nei rispettivi orientamenti culturali di base. Quando ascoltiamo o leggiamo la parola “economia” speriamo sempre di trovarla a fianco di aggettivazioni che ne prefigurino positivamente il futuro (crescita, sviluppo, progresso, incremento ecc.), perché rappresenta un concetto che ormai non è disgiungibile da quello di società industrializzata, e quindi avanzata; e perché, soprattutto, si confida sulla continua ascesa della ricerca scientifica, e quindi della tecnologia (c’è chi parla di “tecno-scienza”, magari impropriamente ma significativamente).  Nel nostro paese a connotare il sistema d’istruzione non è l’idea di futuro, l’idea-forza dell’evoluzione: è piuttosto la cultura letteraria e filosofica, e, più precisamente, la cultura classica, quasi riproposta a una conferma che vada oltre le proporzioni garantite dalla storia. Il liceo classico infatti non rappresenta soltanto la punta più alta del nostro sistema scolastico, in quanto custode del patrimonio della tradizione culturale della nazione italiana: i livelli di prossimità a questo modello determinano l’importanza degli altri ordini di scuola secondaria, e gli istituti tecnici, che stanno scendendo in graduatoria, sono stati fino ad oggi gli unici ad avere l’economia come materia di studio, ma con riferimento esclusivo alle tecniche d’ufficio e non al ruolo che essa svolge nello sviluppo dell’intero consorzio umano. Inutilmente, o quasi, Confindustria continua a ricordare che soltanto questo tipo di scuola ha contribuito direttamente a quella fase di crescita del paese così eccezionale che dovemmo definirla “miracolo”. E ormai da decenni il fabbisogno di periti industriali rimane insoddisfatto.
Possiamo dunque parlare, a proposito delle connotazioni culturali di tutta la secondaria italiana, di uno squilibrio così forte da rendere tuttora attuale l’allarme di Snow per la distanza tra le “due culture”. Allarme ormai inattuale altrove, e in ambito sia accademico che scolastico: siamo rimasti in compagnia della sola Grecia a mantenere il primato della cultura umanistica, e cioè l’obbligatorietà, in quasi tutti i licei, dell’insegnamento di almeno una lingua classica e della sua letteratura (in Italia il Latino, in Grecia il Greco antico).5  C’è di che preoccuparsi per almeno due motivi.
Il primo è la ricaduta negativa sulla cultura scientifica, il cui inevitabile deficit di spazi didattici e di ruolo educativo è di per sé evidente in tutta la scuola italiana. Al punto che è appena avvertito per quanto riguarda la sola componente ipotetico/sperimentale della scienza, vale a dire le scienze della natura, e soltanto grazie alle denunce delle associazioni degli insegnanti e di qualche faglia accademica. Rimane invece totalmente sottaciuta l’emarginazione della componente sistematico/classificatoria, e cioè delle scienze sociali (e ben poco cambierà con il liceo apposito, variante facoltativa e isolata, quanto a finalità, rispetto al “sistema dei licei”). Non esistono chance per la rivalutazione della storia e per l’introduzione di antropologia e sociologia, e cioè per l’apertura del campo di studi sul  vivere umano al  metodo scientifico, come accade in altri Paesi e come inutilmente proposto formalmente anche qui da noi nei lontani anni settanta. Nelle scuole le vicende dell’uomo sono tuttora rigorosamente riservate alla letteratura, possibilmente a cominciare dalla latina, e alla Filosofia. Quest’ultima uscirebbe dall’isolamento e guadagnerebbe in attualità condividendo i propri spazi con i confronti e i riscontri delle scienze sociali (esempio: sul tema, tra i più complessi dal punto di vista educativo, del passaggio dall’homo sapiens all’homo videns).
Il secondo motivo è la complessità plurisecolare delle implicazioni ideologiche e religiose, sociali ed economiche, e dunque anche risolutamente politiche, dell’utilizzo scolastico della tradizione classicista. E l’esame di tali implicazioni costituirà la parte conclusiva dell’intervento.
Una precisazione in coda al paragrafo: ho finora usato il termine “economia” nell’accezione comune di “economia reale”, cioè fondata sulla produzione di beni e servizi e bisognosa, in questi tempi, di venire rigorosamente distinta dall’“economia finanziaria”  di orientamento neoliberista, che è responsabile della imperante crisi mondiale. È anche promotrice di una particolarissima politica scolastica, adottata da alcuni paesi avanzati tra la fine del Novecento e i primi del Duemila, e ora proposta anche in Italia.6 Si tratta di iniziative sostanzialmente rivolte ad arrestare o a capovolgere i processi di democratizzazione della scuola affermatisi,  nei paesi a industrializzazione avanzata, dalla fine degli anni cinquanta ai primi degli anni settanta (anche in coerenza con l’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ONU, 1948).7 Sono due le peculiarità da segnalare in questa politica scolastica, anche in breve.  La prima: si avvale di una piattaforma ideologica (estensione al settore dell’istruzione dei principi della concorrenza, in una logica di mercato totalizzante) e di una consequenziale strategia politica a livello istituzionale (riduzione delle competenze dello Stato e valorizzazione degli indirizzi culturali dell’utenza), entrambe elaborate e diffuse da autorevoli centrali di studio e di potere, le stesse alle quali dobbiamo le bolle finanziarie recentemente esplose.8 La seconda peculiarità: detta piattaforma e detta strategia possono favorire iniziative e sviluppi gestionali innovativi ma anche a rischio di connessioni con il clientelismo e con la corruzione transattiva;9 e/o possono diventare strumenti del fondamentalismo religioso che, secondo il Fundamentalism Project dell’American Academy of Arts and Sciences,10   è la la nuova guerra fredda.

3- Le cause prime dell’immobilismo
Il problema dei problemi irrisolti della scuola di questo paese è stato da sempre, ed è tuttora, il tradizionale disimpegno rispetto alla necessità -ovvia e rispettata in qualunque altro settore produttivo- di ricerche sistematiche sulla qualità dei metodi e dei risultati dell’attività che conduce. Vale la pena di ricordare che ancora negli anni novanta le ricerche internazionali recavano spesso caselle vuote alla voce Italia, e che nei vent’anni in cui la secondaria si è illusa di conquistare finalmente un volto nuovo con le sperimentazioni introdotte da uno dei “Decreti Delegati” del 1974, quest’ultimo non prevedeva alcun accertamento degli esiti in termini scientifici (bastava una generica autovalutazione della singola scuola). E vale anche la pena di precisare che i primi risultati dell’indagine P.I.S.A., al cui esito per noi molto negativo si fa oggi riferimento frequente, sono stati accantonati dal ministero e dalla stampa per oltre un quinquennio.
Per avere un’idea della distanza che separa il nostro sistema scolastico da quelli dell’area O.C.S.E. sul terreno dell’autocontrollo e dell’autovalutazione, trovo opportuna la trascrizione del punto di vista espresso in merito da un qualificato osservatore straniero. Si tratta dello svizzero Norberto Bottani11, e cito una parte della Premessa di un suo libro destinato al pubblico italiano, e impostato sull’analisi delle esperienze di autonomia scolastica avviate in parti diverse del mondo negli anni del passaggio di millennio.12 Di fronte ad un paesaggio così differenziato, l’unica soluzione percorribile era quella di fare affidamento sulle indagini scientifiche.[…] ovvero sulle prove fornite dalle ricerche, e non sui discorsi […]. Questa impostazione è stata principalmente dettata dall’esigenza di decodificare politiche scolastiche diverse […]. C’è però anche un’altra ragione che mi ha indotto ad adottare questa via: l’assenza cronica di ricerche italiane sull’autonomia. Nonostante l’importanza della riforma per il sistema scolastico italiano, non ho trovato indagini italiane condotte a regola d’arte sulla trasformazione di un sistema scolastico centralistico in uno decentralizzato, come se questa operazione  fosse considerata un atto neutro a costo zero. La quantità di ricerche presentate in questo libro potrà sembrare ossessiva e talora alcune descrizioni potranno apparire anche eccessivamente puntigliose, ma questi difetti sono, in un certo senso, una reazione ad uno dei pericoli più gravi che corre il sistema scolastico italiano, ossia la carenza di ricerche scientifiche e di sperimentazioni rigorose sulla scuola. La riforma dell’autonomia è stata votata nel marzo del 1997, ma in cinque anni il numero di ricerche sul trasferimento delle competenze gestionali alle istituzioni scolastiche, sull’attribuzione alle scuole della personalità giuridica, sulle ristrutturazioni necessarie, sulla programmazione da parte delle regioni e degli enti locali dell’offerta formativa si possono contare sulle dita di una mano: nulla di comparabile con quanto successo altrove. Questa è la seconda ragione che mi ha indotto a inserire nel libro molti riferimenti scientifici con la speranza di attirare l’attenzione dei lettori sul ventaglio di problemi che sorgono con l’autonomia delle istituzioni scolastiche.               
Bottani ha avuto ragione: il nostro regolamento applicativo della legge sull’autonomia13 è stato accantonato, anche se non formalmente abolito, perché erano mancati, e nemmeno erano stati cercati, i dati di realtà che ne comprovassero l’attualità. Va anche aggiunto che le ricerche di cui Bottani ha lamentato la mancata attivazione, tutte relative alle scuole e cioè ai futuri protagonisti di una attività scolastica finalmente autonoma, andavano probabilmente precedute da altre, rivolte a documentare i livelli di maturazione, all’interno del mondo politico e delle comunità culturali interessate alle sorti della scuola, di orientamenti che potessero risultare di supporto all’applicazione della normativa sull’autonomia. Se infatti si scorrono le precedenti disposizioni legislative nel tentativo di scorgervi le premesse per il rivoluzionario passaggio dal regime burocratico a quello dell’autonomia, le si trovano e risultano inequivocabili,14 ma si rimane sconcertati: nessuna di esse è mai stata applicata, e nemmeno ne è stata mai reclamata l’applicazione, né da parte delle forze politiche che le avevano prodotte (e che evidentemente nel frattempo si erano fortemente indebolite), né da parte delle forze sindacali e/o associative che avrebbero dovuto quanto meno segnalare l’inadempienza perpetrata a livello istituzionale. Il che dimostra che anche in campo scolastico l’attività di ricerca è indispensabile premessa di ogni scelta di politica scolastica, sia innovativa che conservativa. Anche se a tutt’oggi la dimostrazione resta inutilizzata.
Queste ultime considerazioni ci inducono ad approfondire la riflessione sul rapporto tra la ricerca educativa e la politica scolastica, fino ad oltrepassare l’ottica dello stesso Bottani. Nel senso che non basta esaminare e valutare con ricerche l’azione riformatrice per gli effetti che produce e per gli ostacoli che incontra, ma è anche necessario tener conto del panorama generale di quegli ambiti del sistema scolastico in cui la riforma va ad inserire più direttamente i propri effetti (attività di insegnamento/apprendimento, gestione della professionalità docente, richieste dell’utenza, controllo dell’opinione pubblica, azione sindacale ecc.). E poiché in questa sede sono possibili soltanto rapide esemplificazioni, limitiamoci a considerare uno solo di quegli ambiti, e scegliamo quello che si è dotato del più lungo raggio di influenza, e cioè il sindacato, ponendo qualche domanda:
- Se si constata che dopo il Sessantotto, e per almeno vent’anni, un patto tacito ma innegabile tra governi, Amministrazione e sindacati ha trasformato la gestione del reclutamento degli insegnanti in prevenzione della disoccupazione intellettuale, non esiste una ragione in più per verificare a quali livelli di cultura e di competenza didattica si è attestata nel frattempo l’attività di insegnamento? E, prima ancora, per verificare la consistenza e l’incidenza dell’attività di formazione iniziale e in servizio dei docenti?
- La frammentazione dei sindacati in corrispondenza degli indirizzi ideologici e partitici del mondo politico, e l’azione prevalentemente indifferenziata che essi ciononostante esprimono nel settore scuola, non legittimano il timore che il conservatorismo sindacale sia alimentato anche dagli obiettivi di sopravvivenza di ciascuna sigla? La riduzione delle iscrizioni può risultare sintomatica in proposito?
- L’assunzione da parte dei sindacati di un potere rappresentativo degli insegnanti totalizzante da decenni, il loro monopolio della comunicazione interna ed esterna del mondo della scuola, la  conseguente marginalità delle associazioni professionali, possono essere considerati gli elementi che più di altri deprivano la più grande categoria di laureati della capacità di esprimere autonomamente la consapevolezza della propria funzione professionale e civile?
- La rilevanza complessiva dell’accelerazione continua delle trasformazioni nelle tecniche lavorative, nella distribuzione delle risorse, nella complessità dei rapporti sociali, non avrebbero dovuto indurre i sindacati, nell’arco dell’ultimo quarantennio, a reclamare una nuova elaborazione del profilo professionale del docente? E a sollecitare allo scopo, anche sulla scorta delle esperienze di altri paesi, i contributi delle comunità culturali e delle forze sociali ed economiche, oltre a quelli degli interessati?   
 
4- La modernizzazione? Ciampicante
Parlare di riforme significa parlare anche di chi ne ha più bisogno, ed è inevitabile che il discorso si sposti sul rapporto tra i bisogni formativi delle nuove generazioni e la capacità di modernizzazione che il paese è in grado di esprimere. Si tratta cioè di accertare se i livelli di modernizzazione raggiunti dalla scuola, o quelli che per essa sono previsti in tempi ravvicinati, hanno a che vedere con i ritmi di crescita culturale e civile di tutta la società. Un autore particolarmente impegnato negli studi in materia, Franco Cambi, così presenta la “modernizzazione”: …significa razionalizzazione, cultura scientifica e critica, senso dello Stato e delle regole comuni, sovranità della legge, spirito di avventura, di innovazione, di mutamento15. È una definizione in cui la razionalità scientifica considerata sia di per sé, in quanto fondamento metodologico di ogni ricerca, sia nei suoi sviluppi tecnologici, e cioè in quanto elemento innovativo dei modi di produzione e di distribuzione generalizzata dei beni di consumo,   assume, rispetto ai saperi umanistici,  un ruolo paritario universalmente riconosciuto, anche per effetto delle sempre più frequenti  esigenze di intrecci e di mutuo supporto tra i fattori di sviluppo della cultura tutta. Ma il rapporto tra Italia e modernizzazione è ambiguo: La modernizzazione è un (il?) problema aperto della storia italiana. Se l’Italia è stata la fucina del Moderno [fra il Trecento e il Cinquecento, ndr], si è poi allontanata da questo Grande Paradigma […] Culturalmente parlando, poi, sono gli atteggiamenti di anti-laicità, di anti-scientismo, di neo-dogmatismo e/o di fondamentalismo, di deriva civile, che ci testimoniano una condizione di insufficiente modernizzazione, di travaglio, di ricerca ancora aperta e incerta nei suoi esiti 16.
La modernizzazione del paese stenta, dunque, e in particolare è insufficiente la collocazione riservata dal sistema di istruzione alle scienze, che rimangono ben lontane dal ruolo di spettanza. Al punto da rendere ancora attuali, e per la sola scuola, gli allarmi lanciati da Snow mezzo secolo fa: insomma, l’insegnamento scientifico in Italia resta allo stallo antico, discusso fino alla noia ma non fino a sottrarlo agli opportunismi strategici della politica. Eccone un quadro efficacemente sintetico: Fra consensi e dissensi, la riforma Gentile che seguì, sancì il primato del liceo-ginnasio in cui impartiva una formazione incentrata strutturalmente sul latino, sul greco e sulla filosofia […] Si operava in tal modo quella profonda frattura tra le due culture […] che permane in qualche modo tuttora  […] mantenendo la scuola italiana lontana dalle esigenze e dai problemi della società industriale e post industriale. Il progetto Moratti infatti, ricalca in qualche modo, l’architettura della riforma Gentile….17
Nella scuola il disagio si traduce da sempre nell’insofferenza degli insegnanti delle materie scientifiche (e non solo): vivono il paradosso di dover mortificare in orari risicati le conquiste cognitive e le logiche evolutive con cui progredisce il mondo. Generalmente si ritiene trattarsi di una questione esclusivamente o preminentemente scolastica, e si imputa la persistenza della riforma Gentile alla comprovata incapacità della nostra politica di produrre riforme radicali. A ben vedere, però, quest’ottica può riuscire riduttiva. L’istanza di una scuola aperta al sapere scientifico può  essere accolta laddove quest’ultimo, inteso come tipo di conoscenza che contiene in sé metodi e strumenti di verifica delle proprie enunciazioni, risulti criterio di razionalità anche di fronte ai problemi di etica civile, di equità sociale, di rinnovamento culturale, di evoluzione economica, di  spirito critico, di autonomia individuale, di rispetto della democrazia (e in questo caso diventa indispensabile, nella formazione e nell’informazione, il ruolo delle scienze sociali). O si è dentro la modernizzazione a pieno titolo o si rischia addirittura la retromarcia, come la storia fa temere: le dodici ore-lezione di matematica nel liceo scientifico non sono servite a tale scopo nell’Unione sovietica, così come non sono serviti i primati nella fisica del Terzo Reich. Se poi assumiamo come nostro il sopracitato giudizio di Cambi sul difficile rapporto tra l’Italia e la modernizzazione, è evidente che gli insegnanti di Matematica, Fisica  e Scienze naturali non possono sperare che i ritocchi previsti dall’attuale ministero riducano le distanze della nostra scuola dai paradigmi  europei per quanto riguarda le loro rispettive discipline.
Quanto a Gentile, bisogna pur cominciare a dire che il suo ruolo, nella storia delle riforme scolastiche, può essere ridimensionato. Vedremo più avanti che la riforma del 1923 -quanto a motivazioni culturali e a finalità politiche- aveva presupposti ben più solidi e influenti di quelli deducibili dall’“attualismo”, non certamente così pervasivo da poter allungare le proprie radici nell’impianto culturale della scuola italiana al punto da farvi sopravvivere fino ai nostri giorni l’impronta del filosofo. È pur certo che l’idealismo era all’epoca influente nel nostro paese, e che l’altro suo filone (Croce) non si allontanava di molto da Gentile a proposito di scuola in generale. E però è ancora più certo che da mezzo secolo quelle linee di pensiero sono fuori della scena politica e culturale, e non solo a causa dell’esaurimento dell’influenza della filosofia nella vita pubblica.
Se poi si ritiene, come talvolta si sente dire, e peraltro non immotivatamente, che la riforma di Gentile deve almeno in parte la propria irriducibile longevità al fatto di essere stata inchiavardata nell’organizzazione centrale e periferica dell’amministrazione dello Stato, e quindi di aver goduto di tutta la protezione di cui la burocrazia è capace, è opportuno ricordare anche questo dato di realtà: Gentile si è dedicato molto alla riorganizzazione in senso gerarchico dell’amministrazione scolastica, ma i Regi Decreti relativi al funzionamento delle singole istituzioni scolastiche, e destinati a vincolare la gestione organizzativa delle medesime nella seconda metà del Novecento, sono quelli emessi dopo le dimissioni di Gentile dalla carica di Ministro (maggio 1924). Del resto gli stessi principi educativi degli ordinamenti del 1923 -eretti dal filosofo a salvaguardia assoluta della cultura intellettuale di pochi, e imperniati sul modello classicista, a fronte dell’incipiente domanda di istruzione di massa- già dal 1927 furono progressivamente modificati da parte dei successori di Gentile al Ministero dell’Istruzione.
Ed è proprio su questa funzione del modello classicista, tuttora riconosciuta dagli ordinamenti e dal pensiero prevalente, che occorre affrontare almeno due interrogativi peraltro degni di ben altri spazi. Il primo riguarda la sequela, protrattasi per tutta la seconda metà del Novecento, dei tentativi di riforma della secondaria superiore: progetti diversi di governi anche non diversi e tutti lasciati cadere nel corso dei rispettivi iter parlamentari. Fu un esempio ineguagliabile d’impotenza legislativa, che certamente ha rafforzato il mito del classicismo come modello educativo irrinunciabile. È sufficiente addebitare ogni responsabilità alla classe politica? O possiamo anche dire che questa si è divisa in corrispondenza di due aree effettivamente riscontrabili tanto nel quadro politico quanto in quello della società complessivamente considerata?
In effetti possiamo anche parlare di un’area moderata e di una progressista. La prima, significativamente comprensiva di una imprenditoria messa in marcia dal “boom economico”, continuava però a palesare incertezze sulla vocazione industriale del paese, nonostante le grandi trasformazioni indotte da una ricostruzione che era molto di più di un ritorno al preesistente: da qui la sopravvivenza del “capitalismo nano” (antilogia italica), della gestione familistica dell’azienda, e di una concezione dell’istruzione non così ampia da assumere la diffusione della cultura intellettuale e delle competenze scientifiche come patrimonio economico del paese (da qui la predilezione per il “doppio canale”, ma non accompagnata dalla volontà di sottrarre la formazione professionale all’incuria della maggioranza delle regioni e agli scandali). Il fronte progressista presentava a sua volta un obiettivo comune, la “democrazia educativa”, ma due strategie opposte: una minoranza confidava nel progresso parallelo di scuola e società (orientamento pedagogico ricco di nomi di pensatori storici, da Condorcet a John Dewey, e tradotto in riforme di quantità e di qualità dalle politiche liberal-socialiste, socialdemocratiche e liberal di più paesi); una maggioranza non attribuiva all’istruzione nessuna possibilità di rendersi autonoma dalla struttura economica della società, e ne prevedeva una riforma radicale soltanto come effetto della molto attesa rivoluzione economico-sociale18 (che però andava perdendo quota di giorno in giorno).  Possiamo anche concludere, a mo’ di risposta complessiva, che quel cinquantennio, per la scuola italiana, fu segnato dalla fuga di tutte le parti politiche dalle rispettive idealità, fieramente ostentate in precedenza ma soltanto per il comune bisogno di contrapposizione elettorale. Insomma, una fuga in perfetto stile bipartisan.
Viene però istintivo, a questo punto, passare comunque al secondo dei due interrogativi: esistono radici storiche tanto profonde da tenere in vita una concezione educativa sistematicamente contestata, e immancabilmente riconfermata, dal giorno in cui fu fatta l’unità d’Italia?

5- Sublimazione (o superfetazione?) della parola
Per affrontare quella che comunque si configura come una impresa, ritengo che un criterio d’approccio realistico e trasparente al quesito possa essere garantito dal ricorso ad un intellettuale tuttora entusiasta di tale concezione della scuola. E propongo di individuarlo nello storico della scuola Adolfo Scotto di Luzio, con particolare riferimento ad uno dei suoi volumi più impegnativi, La scuola degli italiani,19 ricchissimo di notizie, di analisi, e di riflessioni rivelatrici e quindi utili anche a chi è su posizione opposte. Eccone infatti una utilissima ai fini del tema di questo paragrafo: La scuola secondaria è il tempo dell’adolescenza e le parole, che fanno la parte maggiore del suo insegnamento, secondo l’antica lezione della scuola umanistica, valgono innanzi tutto come gli strumenti di una faticosa decifrazione interiore. Del lavoro che ciascuno, nella fase cruciale della propria individuazione, dovrebbe compiere scavando in profondità in se stesso. È su questo terreno che la cultura liberale recupera e ribadisce la funzione educativa dell’insegnamento storico letterario. Per questa cultura l’esercizio al tradurre vale e varrà come il rigoroso apprendistato all’espressione chiara, precisa, dei contenuti del pensiero e di se stessi. Perché la traduzione è discriminazione dei significati e addestramento alla decifrazione delle oscure impressioni dell’animo. Vale a dominare il mondo e a dare contorni netti e definiti ai fantasmi che agitano il mondo che è in ciascuno di noi. Per questo la scuola secondaria è stata per elezione una scuola della solitudine e dei linguaggi dell’individuo... .  È un brano dell’Introduzione, e quindi impegnativo per le 423 pagine del volume che ne svilupperanno le implicazioni con puntuale coerenza. Si tratta dell’interpretazione della riforma del 1923 espressa da un risoluto seguace di Gentile, e quindi toto corde.
Ma nel citato volume La scuola degli italiani c’è anche, a partire dal primo capitolo, una puntuale descrizione degli elementi di continuità, e cioè di coerenza negli obiettivi e nei metodi, fra quella stessa riforma e la tradizione dei collegi della Compagnia di Gesù. Ricordo che questi ultimi erano circa quattrocento istituti strategicamente distribuiti nel mondo in funzione esclusiva della formazione della classe dirigente di allora, e cioè dei nobili, e che la gestione dei medesimi era fortemente centralizzata mediante la rigorosa osservanza da parte di ciascuno di essi delle regole enunciate nel 1559 nella Ratio studiorum (un testo che dettava quelli che noi oggi chiamiamo gli “ordinamenti scolastici”, rivolti non tanto ad esporre e motivare un credo pedagogico ma a prescriverne direttamente l’esecutività, e rappresentava l’equivalente in termini di canone ecclesiastico di una odierna legge dello Stato sulla scuola). Se al brano sopra riportato di Scotto di Luzio facciamo seguire, per ragioni di brevità e di immediata percezione della funzione della Ratio, parti dell’Introduzione al testo di questa ultima ripubblicato di recente da un importante storico dell’istruzione di area cattolica, Angelo Bianchi,20 abbiamo una prima risposta al nostro quesito.
Eccoci al collage: Al centro della giornata scolastica vi era la praelectio, la spiegazione magistrale: il professore leggeva ad alta voce distintamene la pagina di un autore classico, e subito ne faceva un commento adeguato e corrispondente al livello della classe. Terminata questa fase, uno o più studenti erano chiamati a ripetere quanto era stato esposto. Di seguito si procedeva con una serie di esercizi specifici riguardanti la grammatica, la sintassi, il lessico, il commento erudito del brano proposto, che dovevano essere eseguiti al momento. Uno stesso argomento quindi veniva presentato con diverse modalità consecutivamente -la lezione, la ripetizione, gli esercizi-, cosicché si imprimesse bene nella mente degli studenti. Questo procedimento si compiva la mattina successiva … al sabato si teneva una lezione di ricapitolazione di tutti gli argomenti  svolti durante la settimana ... Con il medesimo procedimento, anche se con minore profondità ed esaustività, si svolgeva la lezione di Greco … Il ricorso al libro di testo fu certamente una delle caratteristiche peculiari dell’insegnamento dei gesuiti, di cui costituiva lo strumento didattico per eccellenza … rappresentava una guida sicura per allievi ed insegnanti, che vi ritrovavano gli elementi essenziali delle discipline scolastiche … presso la Compagnia di Gesù si sviluppò, di pari passo con il processo di elaborazione e di sperimentazione della Ratio studiorum, un deciso impegno per la redazione di manuali, libri di scuola, èpitomi e antologie di testi … Anche l’uniformità nell’impiego dei manuali, d’altro canto, poteva concorrere a rafforzare l’immagine di solidità e compattezza dell’opera pedagogica dei gesuiti. [...] Capacità dialettica, abilità oratoria, pieno e sicuro possesso del medium linguistico: erano questi gli obiettivi didattici che i professori dovevano perseguire con il loro insegnamento: il lungo ed estenuante corso di Latino, che si compiva generalmente nell’arco di sette o otto anni, doveva condurre ad perfectam  eloquentiam. All’interno della vasta gamma di attività linguistico-espressive che contraddistinguevano questa pedagogia della parola, come è stato efficacemente definito il complesso delle attività formative previste dalla Ratio studiorum per i corsi umanistici, rientrava anche la possibilità che gli studenti di retorica si cimentassero  in rappresentazioni teatrali, in azioni sceniche, o più semplicemente nella recita di dialoghi. … La prospettiva pedagogica della Ratio, tuttavia, pone in rilievo il fatto che l’esercizio della rappresentazione teatrale non era rivolto principalmente agli spettatori, come una qualsiasi altra azione drammatica, ma doveva svolgere una primaria funzione educativa nei confronti degli attori stessi, cioè dei giovani allievi, sia nell’esercitare e nel perfezionare la loro formazione oratoria.
La prima risposta al quesito di turno è data dalla sovrapponibilità, di per sé evidente, della concezione gentiliana dell’educazione enunciata ed esaltata nel volume La scuola degli italiani, al granitico impianto della Ratio.  La continuità degli obiettivi e dei metodi risulta pregnante se si considera che nell’una e nell’altra prospettiva tutto il mondo sembra dover girare attorno alla “pedagogia della parola”, intesa quest’ultima come strumento fondamentale del vivere della classe dirigente nell’esercizio del potere all’interno della società. E se non proprio di sovrapponibilità, possiamo almeno parlare di analogia o similarità tra altri dettami della Ratio e certi tratti con cui la scuola italiana si caratterizza tuttora in Europa. E in proposito non mi riferisco soltanto alla stoica abnegazione che il Liceo classico impone con gli esercizi di “traduzione” dal latino e dal greco, ma anche ad alcuni elementi strutturali quali l’assoggettamento del sistema ad un centralismo finalizzato a se stesso (quello francese ha almeno il pregio di garantire competenze tecniche, e quindi, nello specifico, culturali), l’imprescindibilità del gruppo classe e la funzione totalizzante del libro di testo; tutte forme di gestione che la “pedagogia della parola” ha finora portato con sé.
Una volta accertato che il primato assoluto dell’educazione alla parola non è un fatto ottocentesco e novecentesco ma un portato della tradizione gesuitica, resta da stabilire perché esso abbia resistito nella sola scuola italiana alla modernizzazione che tra il XVIII e il XX secolo ha trasformato l’Europa, Italia compresa ancorché tardivamente e confusamente. La scienza ha rovesciato il rapporto tra l’uomo e il pianeta, l’illuminismo ha aperto la cultura alla società, l’industrializzazione fa evolvere le strutture dell’economia e della società, il liberalismo e la democrazia trasformano i fondamenti del potere, la massificazione ha aperto alla globalizzazione; ma la nostra scuola ha il suo punto di forza, come dice Scotto di Luzio, nelle letture antiche. Nelle quali a contare non è tanto “l’antico”, cioè una sorta di rivisitazione o addirittura di riappropriazione del senso della civiltà classica, quanto “la lettura”, cioè l’immersione nel culto della parola intesa come strumento di affermazione sociale e quindi malleabile fino alle forme più spregiudicate di superfetazione. Così la pensavano i gesuiti quando proponevano azioni sceniche finalizzate non al pubblico, come nel teatro greco e latino, ma alla crescita delle virtù oratorie dell’attore e della sua autostima; e quando, per proporre principi e idee che li difendessero dalla nascente modernità, si affidavano alla Filosofia  di San Tommaso. Così, s’è visto, la pensa Scotto di Luzio, con l’aggiunta di un approfondimento di sé e della riscrittura della tradizione italiana moderna da parte di Gentile (e, non bastando più San Tommaso, con l’aggiunta della Storia della filosofia intesa come difesa dall’intromissione delle scienze -soprattutto di quelle sociali-  nelle cose umane).

6- Ma è poi davvero esistita la “scuola di Gentile”?
È importante precisare che soltanto di questi tempi si può parlare della continuità della tradizione gesuitica nella scuola italiana come di un tema di attualità, e ovviamente il merito è di recenti approfondimenti storiografici collegabili a iniziative di ricerca di nuovo tipo. Il primo input in merito riguarda la sopravvivenza di tale tradizione non soltanto alla storica “cacciata” della Compagnia (sciolta ne1 1773), ma anche al mezzo secolo, o quasi, delle vicende tumultuose e contraddittorie con cui l’Europa ha preso a trasformarsi radicalmente tra il Settecento e l’Ottocento (Rivoluzione francese, invasioni napoleoniche, Congresso di Vienna e Restaurazione con reintegro dei gesuiti, rilancio travolgente della modernizzazione, positivismo). Da un’articolatissima e mirata ricerca dell’università Cattolica di Milano sull’Italia di quei periodi21 -la rievocazione è condotta regno per regno, ducato per ducato e spesso collegio per collegio, o addirittura scuola per scuola- emerge la peculiare tenacia con cui la Restaurazione, subito dopo la caduta definitiva di Napoleone, è riuscita a radicarsi anche nelle scuole sottratte ai gesuiti e passate ai singoli Stati. Intendiamoci, era una tenacia da ricondurre alle tipologie e ai livelli della cultura intellettuale che aveva caratterizzato il Paese nei due secoli precedenti, scarsi di contatti con l’Europa in piena lotta per la modernizzazione. Ma si trattava anche di un filone culturale destinato a rendersi parallelo e funzionale alla politica di unificazione nazionale. Insomma, la restaurazione post-napoleonica in Italia non è mai cessata, ed è proprio e soltanto a partire da questo dato che si può spiegare perché e come l’orientamento educativo di matrice gesuitica sia stato anche il nerbo della politica scolastica sabauda, al punto da esprimere la legge Casati del 1859; legge del Regno di Sardegna ma di lì a poco estesa alla Lombardia appena “redenta”, e poi al Regno d’Italia.
E dunque l’idea di scuola che ha dato vita al nostro sistema nazionale di istruzione, e che lo ha regolamentato per oltre sessant’anni, esprimeva più lo spirito della Restaurazione che quello che andava animando  il cuore dell’Europa. Oltralpe, l’imponente capacità di sviluppo della scienza era manifestata dall’avanzare dell’“industrialismo”, dalle trasformazioni radicali del lavoro e delle città, e soprattutto, per quanto ci interessa specificamente, dalle nuove prospettive culturali; queste ultime erano testimoniate pubblicamente da esposizioni, conferenze, libri e giornali e, in maniera altrettanto palese, dai programmi scolastici.22 Ma altri input recenti della storiografia ci dicono che i motivi per cui la legge Casati era rivolta più a riordinare che a preordinare in vista di cambiamenti politici, territoriali, sociali ed economici, non venivano soltanto dal deficit di modernità.23 Venivano anche dai timori e dalle incertezze del progetto di unificazione di un paese privo di un certo grado di omogeneità nella cultura, nel costume, nelle esperienze di lavoro, nelle tradizioni, e che poteva saldarsi grazie soprattutto a una cultura intellettuale abbastanza omogenea, conseguita nei licei-collegi sorti in tutti gli stati pre-unitari in sostituzione dei collegi dei gesuiti e quelli assimilabili. Come a dire che un paese prevalentemente rurale e analfabeta poteva avere come collante la sola cultura di una élite irraggiungibile agli occhi del resto della popolazione. Questa consapevolezza dei limiti culturali entro i quali nasceva l’unità d’Italia è indicata anche da una nota del sociologo Alessandro Cavalli: Per non interferire con le convinzioni morali di una popolazione in maggioranza cattolica lo stato unitario ha assunto su di sé il compito dell’educazione nazionale (con una forte enfasi sui valori di patria e di nazione) lasciando alla Chiesa il monopolio dell’educazione morale.24 Osservazione essenziale, che tornerà utile anche più avanti.
Forti condizionamenti ha subito anche la preparazione del testo della legge del 1859, che fu concepita in funzione dell’imminente liberazione della Lombardia e per questo, più che in ragione di competenze specifiche, venne affidata all’esule lombardo Casati; la si dovette redigere in soli quattro mesi affinché potesse rientrare nei poteri speciali attribuiti al governo per lo stato di guerra (era in atto la seconda “di indipendenza”);  la si  battezzò Magna Charta dell’istruzione pubblica italiana, ma, come rivelava la stessa relazione illustrativa, si fondava su scarsi studi preliminari (rivisitazione dei recenti dibattiti del parlamento subalpino sulla scuola, conoscenza del sistema scolastico prussiano e poco altro). Più che costituire la piattaforma culturale della “nascita della nazione”, quale poteva o doveva essere, la legge del 1859 ha l’incompiutezza e l’insufficienza di prospettive di un testo rimediato. A chi gli proponeva di collaborare a migliorarla Carlo Cattaneo rispose: La legge Casati è indegna dei tempi e dell’Italia. Non conviene porvi mano. 25 Ma quella che per quel sansimoniano non poteva certo costituire la guida verso lo sviluppo, vale a dire l’eredità della Ratio, si rivelò storicamente l’unico elemento di forza e di stabilità della “Casati”.
Tutt’altra vicenda, al confronto, sembrò essere allora quella della riforma Gentile, cui l’opinione corrente ha attribuito fino ad oggi dimensioni da monumento; “monumento di errori”, se ci si mette nell’ottica degli avversari, ma pur sempre monumento. Se però si prescinde dalla vox populi non è così. Intanto non devono comunque sfuggire i tratti di identità tra i percorsi politici con cui le due riforme sono state generate e gestite. Anche la riforma Gentile al pari della Casati è stata varata in virtù di poteri speciali attribuiti al governo, e quindi avrà pure un suo significato recondito il fatto che le due leggi -fondative in successione di un regime scolastico durato un secolo e mezzo- non sono state votate dal parlamento. Certo, si può anche dire che si è trattato di emergenze, ma questo non esclude l’ipotesi che in entrambi i casi il parlamento - di fronte all’obbligo di prefigurare il futuro del paese, perché è proprio questo che si fa quando si vara un sistema scolastico- abbia mostrato più destrezza nell’aggirare la complessità delle scelte che vocazione alla “politica alta”. Problemi di discrasia culturale tra politica e istruzione? Di certo c’è che anche gli interventi di integrazione e di modifica apportati alle due leggi nei rispettivi periodi di vigenza hanno mancato di organicità e lungimiranza: numerosi quelli della “Casati”, la cui durata andava interrotta molto prima del 1923; numerosi, e soprattutto in contraddizione con i principi di partenza, quelli subiti dalla “Gentile” nel ventennio.
Quanto all’alone di prestigio che l’opinione pubblica italiana ha sempre tributato alla riforma Gentile, può essere inteso anche come effetto mediatico della famosa definizione pubblica che ne diede Mussolini,26 e comunque del clima di attesa che quest’ultimo era riuscito a creare attorno al suo primo governo nel ceto medio, il più interessato alle scuole di Stato. Fu una pubblicità senza precedenti per una legge sull’istruzione, e una delle più fortunate tra le “parole d’ordine” del duce, perentorie e autoritarie27 quant’altre mai affinché si imprimessero nella memoria perfino degli sprovveduti, con effetti di suggestione ma anche di “democratizzazione” (nel senso di avvicinamento tra potere e popolo, perché nelle dittature di massa, fondate sul consenso del popolo, il potere deve saper parlare al popolo)28. Fu anche un atto di rassicurazione verso la borghesia grande e piccola: col suo prestigio di intellettuale Gentile aiutava Mussolini, peraltro con l’assenso di Croce, a liberarsi dall’accusa di rozzezza culturale e di facile violenza29. Fu insomma un indelebile en plein di stima pubblica per il capo del fascismo e, di riflesso, per il filosofo. Dal 1924 in poi Gentile ottenne da Mussolini molti altri incarichi, però nell’opinione corrente conservò, durante e dopo il regime, l’alone di vero fondatore della scuola italiana.
Ma, alla prova dei fatti, della riforma di Gentile, o meglio, di quanto di gentiliano c‘era in essa, alla fine del ventennio è rimasto soltanto ciò che nella scuola italiana c’era già, e che Gentile aveva semplicemente trovato, e cioè il dominio del classicismo nella cultura liceale.30  

7- La cultura “disinteressata” dello Stato “che insegna”
Già a partire dal 1927, e soprattutto dal 1929 (il M.P.I. diventa Ministero dell’Educazione Nazionale), cominciarono i provvedimenti per ricollegare la formazione al lavoro e  articolare nel sistema educativo le competenze sull’istruzione tecnica e professionale (es. la istituzione della Scuola di avviamento, e della Scuola professionale femminile): urgevano riposte ai grandi problemi determinati dall’economia e non affrontati dalla riforma (sintomatica l’esclusione dal sistema universitario degli Istituti superori di Commercio). Furono nel contempo soppressi, per insufficienza di iscrizioni, tre ordini di scuola introdotti nel 1923: la Complementare (prevista come grande scuola di massa), i “corsi integrativi”, il liceo femminile. L’estensione dell’insegnamento della religione cattolica a tutti gli ordini di scuola prevista dai Patti Lateranensi fu una totale smentita della teoria di Gentile sull’educazione come “senso del tutto”, garantito nei licei dalla Filosofia e nella scuola elementare dalla Religione, intesa come surrogato e brutta copia della stessa Filosofia. L’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (poi Gioventù Italiana del Littorio) fu sì scimmiottatura delle parate militari, ma anche organizzatissima palestra di educazione Fisica, patronato, colonia di vacanza, primo e unico luogo di socializzazione dei figli di classi sociali diverse;31 insomma, uno strumento di fascistizzazione che sovrastava la pedagogia dello spirito del filosofo di Castelvetrano. La Carta della Scuola del 1939 fu presentata dal ministro Giuseppe Bottai come un radicale rinnovamento della scuola fascista nei suoi sistemi didattici, nei suoi metodi e nelle sue strutture e nel sue stile;32 e cioè come superamento della riforma del ’23, al fine di dare al paese una classe dirigente tecnicamente preparata ad affrontare i problemi reali della società (la Carta della scuola però ebbe applicazione, a causa della caduta del fascismo, per il solo riordino della media inferiore).
A ben vedere non soltanto Gentile è incorso nella progressiva destrutturazione, da parte del regime, di gran parte del sistema scolastico da lui creato, ma sono state smentite anche le linee portanti della sua concezione dell’obiettivo centrale, dei contenuti e del personale della pubblica istruzione. Ciò che il filosofo voleva assolutamente ottenere dalla sua riforma era una scuola umanistica che risultasse funzionale alla creazione dell’élite dirigente nella misura in cui diminuiva le iscrizioni e aumentava la selettività . Accadde invece che gli studi classici ebbero un notevole sviluppo per cui, nell’anno scolastico 1935/36, su 343.000 alunni iscritti ai vari istituti della secondaria superiore, ben 131.000 frequentavano il ginnasio-liceo33. E l’Istituto Magistrale ebbe un exploit da 123.000 alunni. Meravigliarsi, nella circostanza, significava non aver seguito il trend delle scuole europee e non aver preso atto dell’incidenza dell’economia industriale sull’istruzione. Nella seconda metà del secolo la scuola di massa ha portato i paesi più avanzati verso il traguardo, oggi “normale”, del 90% di diplomati. L’ossessiva ostilità verso la scienza portò Gentile a decretare perfino l’abolizione nei ginnasi-licei dell’insegnamento delle Scienze naturali (vulnus ad Aristotele), e a dichiarare incompetenti i membri dell’Accademia dei Lincei (che,  invitata a pronunciarsi sulla riforma, mosse ad essa l’accusa di aver sacrificato le materie scientifiche).34 Da ricordare: nello stesso ’900 la biologia ha tolto alla fisica il ruolo di Grande Scienza. Nei licei classici e nei licei scientifici la riforma Gentile esclude le donne dall’insegnamento di Filosofia, Storia ed Economia politica, considerate discipline “virili”; dalla nomina a preside saranno escluse le donne nel 1928, ma sin dal periodo Gentile si eviterà di collocarle in tale ruolo anch’esso più che mai virile.35 Prima smentita: la prevalenza femminile nella professione docente venne preannunziata proprio dall’exploit dell’istituto magistrale del 1936 segnalato sopra, perché dei 123.000 iscritti 85.000 erano donne. Smentita definitiva: la femminilizzazione delle professionalità scolastiche della scuola è un dato irreversibile ovunque.
Volendo dare una definizione dell’eredità lasciataci da Gentile a fascismo caduto e a guerra finita, possiamo affermare che di non contaminato dall’operatività e dalla tecnica, cioè da tutto ciò che rappresentava la cultura del lavoro tanto ostica al ministro riformatore, nella scuola restava il solo liceo classico, creatura come sappiamo della Ratio e non dell’idealismo italiano. Certamente Gentile ne ha rinvigorito gli ordinamenti dotandolo, rispetto alla gestione dei precedenti sessant’anni, di una disciplina sia di studi sia di comportamenti che tendeva ad eguagliare, mutatis mutandis, quella gesuitica (a cominciare dai programmi, e dalla chiarezza del raccordo tra questi, modalità di funzionamento e forme di controllo con cui ha riordinato la struttura amministrativa centrale e periferica del sistema di istruzione). Ma è anche vero che non è riuscito ad imporre la selezione di merito dei pochi, dei migliori, ton àriston che prepara agli studi disinteressati, che prepara al governo; e il governo per Gentile era incarnazione dello Stato, “eterna e immanente rappresentazione della coscienza della nazione”.36 Come meno che mai  è riuscito a tradurre in realtà il legame simbiotico da lui teorizzato tra scuola e Stato che insegna,37 e a chiudere il periodo dei precedenti anni tristi della decadenza politica italiana. Insomma, si fa torto al filosofo se si parla di lui come di un riformatore. Anche per sua ammissione: durante l’elaborazione dei suoi provvedimenti riformatori ribadì che “la parola d’ordine” più che “riformare era restaurare”.38
Quest’ultimo aspetto della vicenda ministeriale di Gentile -il restauratore comunemente ma impropriamente definito riformatore- può consentirci qualche passo in avanti nella risposta all’ultimo quesito che ci siamo posti a conclusione del 5° paragrafo (accertato che il primato dell’educazione alla parola è un portato della Ratio, resta da stabilire perché resista alla modernizzazione). Se non confondiamo il significato della parola “restaurare” con quello della parola “riformare”, possiamo infatti completare il quadro dell’estensione temporale della logica educativa gesuitica fino ad individuarne le più recenti manifestazioni e, se del caso, prevederne le ulteriori possibili evoluzioni.
Abbiamo già individuato l’ultimo caposaldo di quella logica nella legge Moratti (1° paragrafo di questo scritto),39 e possiamo ora indicarne la peculiarità nella istituzione, priva di precedenti, del sistema dei licei, funzionale ad una conclamata separatezza dei licei da tutte le altre scuole secondarie, destinate a costituire il sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Infatti il  sistema dei licei ha accresciuto il proprio potenziale distintivo con un aumento delle tipologie di liceo e, più ancora, con la generalizzazione dell’insegnamento della filosofia. Si è già detto della complementarità di classicismo e Filosofia nella tradizione scolastica italiana, ma in tempi di modernizzazione accelerata a livello mondiale bisogna sottolineare il crescente anacronismo della Storia della Filosofia che Gentile40 sta ancora imponendo: si tratta di una scia ininterrotta di  icone su cui il pensiero del docente e quello del discente possono slittare senza approfondimenti critici, di modo che la Filosofia si limiti a sollevare la realtà effettuale a livello di valore (es. lo Stato) e sbarri la strada ad altre analisi scientifiche (antropologia, sociologia, scienza politica ecc.).
Torna molto difficile, a questo punto, negare una sorta di continuità sostanziale tra la riforma “Moratti” e la riforma “Gentile”, tra questa e la riforma “Casati”, e tra la “Casati” e la Ratio. A partire da quest’ultima, e cioè da quattro secoli fa,  la formazione delle nuove generazioni risulta costantemente soggiogata dal primato delle letture antiche, da intendersi, come si è visto, sia nel senso di culto della parola (da esercitare, tra i giovani “nati bene”, solitamente con la trasmigrazione continua dal latino scritto all’italiano parlato e scritto), sia nel senso della rassegnazione, per i diversamente nati, a qualifiche culturali discendenti. Se poi si dà uno sguardo al solo numero dei progetti di riforma del sistema o della scuola secondaria inutilmente presentati in parlamento nella seconda metà del Novecento, e al numero di quelli che erano stati elaborati per modificare la “Casati”, ci si rende conto di quanto sia politicamente difficile sottrarre qualcosa alla tradizione classica della nostra scuola secondaria.

8- Più forti i fatti delle idee, ma sempre gli stessi
Utili elementi di giudizio su questa costante storica provengono dal confronto tra i dibattiti che essa ha provocato in stagioni diverse. Limitiamoci a quelli che hanno accompagnato i decreti del 1923 e a quelli, più distribuiti nel tempo, del periodo repubblicano. Alla vigilia della decretazione la sfida lanciata da Gentile per “poche scuole ma buone” fu favorita dal consenso di consistenti parti politiche (liberali in testa, ma anche democratici, clericali, massoni e perfino socialisti) e di eminenti figure del tempo (da Villari a Monti, da Croce a Lombardo Radice e a Salvemini). Varati i decreti piovvero però le critiche da ogni parte, compresa quella fascista (Marinetti in testa), ma più in relazione ai disagi che ne derivavano per specifici settori sociali che non in nome di alternative strutturate. Perfino la turatiana Critica sociale, che contrappone agli ordinamenti di Gentile la necessità di sviluppare sempre più tipi di scuole scientifiche con indirizzo moderno, ne prevede rispettosamente la collocazione accanto alla gloriosa scuola classica.
Di natura e di portata ben diverse gli attacchi e i contrattacchi espressi nella seconda metà del ‘900. A titolo esemplificativo citiamo quelli di tre autori di indirizzo culturale e politico diverso.
Bonetta: La scuola del ’23 è, dunque, una scuola non fascista, bensì una scuola autoritaria  reazionaria, la quale, una volta riconfessionalizzata … punta alla non liberale  conservazione di un vecchio primato culturale, classico e nazionalistico. Quest’ultimo è ritenuto alla base della formazione spirituale delle nuove generazioni, la sola capace di garantire la giusta preparazione ai ruoli specifici di governo e di orientamento delle classi medie e dirigenti in particolar modo. Primato questo che gerarchizza i saperi, classifica i bisogni culturali, penalizza e ghettizza la cultura scientifica, permette così alla scuola di allontanarsi dai processi reali della società ora sempre più tendente alla massificazione per l’intrinseca fisiologia e dinamica della società sempre più industriale.41
Borghi : Il programma educativo di Gentile ha la sua radice nella dottrina dei due popoli che era stata comune agli hegeliani del secolo scorso. La sua affermazione che si trattava di un programma di educazione era giustificata soltanto alla luce del pensiero e dell’azione dei liberali italiani secondo cui l’élite deve essere educata nella ragione e nella libertà, mentre le masse devono essere affidate alla Chiesa e nutrite di ideali di autorità. In tale modo la libertà dell’élite deve appoggiarsi sullo spirito di obbedienza della maggior parte del popolo.42  
Scotto di Luzio: Fin dalla sua fondazione la scuola secondaria è chiamata ad articolare il corpo politico della monarchia costituzionale. È lo spazio privilegiato della qualificazione di un ceto medio frammentario, disperso, socialmente minoritario, e che nelle intenzioni dell’élite liberale deve assicurare la base del nuovo ordine statale. [...] ... l’integrazione della scuola secondaria nel contesto ideologico del dopoguerra produce attriti molto forti. Il sospetto e l’insofferenza per il Liceo classico li riassumono tutti. Una scuola che educa l’individuo a vivere per se stesso … collide con il volontarismo di una cultura politica che poggia al contrario sulla profonda convinzione che l’individuo debba abdicare se stesso, in nome dei vincoli solidaristici, del primato del collettivo, della comunità e dell’appartenenza alla massa. Quest’ultima considerazione ne richiama un’altra espressa due pagine prima … la scuola e la sua missione vengono subordinate al perseguimento  delle finalità sociali solennemente dichiarate nella prima parte della Costituzione.43
Le citazioni dei tre autori riguardano gli stessi temi offrendone versioni e valutazioni non solo diverse ma anche -nel caso delle prime due rispetto alla terza- collidenti in toto. E però costituiscono anche, dal punto di vista interpretativo, una circostanza inconsueta e decisamente vantaggiosa per il lettore: le prime due sono perfettamente  sovrapponibili alla terza quanto a riconoscimento dei dati di realtà e delle evidenze, e nel contempo decisamente contrapponibili per quanto riguarda la valutazione delle une e degli altri. Insomma ci rappresentano uno scontro in campo aperto e sgombero da mimetizzazioni devianti. Ad offrirne l’opportunità sono le affermazioni di Scotto di Luzio appena riprodotte qui sopra in aggiunta a quelle inserite nel 5° paragrafo. Mirano a costituire, e ci riescono, una difesa a testa alta del primato culturale della tradizione educativa classico-gesuitica. Ma di questa mettono a nudo la natura e i fondamenti di carattere politico e culturale impiegando definizioni ora comparabili, ora assolutamente incompatibili  con quelle degli autori che su quella stessa tradizione esprimono giudizi anche fortemente negativi.
Quando Scotto di Luzio dichiara che la scuola secondaria dovrebbe rimanere estranea ai vincoli solidaristici, è evidente che sta reclamando il suo diritto di appartenenza al liberalismo italiano, le cui connotazioni politiche e culturali risultano, storicamente, quelle indicate da Borghi. Sono strettamente connesse ai ritardi secolari accumulati dal nostro paese nel processo di deruralizzazione e, prima ancora, nel processo di alfabetizzazione. Le enormi distanze economiche e culturali tra la mano d’opera contadina e le élite liberali, infatti, non hanno consentito a queste ultime le dinamiche dialettiche ed evolutive in cui il liberalismo europeo e quello americano si sono modernizzati. In definitiva, Scotto di Luzio sta bocciando inesorabilmente il principio Nessuno resti indietro adottato da George W. Bush per definire la propria politica scolastica.
Si arriva anche al rovesciamento completo del significato del termine liberale, visto che la scuola varata da Gentile nel ’23 è liberale nel giudizio di Luzio ma è definita autoritaria e reazionaria e dunque non liberale da Bonetta. Il quale ha peraltro premesso che si trattava di una scuola non fascista, come peraltro sostiene Scotto di Luzio nel corpo del volume: verissimo, ma era anche vero che l’Italia, per poter rimanere ciò che era, e soprattutto per non modificare la profonda ruralità delle sue anacronistiche distinzioni sociali, comprese quelle assicurate dal nucleo gesuitico/nazionale del sistema di istruzione, si stava affidando, proprio con quella scuola, all’inventore del fascismo.
Il momento conflittuale di più ampio e compiuto significato riguarda l’attualità del fenomeno massa. Scotto di Luzio, pur di rimuoverlo, dà l’impressione di ricorrere ad una sorta di interpretazione misticheggiante del liberalismo domestico, e pone una questione sul testo della Costituzione della Repubblica italiana. Bonetta invece collega lo sviluppo della massificazione a quello della cultura scientifica e dell’economia industriale e lo indica come l’aspetto più rilevante dei processi di trasformazione in atto.
Ma a questo punto si impone una riflessione sulla reale incidenza di questi confronti tra idee diverse sulla scuola e sulla cultura, o sulle culture, che la scuola deve esprimere. E ripercorrendo in sintesi estrema l’iter storico fin qui seguito, partirei dall’insistenza con cui Bosna, nel suo volume più citato in questa sede, segnala le occasioni in cui, da Cavour e da Cattaneo e per tutto il periodo di vigenza della legge Casati, si sono levate voci importanti, e sono state avanzate proposte precise proposte, per dare corpo ad un riformismo scolastico strettamente legato al riformismo economico, e quindi favorevole anche alle discipline scientifiche, all’istituzione di scuole di specializzazione (inconcepibili nella logica dell’insegnamento umanistico), alla formazione di personale in corrispondenza del fabbisogno degli insediamenti industriali (inizialmente avviati con il supporto di competenze, oltre che di capitali, provenienti dall’estero). Aggiungendo a quelle proposte, per pertinenza, la stessa Carta di Bottai. Ma è soltanto nel secondo dopoguerra, e in virtù del cosiddetto “miracolo economico” e non per effetto di una svolta della politica scolastica, e dei dibattiti, che si registrano due fenomeni innovativi rilevanti: l’espansione e l’arricchimento tecnologico dell’istruzione tecnica, e l’affollamento del liceo scientifico (che però, prestandosi ad essere considerato molto “liceo” e poco “scientifico”, ha poi finito per acquisire un ruolo da scuola secondaria generalista). Entrambi i fenomeni, peraltro, sono attualmente in declino: nel caso dell’istruzione tecnica il riflusso è quantitativo, e cioè determinato dal calo di iscrizioni; nel caso del liceo scientifico è invece qualitativo perché alle negatività del carattere generalista si sono aggiunte le peripezie della recente appendice tecnologica.
Per quanto riguarda invece i confronti di idee registrati nella seconda metà del ’900, e di cui i riferimenti alle posizioni di Borghi, Bonetta e Scotto di Luzio vogliono rappresentare una traccia, credo che l’esito di una così ampia divaricazione di idee sia riassunto in tutta la sua significatività dalla definizione del liceo scientifico prevista dalla riforma Moratti: Il percorso del liceo scientifico approfondisce la cultura liceale nella prospettiva del nesso che collega la tradizione umanistica alla Scienza, sviluppando i metodi propri della Matematica e delle Scienze sperimentali. 44
Come a dire, alla fin fine, che tutto è rimasto come prima, inesorabilmente.  E cioè a dispetto del fatto che sulla linea di Borghi e Bonetta -e nell’ampio arco dei circa cinquant’anni che separano i rispettivi brani sopra riportati- si sono espressi in molti con altrettanta chiarezza, mentre sul fronte presidiato da Scotto di Luzio è molto difficile scorgere altri autori disposti ad esporsi altrettanto scopertamente. Abbiamo dunque da considerare anche la possibilità che, almeno a colpo d’occhio, il filone della pedagogia della parola e dell’antiscientismo disponga anche di forti ancoraggi sotterranei. Abbiamo però da capire, prima ancora, come e perché nel cinquantennio post-bellico, nonostante la presenza forte ed organizzata di orientamenti culturali ed educativi dichiaratamente votati alla modernità, non soltanto nessuna battaglia sia stata effettivamente combattuta per realizzare una scuola culturalmente europea, come s’è visto nel 1° paragrafo, ma nemmeno oggi si affacci una adeguata denuncia del vuoto di iniziative attorno all’idea di una scuola democratica e rivolta al futuro. Certamente siamo di fronte anche alle conseguenze dell’aver affidato per intero le sorti del servizio nazionale d’istruzione ai sindacati. Altrettanto certamente questi ultimi stanno riducendo la loro capacità di ricevere affidi anche proporzionati alle loro competenze.
Al netto del suo irriducibile passatismo, è ancora Scotto di Luzio a suggerirci qualcosa di concreto sull’approdo di tutta la politica scolastica dell’ultimo cinquantennio. Lo fa nel mentre imputa ad essa il progressivo scadimento della secondaria (si tenta di scardinarla dice,  con riferimento a cattolici e comunisti già autori della Costituzione). Precisa infatti che la storia della scuola italiana nella seconda metà del Novecento non è il racconto del faticoso impianto della scuola democratica. Che resta un’enunciazione vaga, imprecisa, carica di risonanze ideologiche, ma vuota di contenuti specifici. E infine puntualizza: Il famoso asse culturale che avrebbe dovuto qualificare la proposta comunista sulla scuola … resta una vuota petizione di principio, e non mette capo a un’effettiva opera di rifondazione storica.45

9- La mancanza di mobilità sociale e altre ipoteche

Françoise Waquet dice che è stata la percezione della “dimensione latina” dell’Occidente moderno a farle scrivere il libro che l’ha resa famosa.46 Ma tutto ciò era nulla di fronte al dominio persistente … dell’antica lingua nelle scuole e nella chiesa. Questo è infatti l’inizio dell’indice: 1. Il Paese latino: la scuola; 2. La “fortezza del latino”: la chiesa. La soppressione del latino nella messa e del “latino obbligatorio” nelle scuole fu realizzata in tutto il mondo occidentale intorno agli anni sessanta del ’900, e segnò la fine di molte sofferenze inutili e di sforzi spesso sterili, ma non… che abbia posto fine ad un inganno ... Un’illusione forse, ma non un inganno, e ancor meno un nulla …il latino si prestò a tutto, fu in grado di dire tutto, di legittimare tutto (non era solo una lingua: era una morale, una religione, un sistema sociale, una regola di vita, un galateo, fa eco lo storico Adriano Prosperi nell’edizione italiana del volume). Le cause della fine? … il latino era già in piena decadenza, le misure brusche degli anni sessanta in realtà accompagnavano un’evoluzione delle cose. In effetti il latino morì … di esaurimento, e questo esaurimento non era della lingua, già morta dal XVIII secolo. Il latino è scomparso perché non voleva più dir nulla per il mondo contemporaneo.
E che cosa invece può ancora dire il latino a quanti frequentano il molto italiano “sistema dei licei”, inventato per farne il nuovo e più moderno elemento di distinzione all’interno del sistema nazionale d’istruzione? Ho già tentato di proporre qualche risposta (2° paragrafo) mettendo a confronto, sul piano storico e dell’attualità, lo sviluppo intermittente della nostra economia e la staticità granitica della nostra scuola. Ma una risposta più circostanziata la possiamo individuare, come ho premesso sul finire del paragrafo immediatamente precedente, attraverso una chiara distinzione tra gli ancoraggi dichiarati e gli ancoraggi “sotterranei” dei quali contemporaneamente si avvale la corrente di pensiero fondata sulla pedagogia della parola e sull’antiscientismo. Un paio di premesse: la prima riguarda il termine “sotterranei”, che evoca le logiche della politica, e quindi riguarda sì quel che comunemente non si vede, ma ha anche quel  che non si è voluto vedere o, soprattutto, non si è voluto far vedere apertamente; la seconda riguarda il principale autore di riferimento, che sarà ancora Scoto di Luzio proprio in quanto esplicito fautore di quella corrente di pensiero (e con particolare riferimento alle sue affermazioni citate nel paragrafo 8).
Gli ancoraggi dichiarati, e cioè le motivazioni del rapporto positivo tra ceto medio (e medio-piccolo) e liceo classico, sono cambiati nel tempo. La filosofia dello Spirito come atto puro, dello Stato etico, dello Stato che realizza sé stesso nella scuola, del destino storico della media borghesia (corpo politico della monarchia costituzionale dice Scoto di Luzio), ha perduto ogni possibilità di apparire attuale. Restano, per argomentare la scelta del latino, la gloria che esso ha accumulato nella storia della cultura patria e nella nostra tradizione educativa, e restano le due forme di sacralità che è riuscito a conquistarsi via via che da lingua parlata si trasformava in “lingua conclusa”: mi riferisco alla sacralità profana di una lingua che da sola basta ancora a segnare le distanze sociali, e alla sacralità religiosa della lingua sulla quale la Chiesa si è costruita come “religione della parola”. Ma la gloria d’antan e la sacralità ancorché duplice non valgono poi molto in una società dominata dal presentismo e disorientata dalla necessità di rielaborare i propri valori di riferimento (a causa di una industrializzazione a lungo ritardata e poi fulminea). Tanto è vero che Scoto di Luzio, per esaltare il ruolo del latino nel mondo moderno, molto insiste sul tasto dell’individualismo in quanto fattore in crescita costante, fino ad affermare che la traduzione è … addestramento alla decifrazione delle oscure impressioni dell’animo. Vale a dominare il mondo ….
Non sono invece cambiati affatto, nel contempo, gli ancoraggi “sotterranei”, e cioè le motivazioni profonde, mai apertamente dichiarate, del rapporto negativo tra lo stesso ceto medio e la prospettiva di una sua imminente appartenenza alla massa. Direi che non si può non concordare con Scoto di Luzio quando, riferendosi ai cittadini ai quali sta dando voce e pensiero, li presenta come da sempre favorevoli a qualunque progetto che preveda la selezione sociale realizzata nella e dalla scuola, e il più presto possibile. Ma va anche constatato che quei cittadini sono stati anche abituati a vedere motivato tale progetto, ufficialmente e non, con teorie e giustificazioni le più diverse; quelle appunto che rendevano la loro convinzione -o, meglio, la facevano apparire-  “sotterranea”. Oggi la copertura della selezione, della necessità di farla e di non rinviarla, è sempre meno accurata e può anche essere trascurata. L’espressione Non c’è bisogno che studino tutti … è scappata anche a qualche deputato. Scoto di Luzio va oltre, quando rivendica il diritto individuale di rifiutare la scuola e la sua missione se l’una e l’altra vengono subordinate al perseguimento  delle finalità sociali, e quando imputa alla Costituzione i vincoli solidaristici.
Insomma il clima, dal punto di vista sociale e civile, e soprattutto politico, è tale per cui il latino, inteso come scudo contro l’assalto della massa alla scuola, non ha più bisogno di motivazioni “sotterranee”. Anzi, considerato il calo di significato culturale e distinzione sociale del latino a livello europeo e internazionale, c’è da aspettarsi che la sua funzione di scudo dell’istruzione privilegiata perda la tradizionale consistenza anche in Italia. Peraltro
per la stessa funzione si sta preparando un altro strumento, il principio di sussidiarietà, di cui parleremo nel prossimo capitolo.   
Tra le cause di queste trasformazioni di clima nel mondo scolastico -e sempre a prescindere dalla particolarità del quadro politico nazionale- c’è anche da considerare l’altra faccia del rapporto scuola-società, vale a dire quella in cui confluiscono tutti gli aspetti di realtà e tutti i problemi che hanno a che vedere con una visione diffusiva dell’istruzione, e quindi con una funzione inclusiva della scuola. Non so se esistano parametri prefissati per favorire confronti significativi  tra la scuola che educa alla cultura diffusa e quella che educa alla cultura alta,  ma mi sembra possibile ricavare dai due fronti, se considerati assieme, qualche utile elemento di giudizio sulle linee di tendenza del sistema tutto.
È dunque il caso di ricordare  il bilancio non positivo dell’unica vera riforma scolastica “democratica” -nel senso della realizzazione di una scuola per tutti e di tutti- dell’età repubblicana: l’istituzione della Media unica e obbligatoria. Da tempo è stato rilevato e rivelato che al momento del passaggio dalla scuola media obbligatoria alla secondaria superiore gli esiti, rispetto a cinquant’anni fa, sono cambiati solo nella terminologia ufficiale: il numero dei licenziati supera il 90%, ma i livelli di preparazione attestati dal voto finale (oltre il 40% di “sufficienti”) si divaricano in proporzioni analoghe a quelle che a suo tempo distinguevano la Media dall’Avviamento. Insomma il merito e le attitudini individuali restano pressoché indistinguibili dai condizionamenti tipici dei livelli sociali di appartenenza. Serve a poco obiettare che nel frattempo il numero dei diplomati è aumentato (pur restando inferiore a quello degli altri paesi avanzati), perché non è possibile accreditare questo dato a sterzate riformatrici o a più semplici iniziative d’innovazione, visto che non se ne ha traccia. L’unica spiegazione ipotizzabile è quella che implica un certo tasso di bonomia valutativa nel secondo grado (con riferimento anche al pasticciaccio dei debiti e dei recuperi). I livelli degli esiti in uscita della Media sono lo scalino che conta, e che, fino a quando resterà quel che è, riuscirà da solo a impedire a tutto il sistema scolastico di produrre mobilità sociale (fenomeno insistentemente denunciato dal Censis); nel senso anche che è in grado di far fallire persino la più illuminata delle riforme della secondaria di secondo grado.
Il problema del decondizionamento ambientale dei ragazzi provenienti da strati sociali culturalmente poveri non è ovviamente soltanto italiano. Gli attuali studi in materia -di orientamento antropologico, sociologico, psicologico- pongono l’attenzione sul fatto che gli insuccessi derivano dalla selezione formale solo in minima parte e quasi sempre, invece, dall’auto-selezione, esercitata per difetto di consapevolezza e di motivazioni. In altri termini: si tratta di alimentare la domanda di istruzione in ambiti dove l’importanza di quest’ultima non è oggetto di sufficiente conoscenza. Le soluzioni non sono semplici e possono essere individuate soltanto paese per paese, giacché è evidente che rispetto a questa esigenza si trovano avvantaggiati i paesi di più lunga e più ampia storia di alfabetizzazione e industrializzazione, nei quali la lettura di libri e giornali rende possibile il confronto culturale e politico, in cui la democrazia è tutt’uno con l’esercizio della cittadinanza, e in cui l’esercizio del metodo scientifico è strumento universalmente riconosciuto come indispensabile, e peraltro ha un ruolo rilevante proprio nella specifica problematica d’ordine sociale  di cui stiamo parlando. Prospettive più faticose spettano ai paesi non ancora dotati degli stessi vantaggi. E tra di essi il nostro. Ma non è questo l’aspetto più preoccupante.  
Trovo infatti più allarmante il fatto che la Media non sia da tempo in discussione. Già oggetto di forti polemiche ideologiche alla nascita, talvolta esaltata impropriamente (per i programmi del ’79), ha visto lo scambio delle parti tra sostenitori e detrattori, è stata poi deprivata degli uni e degli altri, e soprattutto di progetti di riscatto che non siano svaniti nel nulla. Di riforma nemmeno parlarne. Tutto questo ha il suo significato, specie se lo si confronta con il tema dell’aristocrazia della parola.  

10- Scuole di tendenza vs. cultura scientifica e non solo
L’unica riforma in preparazione negli ultimi due anni è quella cui si è fatto un primo riferimento nel 2° paragrafo (v. anche nota 6, su DdL Aprea), riguardante la prevalenza in essa di criteri già applicati in altri paesi e proposti dal mondo economico-finanziario, e un secondo nel paragrafo 9°, in relazione al principio di sussidiarietà sul quale si fonda, e che è oggetto di studi e di fervorose iniziative economiche e politiche da parte di un settore del mondo cattolico. Il DdL include anche il principio di autonomia, ma in termini molto diversi da quelli che caratterizzano la normativa vigente:47 quest’ultima è finalizzata  al passaggio della gestione del servizio di istruzione dalla amministrazione ministeriale alle singole istituzioni scolastiche statali, e cioè prevede il passaggio ad una gestione tecnica in  sostituzione di quella burocratica; il DdL riguarda invece la istituzione di scuole, ed è finalizzato alla sostituzione dello Stato in  questa funzione mediante “fondazioni” a cura di soggetti pubblici e privati. E prevede di conseguenza anche una diversa strutturazione delle istituzioni scolastiche: centrale diventa il Consiglio di amministrazione, fortemente caratterizzato dalla partecipazione dei genitori e di esperti esterni, e dotato della facoltà di definire l’indirizzo generale ed educativo della scuola, e di assumere i docenti; per questi ultimi (ridotte le competenze del Collegio, escluse le RSU) è previsto l’inquadramento in tre ordini differenziati per livelli di competenza.
Naturalmente il progetto di riforma appena tratteggiato ha rilievo, in questa sede, in esclusiva relazione al delinearsi delle prospettive generali che il futuro può riservare al sistema di istruzione del paese, con particolare riferimento agli orientamenti culturali. In questo senso occorre evidenziare l’obiettivo politico sotteso al progetto: la drastica riduzione dei poteri dello Stato sul sistema di istruzione, e cioè sulla sua strutturazione organizzativa, sulla sua gestione e, soprattutto, sulle finalità di carattere culturale ed educativo. La sostituzione dello Stato nei ruoli indicati, e mediante il principio di sussidiarietà, è di fatto riservata all’unico soggetto interessato e attrezzato per l’operazione, la Chiesa, ovviamente liberata (come in gran parte è già) dall’ormai debolissimo ostacolo costituzionale del “senza oneri per lo Stato”.

Potranno esserci altre scuole di tendenza, ma forniranno l’alibi della pluralità sul piano religioso.
È a questo punto che dobbiamo recuperare, come previsto, la constatazione di Alessandro Cavalli (6° paragrafo e nota 25): … lo stato unitario ha assunto su di sé il compito dell’educazione nazionale … lasciando alla Chiesa il monopolio dell’educazione morale. A partire dall’ottenimento di questo monopolio in punto di fatto, la Chiesa ha perseguito senza posa, nell’arco di centocinquant’anni, l’obiettivo di trasformarlo in monopolio giuridicamente riconosciuto, e attraverso le tappe e i successi della sua politica concordataria (da Mussolini a Togliatti, da Togliatti a Craxi) si trova oggi alla vigilia del compimento di questa sua preveggente e articolatissima strategia. Della quale viene offerta puntuale interpretazione, mossa dopo mossa, documento dopo documento, in un libro di Remo Fornaca, storico e teorico della pedagogia. Ritengo indispensabile riprodurre di questo studioso alcune delle sue riflessioni sui risultati della ricerca che ha programmato e realizzato con occhio che oggi, a distanza di dieci anni, possiamo o dobbiamo definire profetico.
In tutto il percorso … dal Risorgimento ai nostri giorni … Chiesa e cattolici, salvo poche eccezioni, hanno sempre concepito lo Stato come un’istituzione sussidiaria e non hanno mai messo in dubbio il ruolo preminente della Chiesa specie nel settore dell’educazione. Ne è conseguita una forte critica allo Stato laico, neutrale, indifferente e alla scuola di Stato, con l’uso frequente della dizione “monopolio della scuola statale”.
[nella Chiesa, ndr] Senza mai rinunciare ai principi presenti nelle encicliche da un lato si lavora  per dare un’identità più precisa e unitaria alla scuola cattolica in modo da ovvi­are ad un frazionamento di enti e istituzioni ecclesiali, dall’altro si cerca di consolidare le posizioni all’interno della scuola pubblica  specie per quanto attiene all’insegnamento della religione cattolica.
C’è da segnalare che in questi ultimi anni, specie nei documenti della CEI, si registra una maggiore attenzione alle componenti e alle funzioni dei sistemi scolastici e quindi tutta una serie di riflessioni su ruolo delle scuole nella società contemporanea non limitata solo alle questioni religiose... In sostanza la gerarchia ecclesiastica cerca di intervenire sulla natura e sul merito della politica scolastica ovviando ai limiti dei periodi precedenti, quando… aveva sostanzialmente accettato i modelli scolastici proposti e attuati durante il periodo liberale, fascista e…nel dopoguerra.
Senza pretendere di fare previsioni si può affermare che sarà difficile per la Chiesa cattolica rinunciare a gestire la scuola dall’interno e dall’esterno a meno che maturi tra tutti i cattolici un effettivo senso del ruolo civile, umano, democratico della scuola, così come è fuori discussione l’indipendenza della magistratura… non poche nubi stanno addensandosi all’orizzonte; l’atmosfera di neoliberalismo, di iniziativa privata, di libera concorrenza, di destatalizzazione sta creando pressioni e condizionamenti anche tra i responsabili della politica scolastica della Chiesa. Siamo certi che se la Chiesa cattolica sceglierà questa strada, forse guadagnerà in termini di potere, ma sicuramente a farne le spese saranno la scuola, la società civile, la cultura e il vivere educativo.  
Inoltre il problema della scuola non può essere ridotto alle questioni dell’autonomia, della parità, del sistema scolastico integrato, della scuola della società, della richiesta di aiuti finanziari ai fini di conservare una presenza motivata dall’identità religiosa e dal sostanziale scetticismo nei confronti della scuola pubblica statale.
Fin qui il futuro quadro di riferimento su cui proporre almeno un paio di domande. La prima, più circoscritta, riguarda la sopravvivenza del primato della classicità. Potremmo darne per scontato anche un incremento, dato che da sempre caratterizza, più che la scuola statale, quella cattolica. La quale, in quanto scuola di tendenza, e cioè autorizzata a caratterizzarsi ideologicamente, potrà andare ben oltre i limiti previsti dalla legge “Moratti” e dal Regolamento Gelmini nel rinverdire la tradizione del latino e della filosofia scolastica (magari anche fino al recupero di un certo spirito della Ratio, e non delle regole, troppo severe per l’oggi). Potremmo anche ipotizzare il contrario, visto che l’impianto scolastico di invenzione neo-liberista non avrà bisogno di alibi come la lezione di latino. Rimarrà invece da scoprire l’adattamento di chi, già affezionato all’idea dello Stato che realizza sé stesso nella scuola, vedrà la Chiesa che insegna e deve insegnare. Ma possiamo scommettere che sarà un adattamento senza drammi.
La seconda domanda ha una dimensione molto più ampia: quali potranno essere gli elementi di criticità, a conclusione del percorso ricostruito da Fornaca, se l’espansione della scuola cattolica farà prevedere una sua futura predominanza? Che cosa distinguerà, nell’offerta formativa, la scuola cattolica  dalla scuola statale?  E anche a questo proposito ci offre un altro prezioso assist il lavoro di Fornaca48:  
Il termine di politica e, quindi di politica educativa e scolastica nel campo cristiano e cattolico cambia di segno perché non fa solo riferimento ai fenomeni sociali, alle contingenze storiche, ai dati esistenziali, alle costruzioni istituzionali, ma assume valenze metafisiche, ontologiche; la religione, la religiosità non sono una variabile, una delle tante componenti in quanto nella connotazione cattolica hanno un carattere fondativo. Tra la scuola e la scuola cattolica (l’evidenziazione grafica è redazionale, ndr) c’è una differenza sostanziale […] Basterebbe, al riguardo, sottolineare come per la Chiesa cattolica il problema educativo e formativo sia strettamente legato a quello della salvezza; istanza presente nella tradizione cristiana, ma che è diventata primaria nel cattolicesimo, per il quale la salvezza personale dipende non solo dalla mediazione della Chiesa, ma dal suo tutorato.
E che cosa voglia dire prioritariamente tutorato , per la Chiesa cattolica, nel periodo in cui stiamo vivendo, è facile da intuire: costituirà l’elemento privilegiato dalla Chiesa per esprimere la propria rivalità nei confronti della scienza agli occhi di ogni leva giovanile. Obiettivo principale: diffondere la paura del totalitarismo ideologico della scienza.49 La quale scienza, di per sé, e cioè al di là delle strumentalizzazioni che ne possono fare la politica e l’economia, risulta antinomica rispetto a qualunque tipo di totalitarismo e di ideologia, giacché è protesa ad offrire non la “Verità” ma soltanto delle umane certezze: queste sono irrimediabilmente destinate ad essere superate o falsificate dalle fasi successive della ricerca continua di cui la scienza vive, e quindi sostituite, come il progresso scientifico e tecnologico degli ultimi secoli ha inequivocabilmente dimostrato (puntualizzazione scontata per i lettori, ma inserita per ricordare che la scienza può essere definita soltanto nei dati di realtà dei suoi processi: rimane pertanto impotente di fronte alle aggressioni da parte della politica o degli ideologismi religiosi e non, e richiede ai cittadini consapevolezza  culturale e democratica per essere riconosciuta nel suo ruolo).  
Ma non si tratterà soltanto di condizionamenti nei confronti della scienza.  Calza in proposito una nota di Armando Massarenti in suo recente volume50: Autore della tolleranza per eccellenza, Locke sapeva che essa poteva generare qualche paradosso. Per esempio, dobbiamo essere tolleranti anche con chi non lo è e potrebbe … minare la nostra libertà di pensiero e di azione infliggendoci la propria verità o visione morale? … Locke sostenne che con i papisti, i cattolici, non ci si poteva permettere di essere tolleranti. Ancora oggi i cattolici usano liberalismo e empirismo e relativismo come fossero parolacce, e non sopportano neppure l’idea che gli possano venire in mente anche opinioni che non condividono.  
Naturalmente l’eccezione negativa prevista da Locke per i cattolici, oggi, alla luce della storia intercorsa, va considerata una contraddizione o comunque un problema irrisolto. Come problema ritorna in Jürgen Habermas (Il fondamentalismo che conduce a una prassi di intolleranza è incompatibile con lo Stato di diritto, 1992), citato da Bassam Tibi proprio nel libro51 in cui quest’ultimo studioso indica nello strumento giuridico l’arma con cui il fondamentalismo religioso ottiene i suoi successi a danno della democrazia: I fondamentalisti respingono la modernità culturale ma non la sua dimensione istituzionale. Secondo l’islamologo siro-tedesco, infatti, il fondamentalismo è un fenomeno assolutamente nuovo, mondiale e anzitutto politico, antimodernistico ma capace di servirsi della modernità, sfugge agli studiosi delle religioni ma non alle analisi delle scienze sociali, esalta il passato della singola religione ma non ne costituisce né prevede la rinascita, la trasforma in ideologia politica per aprire la crisi dello Stato nazionale laico, è una delle principali correnti globali e persegue il governo delle istituzioni anche locali. Pare insomma che per rimanere tolleranti con i cattolici, i musulmani e i seguaci di altre religioni, si debba esser ben certi di poter arginare la vocazione fondamentalista di una parte cospicua di essi.

                                                                                       ***
Ho già detto, sul finire del 1° paragrafo, che con questo mio dire non sto indulgendo al pessimismo, ma tentando di mettere assieme un bel po’ di dati di realtà; questi sì fatti apposta per scoraggiare, almeno apparentemente. Oggi la scuola è trattata malissimo, nel senso che se ne sono fortemente impoverite le risorse culturali e materiali, il ruolo civile e la credibilità, i livelli di gestione e di programmazione. Ma tutto dice, fuori ed anche dentro i nostri confini, che di scuola ci sarà sempre più bisogno perché in ogni altro settore la società di massa tende con forza alla qualità. Gli interpreti di questa aspirazione, nella scuola, possono essere sì gli utenti, ma se prima ancora lo possono gli insegnanti: non esiste per l’istruzione prospettiva di ripresa che non passi per una rivalutazione e un potenziamento della professionalità docente, e questo gli insegnanti possono dimostrarlo anche -o soprattutto- nei tempi più bui. Ecco perché l’invito della Canovai non solo ha un senso, ma è quanto mai prezioso. Questo della funzione docente è un tema che qui non ho affrontato per economia di argomenti e di tempo, ma al quale mi sto dedicando più che ad ogni altro. La qual cosa mi autorizza a raccomandarlo.

Note
1 L. Cost. 3/2001, Titolo V, art. 117 e art. 118.
2 Piero Calamandrei, in Scuola democratica, Roma, IV. Suppl. al n. 2 del 1950.
3 Intervista rilascia a Marco D’Eramo, il manifesto, 1.11.2009.
4 L. 59/97, D.P.R. 275/99.
5 Alessandro Cavalli, Latino perché, latino per chi?, L’INDICE, anno XXVII N. 3.
6 Con riferimento alla “Disegno di legge n. 953”, Aprea ed altri), debitamente preannunciata sul piano teorico da alcuni volumi, tra i quali: Ian De Groof - Charles L. Gleen, Un difficile equilibrio, Armando Editore, 2003; Felice E. Crema -Giorgio Vittadini, Verso l’economia dell’istruzione, Armando Editore, 2006.
7 Annalisa Pavan, Cultura della formazione e politiche dell’apprendimento, Armando Editore, 2005.
8 Antonio Cobalti, Globalizzazione e istruzione, il Mulino, 2006.
9 Vincenzo Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, Bollati Boringhieri, 1999.
10 Massachusetts, dal 1780, centro studi multidisciplinari su politiche emergenti, 4.600 borsisti anche esteri.
11 Già direttore di ricerca nel settore del’istruzione dell’OCSE, poi dirigente del Centro di ricerca del dipartimento dell’istruzione pubblica del Cantone di Ginevra.
12 Insegnanti al timone? Fatti e parole dell’autonomia scolastica, il Mulino, 2002. Offre una panoramica utilissima, pur prescindendo, stranamente, dalla differenza tra la normativa italiana sull’autonomia (mirata all’innovazione didattica) e quella vigente in altri Paesi (spesso mirata ad obiettivi di carattere organizzativo).
13 La legge: Art. 21 della L. 59/97 (“Bassanini”),  il regolamento applicativo: D.P.R. 275/99 (“Berlinguer L.”).
14 Con riferimento a:  D.P.R. 417/74, art. 1, che riconosce piena valenza formativa alla libertà di insegnamento; D.P.R. 417/74, art. 2, che definisce la funzione docente non solo come trasmissione della cultura ma anche come contributo alla elaborazione di essa; Decreto Legislativo 297/94 (T.U.), art. 1, che definisce la libertà di insegnamento come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.  
15 Franco Cambi, La scuola italiana tra otto e novecento. L’avvio della modernizzazione,  in Franco Cambi e Simonetta Ulivieri (a cura di), Modernizzazione e pedagogia in Italia,  Edizioni Unicopli, 2008.
16 Franco Cambi, Introduzione, in Modernizzazione e pedagogia in Italia, op. cit..
17 Ernesto Bosna, Modernizzazione e strutture formative, in Modernizzazione e pedagogia in Italia, op. cit..
18 Vedi Vittorio Telmon e Renato Tisato, L’Enciclopedia (voce Scuola), UTET - Gruppo editoriale L’Espresso, 2003.
19 Adolfo Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, il Mulino, 2007.
20 Angelo Bianchi (Introduzine e traduzione), Ratio atque institutio studio rum Societatis Iesu. Ordinamento degli studi della compagnia di Gesù. Testo latino a fronte, BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), 2002.
21 Luciano Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Editrice La Scuola, 1994.
22 Stevan Brint, Scuola e società, il Mulino, 1999
23 La citazione immediatamente precedente e le due immediatamente seguenti sono tratte dal volume di Ernesto Bosna, Tu riformi … io riformo. La travagliata storia della scuola italiana  dall’Unificazione all’ingresso  nell’Unione Europea, Edizioni ETS, 2006.
24 Alessandro Cavalli, Educare alla cittadinanza democratica, Carocci editore, 1999.
25 Ignazio Volpicelli,  L’ordinamento scolastico dopo l’Unità, in Benedetto Vertecchi, La scuola italiana da Casati a Berlinguer, Franco Angeli, 2001.
26 La più fascista delle riforme…l’atto più rivoluzionario nato dal governo fascista.
27 Conquistato il potere, la vena populista mussoliniana avrà modo di esercitarsi a suo agio nel contatto diretto con la folla, Marco Tarchi, L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, Il Mulino, 2003.
28 Alessandro Campi, Il nero e il grigio, Ideazione editrice, 2004.
29 Antonio Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Principato Editore, 1979.
30 Gli interventi legislativi di revisione della riforma Gentile elencati  in questo capoverso trovano riferimenti argomentati in Ernesto Bosna, Tu riformi … io riformo, op.cit., e in Antonio Santoni Rugiu, op. cit..
31 Antonio Santoni Rugiu, op. cit..
32 Giusppe Bottai, Relazione al Duce sulle 29 dichiarazioni della Carta della scuola sottoposta all’esame del Gran Consiglio del fascismo il 19 gennaio 1939, in Ernesto Bosna, Tu riformi … io riformo, op.cit.
33 Ernesto Bosna, Tu riformi … io riformo, op.cit..
34 Ignazio Volpicelli,  L’ordinamento scolastico dopo l’Unità, op. cit..
35 Nicola D’Amico, Storia e Storie della scuola italiana, Zanichelli, 2010.
36 Antonio Santoni Rugiu, op. cit..
37 Dal discorso del 15.11.1923 al Consiglio superiore della P.I. Lo Stato per noi è sostanza etica: è la stessa coScienza dell’individuo … vita morale da realizzare. Perciò lo Stato insegna e deve insegnare …Nella scuola lo Stato realizza sé stesso in Ernesto Bosna, Tu riformi … io riformo, op.cit..
38 Antonio Santoni Rugiu, op. cit..
39 … dopo 77 anni di attesa di una riforma generale di sistema, e in particolare di riforma degli ordinamenti della secondaria di secondo grado, ne sono state varate una nel 2000 (De Mauro), un’altra nel 2003 (Moratti) che abrogava quella del 2000 e recuperava quella gentiliana del 1923, e un’altra ancora (Gelmini) … per rifare il trucco a quella del 2003 mai veramente attuata.
40 Diceva Gentile In Filosofia il programma è compilato con questo criterio di sostituire alle opinioni e dottrine soggettive di un insegnante … lo studio di quelle fonti classiche cui attingono quanti coltivano gli studi classici, in Ernesto Bosna, Tu riformi … io riformo, op.cit..
41 Gaetano Bonetta, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Scuola e processi formativi in Italia dal XVIII al XX secolo, Giunti Gruppo Editoriale 1997.
42 Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, La Nuova Italia, 1951
43 Adolfo Scotto di Luzio, op.cit.
44 Decreto legislativo 226/05, applicativo della L. 53/203. Il Regolamento ai sensi della L. 133/08 ha confermato la definizione semplificandola in questi termini: Il percorso del Liceo scientifico approfondisce il nesso tra Scienza e tradizione umanistica, favorendo l’acquisizione delle conoscenze e dei metodi propri della Matematica e delle Scienze sperimentali.
45 Adolfo Scotto di Luzio, op cit..
46 Françoise Waquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Feltrinelli, 2004.
47 L. 59/97 (Bassanini), art. 21, D.P.R. 275/99 (L. Berlinguer).
48 Remo Fornaca, op. cit..
49 Giandomenico Meucci S. J., Il totalitarismo ideologico della Scienza, Civiltà Cattolica n. 3814, maggio 2009.
50 Armando Massarenti, Il filosofo tascabile, Ugo Guanda Editore, 2009. L’Autore è noto come responsabile della pagina Scienza e filosofia del domenicale del Sole 24 Ore.   
51 Bassam Tibi, Il fondamentalismo religioso, Bollati Boringhieri, 2001