Se la politica scolastica è molto politica e poco scolastica
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I silenzi di similoro
Dire, come si legge nel titolo d’apertura, che la politica scolastica possa risultare più politica che scolastica, non è il ricorso ad un motto di spirito o ad un pizzico provocatorio che preannunci una rivelazione: quel che intendo proporre è sotto gli occhi di tutti, solo che a mio parere va preso in maggiore considerazione. In prima battuta si tratta degli effetti del lungo e mai adeguatamente contestato regime di insufficienza informativa sulle relazioni tra scuola e società e tra scuola e politica; in seconda battuta c’è la constatazione, ancora più pesante, che oggi quelle relazioni sono ingarbugliate oltre che aggrovigliate, e quindi inclini a involuzioni pericolose; a partire dal rapporto sempre più diretto tra politica e scuola, come dire tra potenza e debolezza. Circa i vuoti d’informazione c’è subito da precisare che vanno addebitati, sì, agli organi istituzionalmente previsti per la divulgazione di notizie a mezzo stampa, televisione, radio, editoria ecc.; ma non soltanto, e nemmeno soprattutto. I media fanno conoscere un fatto o uno stato di cose, e nel notificarli possono anche dar corso ad altri fatti e ad altre situazioni, ma non stanno all’origine della catena delle cose di cui informare l’universo mondo.
A dover essere chiamati in causa a pieno titolo, e cioè in qualità di attori primari, sono quei soggetti -istituzioni, partiti, associazioni, e comunità scientifiche culturali e religiose, rappresentanze sociali e dell’economia- che per le loro specifiche competenze possono, a vicenda, risultare ideatori, promotori, protagonisti o soltanto utili critici della politica scolastica. Ad essi spetterebbe ordinariamente, nella logica di una democrazia non simulata, di impegnarsi in sfide autentiche, aperte e pertinenti, fra di loro e con interlocutori anche di altri paesi, per ampliare e approfondire le riflessioni e le proposte sulle prospettive di potenziamento del sistema di istruzione. Ma l’aspetto più grave della questione non è tanto la mancanza di segnali che tutto questo sia prossimo a divenire realtà, quanto il timore che non ve ne sia la possibilità. Dubito che sia da scartare questa supposizione: se i potentati accademici, economici e politici volessero scongiurare l’emarginazione della questione scolastica, potrebbero i media fare dell’istruzione quel che stanno facendo, e cioè l’unico settore produttivo cui riservare carenza di interesse e di competenze, e cronachismo spicciolo invece di commenti e dibattiti qualificati? Circa la prevalenza del politico sullo scolastico: è di per sé evidente che ha a che fare con la magra situazione di realtà che sta caratterizzando il nostro sistema d’istruzione, con le sue forti criticità e con la mancanza di progetti atti a superarle. Si tratterebbe di applicare all’attività scolastica gli stessi criteri di ammodernamento che caratterizzano da tempo, anche in tempi di crisi, gli altri settori produttivi. C’è un parallelismo tra, da un lato, l’evolversi delle competenze scientifiche e tecniche con cui la società accelera il suo sviluppo, e che riguardano sia il lavoro sia gli altri impegni di vita; e, dall’altro, l’aggiornamento delle conoscenze e delle competenze che istruzione e formazione possono assicurare alle nuove generazioni. Questa è peraltro la prospettiva dell’“Agenda di Lisbona” dell’U. E., purtroppo ostacolata da ritardi vari.
Il ritardo della scuola italiana è frutto di una filosofia unica, quella che da sempre ha imposto all’istruzione indirizzi culturali e metodologici ultrasecolari, e gestioni e verifiche esterne ai processi di apprendimento, atte a non farli evolvere. Domanda: è in grado la politica -con le sue arti sottili e la sua reattività, con i suoi obiettivi svarianti e le sue logiche di potere- di sottrarre se stessa prima ancora che la scuola a quella storica egemonia? Proprio or ora, con i finanziamenti ridotti e lo stop ai precari, il cielo dell’istruzione s’è tinto di piombo. Ma qual è stata l’ultima giornata di sole? Forse utili elementi di giudizio sulla scuola d’oggi provengono anche da due iniziative in corso nell’ambito dell’informazione. Stampa e TV diffondono molte interviste a personaggi pubblici sul Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, e danno rilievo alle denunce dell’ignoranza e dell’indifferenza dei giovani rispetto al Risorgimento; mai, però, che qualcuno ne deduca le responsabilità della scuola. Stampa e TV segnalano con insistenza notizie e documentazioni sull’impressionante declino dell’etica civile, della legalità e del rispetto di regole nella vita pubblica italiana; mai, però, che qualcuno contesti al Ministero la beffa dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione (annunciato con le chiarine e messo subito fuori scena come se di nulla si trattasse). E il tacere sulle prove d’inadeguatezza di scuola e MIUR è peggio che contestarli, perché è come fregiare l’una e l’altro di una patente di nullità.
Una bufera di riforme e di fallimenti
È facile riconoscere nel titolo di questo paragrafo il tormentone di provvedimenti legislativi che ha caratterizzato il primo decennio del nuovo secolo. Una rivisitazione di alcuni di essi, i principali, può consentirci di toccare con mano le logiche e le strategie che hanno portato la politica scolastica a far da ancella alla politica finalizzata a se stessa, e cioè all’incremento dei poteri di partito o di coalizione. Dei tre termini di questo titolo quello a cui faremo più spesso riferimento nel corso dell’analisi non è “riforme”, perché la bufera non ne ha lasciate in vigore nemmeno una; e nemmeno “fallimenti”, tutti imputabili alla politica e, una tantum, non alla scuola.Resta allora da chiedersi come proprio la scuola italiana abbia potuto farsi teatro di un’autentica “bufera” di cambiamenti: non era vissuta esclusivamente del suo uniforme passato anche se prima monarchico e poi repubblicano? Ci sono voluti sessantatre anni per sostituire la riforma Casati con quella gemella o quasi di Gentile, e settantasette per arrivare al tourbillon che è riuscito soltanto a spennellare quest’ultima. E come non ricordare che l’esigenza di una immediata riforma sistemica degli ordinamenti fu il proposito dichiarato dal ministro dell’istruzione Gonella sin dalla nascita della Repubblica? e che allo scopo, dagli anni Sessanta in poi, si continuò a sfornare progetti di legge rimasti senza approdo ma invocati nelle agitazioni di insegnanti e studenti? E perché non ammettere che l’Italia è rimasta sola in Europa a lasciare a metà, e cioè limitandole alla Media, le riforme di quantità?
Si esce dall’enigma della “bufera” ricorrendo ad altri elementi di giudizio, primo fra tutti l’insieme dei mutamenti dell’assetto politico del paese provocato dall’avvento della cosiddetta “seconda Repubblica”. Da segnalare in particolare l’introduzione del bipolarismo e l’interpretazione che subito ne è stata praticata nei confronti tra schieramenti contrapposti: è prevalsa un’asprezza inusitata, sconosciuta in particolare alla politica scolastica, che anche in Italia, sull’esempio delle democrazie consolidate, ha sempre garantito margini di intesa tra i gruppi parlamentari nelle scelte a più lunga prospettiva di realizzazione. Da qui molte delle fibrillazioni registrate. Altro elemento di forte animazione anche se di segno opposto è risultata, alla vigilia del decennio, l’entrata in scena dell’autonomia scolastica, una svolta radicale e tanto necessaria quanto, invece, sconosciuta e quindi inattesa nel mondo della scuola (una conquista per molti ministri, un pericolo per i sindacati, una “grana” per i partiti). Legiferata e inserita nella Costituzione dal 2001, non è mai entrata nella realtà del servizio di istruzione.Le prime manifestazioni di politica scolastica non propriamente tale sono venute dal Centrosinistra, e di rimbalzo dal Centrodestra, al tempo in cui il primo schieramento varò il “Riordino dei cicli” (L. 30 del 10.2.2000). Il testo sorprese molto perché non prevedeva, di fatto, proprio l’applicazione della legge e del regolamento dell’autonomia.
Con Berlinguer già escluso dal governo, stava per arrivare anche la caduta del suo piano di rinnovamento, fondato sul rapporto organico dei nuovi ordinamenti con la rivoluzione dell’autonomia didattica; un piano che avrebbe valorizzato gli stimoli innovativi del percorso legislativo iniziato nel 1973. Le motivazioni della rinuncia? Due e convergenti. La prima: il no della maggioranza degli insegnanti ad una clausola artatamente connessa all’autonomia (il “Concorsone”, sostituibilissimo) ma interpretato come sonora bocciatura dell’intero progetto di quest’ultima. La seconda, discendente dalla prima: la paura dello schieramento di perdere le imminenti elezioni politiche. Evidente, in questa scelta, la prevalenza della “ragion politica” sulla “ragion scolastica”. Interrogativi rimasti aperti: quante messe val bene Parigi? le vale anche a elezioni perdute? quanti si sono accorti che da allora è mancata al Centrosinistra una politica scolastica? e questo schieramento, quando oggi invoca “la politica delle cose”, comprende fra queste anche l’istruzione? Il Giornale diretto da Montanelli tracciava ufficiosamente la linea di politica scolastica per la destra ed aveva un bersaglio fisso, la Media unica (e don Milani); per motivi opposti Berlinguer escluse questo grado di scuola dal suo “Riordino dei cicli”, ed ottenne l’ostilità giurata di presidi e insegnanti. Il Centrodestra disse alto e chiaro di stare con questi ultimi. Nondimeno, in fatto di politica autoreferenziale il primo round andava al Centrosinistra.
Revisione o marchingegno?
Il carattere di spiccata eccezionalità della “bufera” di cui stiamo parlando raggiunge la vetta a partire dalla L. 53 del 28 marzo 2003. È la cosiddetta “riforma Moratti”, la cui storia appare difficilmente reiterabile per più aspetti. Forte di inusuali attenzioni della stampa, degli applausi ciellini di Rimini per il preannunciato rilancio del liceo classico, dell’ampiezza dei gruppi di lavoro, del coinvolgimento ottenuto agli Stati Generali della Scuola, dell’eco delle fasi di scrittura del testo di legge, della puntualità e della corposità dei decreti attuativi, della ricchezza e delle articolazioni dei programmi prescrittivi, dell’amplissima distribuzione dei depliant di ragguaglio all’intero popolo della scuola, ha concluso il proprio iter preparatorio dopo aver consumato i tempi dell’intera XIV Legislatura. Non è ovviamente entrata in fase di applicazione nella legislatura successiva, a maggioranza di Centrosinistra, ma nemmeno, e contro ogni logica e previsione, nella XVI legislatura a straripante maggioranza di Centrodestra. A chi chiede che cosa sia rimasto in vigore del testo della L. 53 del 28 marzo 2003 detta “riforma Moratti” (7 articoli, 22 commi, 33 lett., 4.576 parole), non si può che rispondere: il comma 10 dell’art. 7, penultimo comma dell’intero testo, che recita: “La legge 10 febbraio 2000, n. 30, è abrogata” (9 parole). Vale la pena di rammentare che nelle tradizioni della legislazione scolastica occidentale l’abrogazione di una legge di sistema, come appunto era la L. 10 febbraio 2000 n. 30, alias “Riordino dei cicli”, ha il ruolo di una infausta rarità. Vista alla moviola, dunque, l’uscita di scena della “Moratti” s’impone all’attenzione come un grande tonfo. E però nessuno lo ha registrato. Non i media, fermi alle cronache di giornata. Non il Centrosinistra, allora all’apice di una fase dispersiva. Meno che mai il Centrodestra, che appena tornato trionfalmente in sella ha messo in atto un nuovo piano: varo della “Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei”, e cioè riformulazione della riforma precedente al fine di limitarne e mimetizzarne i fervori ideologici; contemporaneo varo di una manovra diversiva (severità con gli alunni, lezioni di “Cittadinanza e Costituzione”, valutazione dei docenti ecc.) finalizzata alla dissimulazione del fallimento della XIV legislatura in campo scolastico. Il piano, realizzato peraltro nel periodo delle proteste contro i tagli alla spesa, è risultato un autentico colpo d’ala della politica intesa come capacità di esercizio del potere in situazione d’emergenza; cioè come politica autoreferenziale. Ma la liquidazione della “Moratti” restava immotivata, così come tuttora resta incerta la portata della “Revisione” del ministro Gelmini sui tempi lunghi: non è né riforma né controriforma, e garantisce soltanto il recupero delle logiche di pigra conservazione prevalse in tutta la seconda metà del Novecento. È recupero dell’asse culturale risalente a Casati e Gentile, ma anche del tarlo che da tempo lo indebolisce (si pensi alla interminabile agonia del latino nei licei scientifici). La “Revisione”, cioè, rimane esterna ai problemi derivanti dalla inconsistenza del rapporto tra l’offerta culturale della scuola e la curiosità intellettuale delle nuove generazioni, e quindi anche al problema della deriva generalista di cui ormai soffrono un po’ tutti i settori del sistema d’istruzione. Come resta esterna al tema del declino della professione docente (da rianimare con la meritocrazia? certo, ma non confondendo la professionalità con lo stacanovismo dell’insegnamento trasmissivo). La tela della “Revisione” stesa sulla “Moratti” ha comunque contribuito ad allontanarne il ricordo. Questo dato di realtà consente di sperare in una tregua della politica d’assalto alla scuola? Non direi, se si rammenta che contemporaneamente è stata tessuta un’altra tela da un’altra tessitrice della stessa parte politica: proprio all’inizio della XVI legislatura, e prima ancora dell’entrata in scena della “Revisione” del Ministro (decreto-legge 25 giugno 2008 poi trasformato nella L. 6.8.2008 n. 133), è stata presentata in VII Commissione Camera il 12 maggio 2008 (prima firmataria la presidente della Commissione, Aprea) la Proposta di Disegno di Legge (abbr. PDL) n. 953. La sovrapposizione di date non può essere casuale. Peraltro la PDL 953 ha avuto visibilità incerta e tardiva, e cioè quando, nell’estate del 2009, la Commissione ha rinviato il giudizio definitivo su di essa a data da destinarsi; per giunta con motivazioni unanimemente giudicate discutibili. Eppure si tratta di un piano di riforme ampio e fortemente strutturato, carico di implicazioni rilevanti (e spesso acquattate) quanto può averne un programma di governo relativo all’intero sistema dell’istruzione. E soprattutto lascia scoprire subito che è di segno opposto ai contenuti della predetta “Revisione”: esclude infatti la scelta dei programmi di insegnamento da parte dello Stato, per riservarla, assieme ad altre competenze, alle singole istituzioni scolastiche in quanto ne prevede la totale autonomia. Interrogativo inevitabile, aspettando di scoprire il marchingegno: perché due disegni di legge opposti e concepiti all’unisono dalla stessa parte politica? Domanda di riserva: possono essere letti come non opposti? Qual è, insomma, il marchingegno?
La “Moratti” e l’eterno ritorno
Quanto al modello di autonomia, la PDL 953 si schiera in totale contrapposizione ai principi che stanno a fondamento dell’autonomia in vigore ma non attivata (L. 59 del 15.3.1997 e relativo Regolamento, DPR 275 dell’8 marzo 1999), e che erano stati via via anticipati a partire dal 1980 (da Bodrato fino a Lombardi): valorizzazione delle potenzialità dell’allievo attraverso forme di flessibilità praticate nel rapporto insegnamento/apprendimento; incremento costante della professionalità docente attraverso l’attività, iniziale e in itinere, di formazione e ricerca. Nella nuova proposta l’autonomia non è il materializzarsi di scelte mirate, mediate e rilanciate da docente e discente nel corso dell’intrecciarsi di insegnamento e di apprendimento; non è un microcosmo di autonomie che si legittimano nei risultati. È autonomia dell’istituto scolastico fondata sulla preminenza del proprio carattere istituzionale, e più precisamente sulla compattezza a priori dei poteri decisionali riservati ad un solo soggetto scolastico: il “Consiglio di indirizzo”. Quest’organo dètta l’indirizzo educativo della scuola, programmi e P.O.F. compresi, e quello organizzativo (al dirigente scolastico le funzioni “gestionali”, agli insegnanti quelle “tecniche”); delibera in proprio lo Statuto e i regolamenti; istituisce e disciplina gli organi interni; ha compeenze esclusive su risorse e bilancio; promuove la costituzione di fondazioni e consorzi con partner pubblici e privati a sostegno dell’istituto. Alle tradizionali componenti consiliari sono aggiunti i rappresentanti di realtà locali, e il numero dei rappresentanti degli insegnanti è ridotto fino a corripondere a quello tradizionale dei genitori. Si garantiscono alle famiglie patti educativi con i docenti, libertà di scelta, e diritto di associazione: novità non da poco quest’ultima, se si pensa che contemporaneamente il Collegio, aggiogato dai sindacati a ruoli di rivendicazione spicciola, non viene ricondotto alle sue funzioni di massimo programmatore ma abolito (spuntano sì i “consigli dei dipartimenti”, ma intesi come organi “tecnici” che si limitano all’applicazione delle disposizioni deliberate dal Consiglio di indirizzo). Nella professione docente sono introdotte qualifiche d’antan (francesismo d’obbligo) come se la meritocrazia dell’innovazione e dei risultati fosse ancora da inventare. Si prevedono nuclei interni per la valutazioni dei docenti e dell’intero istituto, ma senza un cenno agli strumenti (es. la ricerca) con cui garantire incremento produttivo.
È di per sé evidente che la PDL 953 propone una prospettiva del tutto divergente rispetto al trend italiano, e fino a stupire. Non però per il mondo anglosassone, e segnatamente per gli U.S.A., dove “nuova destra” e neoliberismo sono riusciti a imporre che siano i genitori a stabilire l’agenda per gli insegnanti nelle charter schools (scuole a contratto) ormai trentennali e pur sempre minoritarie. E però c’è ben altro da scoprire nella stessa PDL se si deduce tutto il deducibile dall’art. 13. Brano chiave (comma 1): Il reclutamento dei docenti…avviene mediante concorsi per titoli banditi dalle reti di scuole, anche eventualmente costituite appositamente, secondo le esigenze della programmazione degli istituti afferenti ad ogni rete di scuole. Il corsivo che segue è una mia interpretazione già pubblicata. Si arriva al machiavello se s’immagina che non le istituzioni scolastiche ma un qualunque soggetto (culturale, politico, religioso, sindacale o altro) allestisca una programmazione, ne ottenga l’inserimento nel POF di una scuola, e, a catena, di più scuole, ed ecco che è organizzata una rete. Le reti, oggi realtà occasionale alla periferia del sistema, diverranno titolari di poteri istituzionali e rappresentative delle diversità culturali ed educative dei singoli Consigli di indirizzo, sostenute anche da fondazioni. Sostituiranno lo Stato nella scelta degli insegnanti, e prima ancora, come s’è visto, dei programmi, che connoteranno ufficialmente le scuole di ogni rete: avremo così le scuole di tendenza (etnica, politica, ideologica e, soprattutto, religiosa (da Se un’autonomia non vale l’altra, in L’indice dei libri del mese, Anno XXVII - n. 12, dicembre 2010).Siamo ora in grado di articolare in pochi punti la risposta agli interrogativi in calce al terzo par. Poiché la presentazione di due progetti in concorrenza fra di loro è assolutamente incompatibile con i precedenti e con la disciplina operativa dell’attuale maggioranza di governo, bisogna supporre che “Revisione” e PDL 953 possano risultare compatibili non a dispetto delle indiscutibili differenze, ma in forza di esse. E la loro funzionalità reciproca all’interno di un’unica strategia è pensabile soltanto nella logica del missile a due stadi e con distinti obiettivi. La “Revisione” ha fatto da primo stadio, avendo il compito di nascondere la momentanea rinuncia all’applicazione della “Moratti”, e di alleggerire la tensione riformatrice in attesa del momento propizio -e tale non è risultato quello del 2009- per il secondo stadio. E cioè per la messa in campo della poderosa PDL 952, che sostituendo la scuola di Stato con le scuole di tendenza consente ad almeno una apposita rete di recuperare tutto il grande bagaglio della “Moratti”, e magari qualcosa di più. Sarà un ritorno di più riforme: della “Moratti” che recupera la “Gentile”, della “Gentile” che tentò di rinvigorire la “Casati”, della “Casati” che prese quanto poteva dalla Ratio dei gesuiti. Come nella teoria nietzschiana dell’eterno ritorno? C’è qualcosa di più attuale e di più concreto, ed è l’agile volume di Giovanni Cominelli (La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé, Guerini e Associati 2009), che senza remore espone motivazioni e finalità della PDL 953: ci guiderà alla salvezza perché sarà la Terza Ratio studiorum.
La governance come schermo
L’asserzione alla quale i sostenitori della PDL 953 tentano di annodare gli interlocutori dubbiosi è che si tratta di un progetto limitato alla governance della scuola, e che pertanto riguarda esclusivamente i poteri decisionali operanti all’interno del sistema delle autonomie e non le scelte relative ai processi educativi e formativi. Ma non è proprio così. Il termine governance marca soprattutto una distinzione rispetto a government, inteso quale “istituzione”, “apparato” e “organizzazione”. Si parte cioè dalla convinzione che “governo” non sia più una definizione appropriata del modo in cui le popolazioni e i territori sono organizzati e amministrati. Si ritiene che in un mondo in cui la partecipazione dei rappresentanti degli interessi economici e della società civile sta diventando la norma, il termine governance definisca meglio il processo attraverso cui collettivamente risolviamo i nostri problemi e rispondiamo ai bisogni della società. “Ad oggi, tuttavia, manca una definizione condivisa…il concetto di governance va spesso a sostituirsi ad altri termini, ma senza favorire una comprensione chiara dei meccanismi d’interazione e regolamentazione considerati e quindi senza dar conto della specificità, analitica e significativa, del concetto stesso”. E per quanto riguarda il problema di cui ci stiamo occupando, l’autonomia delle istituzioni scolastiche, il termine governance non esclude un bel nulla: ha di suo valenze inclusive più che escludenti, visto che sta sulla scena in virtù dell’esistenza di un nuovo modo di organizzare e amministrare territori e popolazioni. Diciamo semmai che in tema di scuola italiana le difficoltà dell’approccio alla governance -terreno di economisti, politologi, sociologi, antropologi ed esperti di relazioni internazionali- vengono tutte dalla storia del nostro sistema scolastico, affidato per oltre un secolo alle competenze più tradizionali di giuristi e filosofi, e successivamente al tandem burocrazia-sindacato; le scienze dell’educazione più moderne non sono mai riuscite ad avvicinarsi realmente alla scuola, e la pedagogia, che altrove trae da esse la sua odierna ragion d’essere, è rimasta amica delle nuvole. Vero è che i fautori della PDL 953 hanno inteso includere nell’orbita della loro proposta - governance o no - alcune problematiche e alcune prospettive, rendendole centrali ed esclusive, ed hanno escluso del tutto le altre. Le escluse sono quelle relative al problema dei dislivelli culturali che ancora caratterizzano fortemente il quadro sociale italiano, alla modernizzazione dell’insegnamento scientifico, all’autonomia didattica e di ricerca, alla realizzazione di una autentica professionalità docente. Le incluse occupano la parte restante dell’articolo. Si è trattato di una scelta esclusivamente politica. Dobbiamo dunque intendere che questa idea della governance anzitutto avalla il detto per cui in Italia i partiti politici sono una delle cose più autoreferenziali? Abbiamo già usato questo termine della logica moderna (ignorato dai dizionari italiani fino a tutto il Novecento), per definire politicamente sia la rinuncia del Centrosinistra all’autonomia nel 2001, sia la “Revisione” gelminiana del 2008, giacché si trattava in entrambi i casi di ritirata di una forza politica rispetto ad un proprio progetto. Con la PDL 953, invece, assistiamo alla promozione di una riforma scolastica che promette forti scontri (sulla carta), e si passa, in metafora, dalla ritirata all’avanzata.
Che è qualcosa di più della politica autoreferenziale? C’è a disposizione un altro termine, politica sovrana.Il testo della PDL risulta snello e risoluto nelle scelte sintattiche e lessicali, ma proprio per questo entra in contrasto con se stesso per quanto contiene di sovrapposizioni incongrue, di mimetizzazione dei passaggi nodali, e di problematiche ignorate (e già segnalate sopra). È come trovarsi di fronte ad un pendio di intenzioni latenti, che è possibile stanare, al momento, a suon di interrogativi. Per quanto riguarda le sovrapposizioni partiamo dal par. precedente, laddove si nota che la PDL sposa il principio per cui sono i genitori a stabilire l’agenda per gli insegnanti. Un principio chiama l’altro: l’obiettivo della scelta si traduce nell’affermazione del primato dell’educazione sull’istruzione, visto che la scuola può (dovrebbe) controllare e incrementare e quindi garantire le competenze culturali degli insegnanti, ma non certo quelle dei genitori. E ancora: il primato dell’educazione sull’istruzione comporta un inevitabile abbassamento dei livelli d’istruzione, e la cosa può soddisfare parte dei genitori ma può risultare insopportabile per altri, che magari sono prossimi a risultare maggioranza. Che senso ha, allora, questo primato dell’educazione assicurato per legge dai “consigli di indirizzo” di tutte le scuole attraverso il declassamento e la subordinazione della professionalità docente?
Vediamo lo stesso problema spostando l’attenzione dai genitori agli insegnanti. L’art. 1 (comma 6) è chiarissimo: nell’attuazione dell’offerta formativa dovranno essere valorizzati la funzione educativa degli insegnanti …. Se si tiene a mente che la PDL introduce nella carriera dei docenti (v. ancora par. precedente) valutazioni sia individuali sia di istituto e meccanismi meritocratici come l’attribuzione di qualifiche, si è obbligati a temere che sarà sempre premiato il docente “maestro di vita” e non il professionista della comunicazione culturale e della promozione degli apprendimenti. E ancora: se si è in grado di controllare il fervore ideologico e impositivo ci si rivolge agli esperti, solitamente convinti che è difficile pensare ad una trasmissione di valori che prescinda da qualche forma di istruzione; d’altra parte comunicare conoscenze vuol dire educare. C’è bisogno di ricordare il sapere intrinseco che questo principio storicamente sottende, e il ruolo di crescita e di sviluppo in tutte le direzioni che svolge nelle democrazie consolidate? Fermiamoci all’interrogativo.
L’approdo alla politica assoluta
Per quanto riguarda la mimetizzazione dei passaggi nodali il punto principale di riferimento è ovviamente il primo comma dell’art. 13, di cui già si è rilevata nel precedente par. l’enorme sproporzione tra il detto e il non-detto, tra la scarsissima consistenza del ruolo attuale delle reti e quello, previsto dalla PDL, di sostituto dello Stato. Qui è possibile aggiungere, a proposito di quel comma, che si tratta di una straordinaria finezza giuridica, di una conferma della straordinarietà del potere che la politica può raggiungere in materia di istruzione, e di una qualche possibilità, per quanto concerne il rapporto tra legislatore e cittadino, che qualcuno parli di un atto di reciproca sfiducia. Non sono nemmeno da escludere riserve circa il rapporto tra la proposta di legge sulla scuola di cui stiamo parlando e il primato della funzione educativa in ambito scolastico. Il tema della mimetizzazione può anche comprendere dubbi sulle pur solidissime prerogative genitoriali in materia di azione educativa. Il primo comma dell’art.13 impone alle scuole di schierarsi in reti, e le reti non potranno sostenere il primato dell’educazione se non con una accentuazione del proprio tasso distintivo di tendenza, che ovviamente imporranno alle scuole afferenti, riducendo i “Consigli di indirizzo” al ruolo di gruppi di guardianato. L’autonomia dallo Stato, magari democratico, sarà totale, quella dalla rete ideologizzata magari no. E così, passando dalla politica scolastica a quella autoreferenziale e a quella sovrana, eccoci giunti alla politica assoluta secondo la definizione che ne dà un classico internazionale delle scienze sociali, Le radici della politica assoluta (di Alessandro Pizzorno, Feltrinelli 1994): non è un sistema politico ma un modo di concepire, e… manovrare, gli strumenti considerati capaci di realizzare una desiderata forma della società; è una momentanea, o ciclica, patologia nel campo della devianza ideologica, un meccanismo continuamente all’opera nelle nostre istituzioni.