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I mercati sono intelligenti?

 

Il mercato condizionato

I mercati sono intelligenti?

 

La borsa all’epoca del coronavirus

 

Maria Turchetto

 

Il 24 marzo 1999 la NATO iniziò a bombardare la Serbia. Il TG ne diede la notizia aggiungendone subito dopo un’altra: “la borsa vola!”. Lo ricordo bene, perché quella fu la prima volta che provai un fortissimo fastidio per l’informazione sugli andamenti di borsa. Un fastidio che è durato nel tempo e che ogni tanto si acuisce. Ora, per esempio, in questi giorni di emergenza virus, perché subito dopo il quotidiano bollettino sulla pandemia – morti, contagiati, guariti – i notiziari ci informano sugli indici borsistici.

Lo ammetto, qualche collegamento c’è, anche se banale. È chiaro, con la chiusura dei bar il titolo Campari è sceso, mentre il comparto biomedicale è salito come conseguenza dell’aumentata domanda. Ma non occorre guardare l’andamento borsistico per capire come vanno queste cose, basta ragionare. La borsa anzi è un indice che può dare un’immagine distorta dell’andamento dell’“economia reale”, perché registra le speculazioni in corso più che la salute delle imprese: un po’ come le quotazioni dei cavalli non registrano la salute dei cavalli, ma l’andamento delle scommesse.

In ogni caso, non è questo che mi procura fastidio. È piuttosto il fatto che l’andamento borsistico, di cui ci danno notizia subito dopo i principali fatti del giorno, assume lo statuto di una sorta di “giudizio” su quanto avviene: un giudizio formulato da un’entità sovrumana più razionale, da un’intelligenza superiore: l’intelligenza dei mercati.

Per tornare al 24 marzo 1999, l’accoppiata “la NATO bombarda Belgrado”/“la borsa vola” non era una giustapposizione casuale di notizie, suggeriva un giudizio: “la NATO bombarda Belgrado/ ben fatto, visto che la borsa vola”. Un altro esempio, nient’affatto di fantasia: “i sondaggi indicano la vittoria della BREXIT”/“la borsa scende”. Suggerisce: “la borsa non vuole la BREXIT/Inglesi, votate contro”. Insomma, si usano i listini di borsa non solo per influenzare l’opinione pubblica, ma anche per orientare il voto. Per forza mi dà fastidio.

 

Ma non ho cominciato con i bombardamenti del 1999 per rinfocolare vecchie polemiche sulle guerre “giuste” e “ingiuste”. È che prima degli anni ’90 dei listini di borsa non si parlava proprio, se non sulla pagina economica (sì, allora era solo una pagina o poco più) dei maggiori quotidiani. Non c’era ancora l’“azionariato di massa”, ben pochi investivano in borsa prima della grande campagna che ha convinto i piccoli risparmiatori a comprare azioni e obbligazioni anziché i buoni, vecchi – ma ormai poco redditizi – titoli di Stato. Ve lo ricordate? I “promotori finanziari” ci inseguivano fin sotto casa… È da allora che comunicare gli andamenti borsistici è diventato un “servizio di pubblica utilità”, come le notizie sul traffico o il bollettino meteo.

L’azionariato di massa poi è finito male, il piccolo risparmio è finito “sotto il materasso”, come si dice. Per qualcuno è finito il risparmio tout court, a causa della crisi economica. Ma l’informazione sull’andamento della borsa è continuata – per inerzia, forse, un po’ come oggi continuano le trasmissioni sportive nonostante la sospensione generalizzata di tutti gli sport. No, non solo per inerzia. Perché, anziché passare al rango di informazione inutile ai più e finire di conseguenza in coda ai notiziari, ha mantenuto lo status di autorevole commento dei fatti, un po’ criptico magari, ma certamente “oggettivo” (non è l’opinione di un individuo) e “razionale”. Una sorta di “oroscopo intelligente”, insomma, capace di prevedere e di orientare. L’intelligenza che oggi si nega alle stelle viene riconosciuta ai mercati.

 

L’astrologia ha radici antiche, è stata praticata da eminenti filosofi ed eruditi prima di essere (giustamente) considerata una pseudoscienza. E questa più recente pseudoscienza degli economisti che credono nell’“intelligenza dei mercati” che radici ha? “La scienza economica comincia con un Adamo di cognome Smith”, ha scritto un importante storico del pensiero economico [1]. Ed è in effetti ad Adam Smith che bisogna rifarsi, o forse ancora prima, alla Favola delle api di Bernard de Mandeville, il cui sottotitolo recita Vizi privati, pubbliche virtù [2]. Nella versione di Smith (un po’ semplificata rispetto a quella di Mandeville, ma è quella che ci interessa) la favola insegna che l’avidità (vizio) dei singoli produce il benessere (virtù) collettivo, in termini di vasta produzione a prezzi contenuti. Detto in termini un po’ più tecnici, la ricerca del profitto da parte dei singoli imprenditori conduce, grazie al gioco del mercato concorrenziale, a mantenere i prezzi al livello dei costi di produzione, vale a dire al livello minimo per non andare in perdita.

Ma si tratta, appunto, di una favola. Di norma, gli imprenditori guadagnano – se il destino è andarci in pari, chi glielo farebbe fare di avviare un’attività di impresa? E il mercato non è concorrenziale – lo è solo per brevissimi periodi e per alcuni prodotti, di norma è dominato da grandi imprese monopolistiche che “fanno” i prezzi [3].

 

L’idea di Smith, in ogni caso, è interessante – una gran bella trovata sul piano epistemologico. Smith pensa infatti il mercato come un meccanismo non finalistico che ottiene un “ordine” (i prezzi coincidenti con i costi di produzione) da comportamenti individuali diversamente finalizzati. Bella trovata davvero, tanto che Charles Darwin l’utilizzò nella sua teoria della selezione naturale. Com’è noto, Darwin leggeva gli economisti dell’epoca. Nelle prime pagine de L’origine delle specie si dichiara esplicitamente debitore nei confronti di Thomas Robert Malthus [4]. Secondo Stephen J. Gould, lo è anche nei confronti di Adam Smith:

 

"Darwin ha trasferito nel campo della biologia il ragionamento, in qualche modo paradossale, che è al centro della dottrina economica di Adam Smith […] per immaginare un meccanismo (la selezione naturale) che possa ammettere la fenomenologia di Paley (il buon progetto degli organismi e l’armonia degli ecosistemi) pur invertendone i fondamenti causali nella forma più radicale" [5].

 

C’è tuttavia una grossa differenza tra Darwin e Smith, perché Darwin si smarca in realtà dal giudizio di valore attribuito al “meccanismo”. Se posso, in questo senso, permettermi di correggere gli aggettivi usati da Gould nel passo citato: per Darwin, gli organismi non hanno un buon progetto – più semplicemente sono funzionali, adatti; e gli ecosistemi non sono armonici – più semplicemente sono in equilibrio entro una natura caratterizzata da “goffaggine, sprechi e orrenda crudeltà” [6]. Certo, in seguito non mancherà chi trasformerà il “più adatto” in “migliore” e il gioco crudele della natura in un “disegno intelligente” finalizzato al progresso. Ma non è a Darwin che può essere imputata questa deriva assiologica. Smith invece sì, associa al “meccanismo” un giudizio di valore positivo, e ancora più di lui lo faranno i teorici dell’equilibrio economico. Per sostenere una politica ben precisa, il liberismo, il laisser faire – “lasciar fare” al mercato, meccanismo intrinsecamente virtuoso che trasforma i vizi privati in pubbliche virtù. Una favola. Un’idea “metafisica”, come scrisse Keynes:

 

"Liberiamoci dai principi metafisici sui quali, di tempo in tempo, si è basato il laissez-faire […]. Non è una deduzione corretta che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico; più spesso individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli persino per raggiungere questi" [7].

 

Mi permetto di correggere perfino Keynes – ormai ho preso coraggio. Di illuminati, nei mercati finanziari, non ce ne sono proprio. Ci sono deboli e ignoranti, questo sì, e poi ci sono dei furboni – “intelligenti” a titolo personale, che non trasmettono certo questa virtù al magico “meccanismo” ma anzi lo manovrano – perché hanno più informazioni degli altri, perché hanno più soldi degli altri, perché hanno meno scrupoli di chiunque.

 

Ma ecco, per concludere, la mia richiesta – la mia indicazione pratica. Non voglio più sentire gli indici di borsa subito dopo le notizie principali, come si trattasse del loro commento più autorevole, oggettivo e “intelligente”. Voglio sentire il blocco delle notizie principali (la pandemia, la guerra, le elezioni) seguito da un po’ di cronaca (hanno ammazzato una donna nel tal posto, arrestato un mafioso nel talaltro) e relativi commenti; poi qualche notizia di costume, un po’ di cultura, cinema e spettacoli; a seguire la pagina sportiva, poi le notizie sul traffico, il meteo e in fondo – in fondo! – l’andamento della borsa. Se poi quest’ultima la levano, anche meglio.

 

Note

 

[1] William J. Barber, Storia del pensiero economico, Feltrinelli 1992, p. 13.

[2] Il poemetto satirico di Bernard de Mandeville, composto nel 1705, ebbe grande successo e numerose edizioni ampliate successive fino a diventare, nel 1728, un’opera in due tomi.

[3] Nel gergo economico si definiscono price taker gli agenti che non hanno la possibilità di influire sul prezzo e si limitano dunque a “prenderlo” (a prenderne atto): ciò che avviene teoricamente per coloro che operano in un mercato concorrenziale puro; in un mercato monopolistico, invece, operano dei price maker, in grado di “fare” il prezzo.

[4] Cfr. Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale, Newton Compton, 1989, p. 43.

[5] Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice 2003, p. 80.

[6] Il riferimento è ovviamente alla notissima frase di Darwin nella lettera a Hooker del 13 luglio 1856: “Che libro potrebbe mai scrivere un cappellano del Diavolo sulle goffaggini, gli sprechi, l'orrenda crudeltà della natura?”.

[7]  John Maynard Keynes, La fine del “laissez-faire”, Edizioni Sì 2018, p. 54.