Ripensare per rivivere un viaggio in India
Silvia Caravita
Mi sono detta: questa è la volta buona! Gli arresti domiciliari per colpa del Coronavirus fanno riaffiorare la gioia che accompagna la libertà di muoversi, di immaginarsi in luoghi diversi. Che succede quando si “riguardano” i ricordi di un viaggio avendone prese le distanze? Raccontarlo ad altri ma anche solo a se stessi è forse il modo migliore. Gli appunti del taccuino faranno rivivere sensazioni, accenderanno immagini più ancora o in modo diverso dalle foto, che sono sempre un po' deludenti quando le riguardi perché sono ferme e piatte non solo rispetto al vissuto ma anche a quelle nella mente.
Scopro che le registrazioni di suoni sono i documenti più vivi: ti fanno sentire lo spazio, la concretezza di un ambiente e potentemente rievocano atmosfere e stati d’animo. Per esempio, riascolto le canzoni diffuse dagli altoparlanti dentro i bus che si mischiano alle voci e al traffico, il canto dentro un tempio accompagnato dal suono di flauto e percussioni che ha in sottofondo il via vai delle persone, il canto accompagnato da uno strumento a corda di un uomo seduto fuori da un tempio sorprendentemente simile in una sua parte ad uno stornello ciociaro!!
L’itinerario percorso durante circa un mese l’ho tante volte mentalmente ricostruito quando il sonno tarda a venire o si interrompe. Non è questo che mi interessa ora, quanto mettere a fuoco quello che mi è rimasto dentro di quella esperienza, dall’incontro con paesaggi, luoghi, persone, cibi per me nuovi, vorrei capire quali categorie della mia conoscenza si sono modificate. Se chiudo gli occhi prorompono le smaglianti gradazioni di colore dei sari delle donne, delle merci nei mercati e subito dopo il chiasso del movimento continuo di persone, motociclette e tuk tuk nelle strade di città piccole o grandi. Tutti i mezzi, anche le biciclette, corrono senza rallentare, solo suonando trombe (quelle dei pullman possono anche somigliare a sirene navali), scansandosi al millimetro di fronte ad altri mezzi, a pedoni o a mucche che placidamente non si turbano affatto. Non come i brutti e malconci cani-dingo che si destreggiano invece per sfuggire a una più dura sorte! Perfino le frecce di alcuni veicoli emettono suoni: cinguettano quando escono!!
E però tutti sono pronti a sorriderti se incontrano i tuoi occhi di straniera.
Insieme a questo frastuono emerge nella mente la popolazione multiforme degli esseri divini che affollano i vasti templi induisti: colorati sulle balze dei Gopuram che sovrastano le entrate, disegnati dalla luce negli altorilievi sulla pietra delle colonne quadrate dei diversi portici, scurite dal fumo e unte dalle colate di burro offerto nei sacelli che sono il cuore del tempio. Qui accolgono le persone con una immobilità senza tempo, una folla divina carica di storie e di simboli che continuano a significare e a interrogare.
Mi rendo conto che in un racconto qualche riferimento concreto ai luoghi è necessario darlo. L’arrivo e la partenza del viaggio fatto con una cara amica sono stati in grandi città che in fretta abbiamo abbandonate: Madras all’andata e Mumbai al ritorno. Madras ci resterà in mente come un’esplosione di allegria, perché siamo capitate nell’ultimo giorno della festa delle luci, il Divali. Di mattina il primo tempio visitato è una festa di colori e alla sera fuochi d’artificio si accendono ovunque, nel cielo, sulla spiaggia, nelle strade dove scoppiano mortaretti a tutto spiano …che bisogna anche stare attenti a dove si mettono i piedi!!
Di Mumbai resta una idea approssimativa data la breve permanenza; una enorme metropoli sorta in epoca coloniale e in continua espansione, dove le tante contraddizioni tra tradizione e globalizzazione diventano più che mai evidenti e toccanti. Arrivando in tarda serata, lungo il percorso che dall’aereoporto ci porta all’albergo nel quartiere i Colaba quello più frequentato dai turisti, ci scorrono davanti ai finestrini del taxi distese di baracche di lamiera e qualsiasi altro materiale di scarto, in mezzo alle quali si ergono inaspettatamente delle specie di condomini-torre in cemento che vanno aumentando man mano che ci si avvicina alla città. C’è grande movimento di gente nonostante sia notte, perché le baracche hanno una parte sul piano stradale destinata ai commerci e una parte sopra, che non si sa come si sostenga, dove si intravedono i segni di una vita domestica. Attraversiamo un corso d’acqua maleodorante. Vediamo a terra sul marciapiede di una piazzetta sagome di corpi avvolti in teli. Poi la città va diventando sempre più “normale” e monumentale.
Di giorno, la zona centrale, di Colaba appunto, ci attrarrà col fascino di palazzi e viali di stile vittoriano rivisitato in chiave orientale e con il Bazar più labirintico e fantasmagorico che mai, specialmente nella parte dove si vendono tessuti e vestiti da fiaba.
Nell’interessante museo Shivaji mi incanta la raffinatezza delle miniature dipinte su carta o su tessuto, un’arte arrivata con le culture asiatiche; alcune accompagnano il testo di poesie o del Mahabharata, altre delicatissime e gioiose sono evocazioni poetiche di Krishna, sotto le vesti del pastore che danza o suona con il flauto canzoni d’amore “… ma per impartire conoscenza. Sembra dire che vivere è amare e amare è conoscere”, come è scritto su un pannello. Ci sono anche dipinti grandi che erano usati da un gruppo nomade di cantastorie. E’ stato interessante avere la possibilità di fare confronti tra stili di epoche e di regioni diverse.
Il museo contiene anche un Children’s museum e nel grande giardino una originale struttura in legno per i libri e comodi angoli dove isolarsi nella lettura: “Enter the book worm” è l’invito scritto sul portale.
Al tramonto, costeggeremo a piedi la baia lungo la quale si distende Mumbai e ci accorgeremo con stupore che la linea dei grattacieli che si trovano all’estremità opposta dell’arco della baia emerge come un paese fantasma attraverso la spessa caligine dell’aria impregnata di inquinamento.
Le regioni che abbiamo visitato, Tamil Nadu, Kerala e Karnathaka, sono Stati Federali dell’India del Sud, la parte del continente che per prima è stata raggiunta dai viaggiatori e mercanti Europei che ne hanno fortemente influenzato la storia. Oltre che in diversi piccoli centri, ci siamo fermate in città più grandi che conservano l’impronta coloniale nei grandi viali, piazze, stazioni ferroviarie, palazzi pubblici, ma che a parte un traffico con più automobili e più rare mucche vaganti riproducono comunque il modello di città come mercato e come centro dei commerci.
Siamo rimaste tre giorni in uno dei grandi Parchi Nazionali che coprono una area molto vasta alla congiunzione dei tre Stati del Sud, dove si trova la catena dei monti Nilgiri. Dal Jungle lodge di Bandipur una jeep con guardie forestali ci ha portato a fare lunghe escursioni nella foresta, su e giù per le colline in ore diverse della giornata, “in safari” come diceva il pieghevole che avevamo letto. Questo termine evoca fantasie di luoghi un po' terrifici, che non corrispondono esattamente a quanto da noi vissuto, seppure reso molto emozionante dall’aspettativa di avvistare la tigre, cercata scrutando con i binocoli in ogni direzione con grande tensione. E le tigri c’erano davvero, non era una storiella per turisti e infatti non era consentito camminare a piedi. Più volte abbiamo visto le sue impronte nel fango e qualche unghiata sulla corteccia di alberi… purtroppo tutto qui! Ma abbiamo avvistato e incontrato tanti altri animali e goduto di panorami in certe ore brumosi, con il fascino dei dipinti giapponesi su carta di riso.
La scelta dei luoghi da visitare è stato il risultato di una lunga e condivisa consultazione di guide turistiche, libri, mappe, e alla fine un compromesso tra i nostri interessi, curiosità e tempo a disposizione. Era stata preceduta anche dalla lettura di resoconti di antichi viaggiatori come Vasco de Gama che approda a Goa nel 1498 o il veneziano Nicolò Mannucci che povero ragazzetto di 18 anni si imbarca a Venezia, arriva nel 1656 a Kochin su un veliero inglese e farà la sua fortuna al servizio dei raja, prima come artigliere e poi come medico di corte, restando in India tutta la vita. Anche le immagini che la lettura aveva evocato hanno fatto da lente nel mio sguardo su questo paese, quasi lo avessi rivissuto a distanza di secoli!
Dopo il viaggio, il libro “Ardore” di Roberto Calasso mi ha aperto un mondo di conoscenza sulla iconografia di cui volevo afferrare almeno qualcosa, soprattutto sui fondamenti millenari della religione induista che sono nella tradizione prima orale e poi scritta dei Veda. Veda in sanscrito significa anche sapienza.
Le informazioni che avevamo ricavato dalle guide ci avevano tranquillizzato sul fatto che fosse abbastanza facile spostarsi con mezzi pubblici tra le varie città e così è stato sia che fossero pullman che treni … non volendo preoccuparci né della velocità nè della comodità.
Nel Tamil Nadu siamo andate alla ricerca dei templi costruiti durante regni di dinastie di religione hindu che in epoche diverse hanno imposto il loro potere, fondato città e manifestato nell’architettura e scultura lo splendore raggiunto. I Pallava hanno dominato nella parte nord tra il VI e VIII sec.; a loro sono succeduti i Chola (X-XIII sec.), i Vijayanagar nell’area più centrale nel XIV sec. sostituiti poi dai Nayak dal XVI al XVIII sec.
Nel Kerala ci siamo dirette principalmente nella zona dei laghi formati di tanti corsi d’acqua compresi tra la costa e i rilievi montuosi dei Ghat occidentali (le “backwaters”) e nella città portuale di Kochin, una delle più antiche sedi di traffici commerciali con i paesi Arabi da tempi antichissimi e poi con l’Occidente, dove vecchie ville coloniali sono ora un richiamo per i turisti.
Nel Karnathaka oltre all’attrazione per il paesaggio e i Parchi ci ha richiamato la città di Mysore, capitale del regno degli Hoysala tra il XII-XIII sec. e in seguito di varie dinastie, di cui l’ultima ha lasciato la favolosa residenza Amba Vilas del maharaja, costruita da un inglese agli inizi del’900 dopo che quella in legno più antica era stata distrutta da un incendio. Ogni fine settimana più di 100.000 lampadine accese profilano i contorni architettonici in tutti i loro dettagli producendo una immagine favolosa.
Tuttavia ci apparirà molto più incantevole nella vicina Srirangapatna il palazzo estivo in legno del sultano Tipu. Costruito nel 1784 ha un ampio porticato affacciato sul parco con le pareti interne ricoperte da pitture di gusto persiano, sia come decorazioni floreali sia come scene che fanno rivivere battaglie, parate militari, ritratti dei raja alleati, vita di corte e di città con personaggi notabili nella religione, nelle arti, nelle lettere. Questo palazzo dopo l’uccisione di Tipu passò al duca di Wellington allora ufficiale nelle truppe coloniali, che ne curò il restauro.
Nel Kerala abbiamo avuto l’opportunità di assistere ad un assaggio della forma di teatro chiamata Katachali agito solo da uomini. Con maschere, trucco e costumi molto colorati ed elaborati i personaggi si muovono seguendo una mimica facciale e corporea fissata dalla tradizione mentre un cantore accompagnato da strumenti musicali “racconta” la storia. Sono storie tratte dai libri delle Upanisad nelle quale il bene e il male sono intrecciati “ma la mente guarda al bene”, ci hanno spiegato. Queste rappresentazioni nella realtà di feste e celebrazioni possono durare una intera notte e sono ancora molto popolari.
Le vicende storiche e religiose nel Sud e nel Nord del continente Indiano hanno seguito percorsi diversi per molteplici fattori. Tuttora le popolazioni delle varie regioni conservano caratteristiche etniche e culturali proprie e vere lingue diverse. Fino dai primi millenni, quando nella valle dell’Indo per la prima volta nella storia sono state costruite città, popolazioni ripetutamente entrate da Nord hanno avuto un ruolo molto importante nella costituzione di regni, a volte di imperi che però non sono mai riusciti ad unificare tutto il continente. La religione Induista si è incontrata prima con il buddismo proveniente dal Nepal e poi con la religione islamica arrivata con la dinastia iraniana dei Moghul.
Il Sud è rimasto meno coinvolto da questi sviluppi storici, ai quali opponevano resistenza l’uno o l’altro dei diversi regni nati per il prevalere di tribu e dinastie. L’ultima strenua difesa della autonomia e della libertà è stata quella contro il potere della Compagnia delle Indie a cui è seguita la colonizzazione britannica. A Mysore il museo dedicato a Gandhi e alla sua lotta pacifica racconta anche la vita di protagonisti della resistenza precedente che non aveva mai smesso di impegnare queste popolazioni con scontri violenti, episodi di brutalità e di eroismo.
Le impressioni di viaggio che mi porto dentro
Where are you from? What’s your name? Where is your husband? How many children do you have? Can I take a photo?
Quante volte abbiamo risposto a queste domande! C’erano a guardarci occhi e sorrisi luminosi, visi curiosi ma accoglienti, desiderosi soprattutto di interagire, gruppetti di amici, famiglie, scolari di classi molto spesso presenti nei luoghi meta di turismo. Il loro spontaneo garbo era così disarmante che superava l’invadenza e il nostro tentativo di sottrarci. Purtroppo la condizione di turiste falsa i rapporti con le persone e non si riesce a scambiare molto, sebbene l’inglese sia la lingua nazionale e sia parlato quasi da tutti. Ma ci vuole tempo per abituarsi reciprocamente al suono di pronunce assimilate alle intonazioni della propria lingua!
Più oppressive nelle grandi città le offerte di venditori e di chi guida i tuk-tuk. D’altra parte rassicurante la sollecitudine con la quale ogni richiesta di aiuto per la soluzione di qualche problema viene accolta.
L’eleganza e la grazia delle donne abbigliate con i corsetti molto stretti coperti dai sari svolazzanti che avvolgono la figura, con fiori nei capelli (penduli festoni di tuberose) non sembra perdersi con l’età. Ma molte sono le fogge degli abiti che si incontrano specialmente nella folla dei mercati secondo l’appartenenza religiosa o etnica. Compreso il burka, ma le donne vanno anche in moto con quello e quando le incontriamo a un tavolo del bar nel parco vediamo che se lo alzano tranquillamente per godersi meglio il ristoro e il fresco.
Nel flusso del traffico distinguiamo moto guidate da donne, molte le vediamo sedute nel sellino posteriore con le gambe di lato e ci chiediamo come riescano a mantenere l’equilibrio perché non si reggono e se piove tengono anche l’ombrello aperto a riparare chi guida o portano un bambino o vari fagotti. Abbiamo poi scoperto che i sedili delle moto sono modificati per permettere al passeggero di sedere di fianco.
Ci colpisce la diversità dei tipi fisici certamente frutto di una secolare mescolanza tra genti: corpi alti e longilinei, strutture corporee massicce e tratti marcati, visi con nasi imponenti o profili delicati, persone mini ma tutte proporzionate. Notiamo vecchi, uomini o donne, di una magrezza scheletrica, magari ancora intenti a svolgere una attività faticosa come pedalare un vecchio riksciò o trasportare carichi.
Appaiono molto formali nel loro kurta scuro ben stirato gli uomini che svolgono una qualche funzione in un servizio pubblico
Le molte persone con disabilità fisiche non sempre sono dei mendicanti, li abbiamo visti anche con accompagnatori e autonomi con ausili di qualche tipo. Nelle stazioni abbiamo notato vagoni di treno con la scritta for differently able.
Su un pullman straripante di persone la mia amica prende un bambino dalle braccia di una giovane mamma che a malapena riesce a reggersi in piedi, senza che nessuno mostri la volontà di cedere il posto e in effetti questa è una cosa che non abbiamo visto fare. Noi sedute nell’ultima fila, strette come sardine siamo oggetto di tanti sguardi: il bimbo ci osserva serio e indagatore, resiste un poco distratto dalle moine e poi scoppia a piangere! Ha una fila di sonaglini argentati alla caviglia che suonano col suo pianto. Tutti, in genere, sembrano molto pazienti con i bambini.
Soprattutto nelle città più piccole ovunque artigiani lavorano aggiustando e fabbricando cose, confezionando vestiti, riutilizzando materiali di ogni tipo; nelle strade si susseguono negozietti con ogni genere di merce, oggetti accatastati dove sembra impossibile trovare ciò che si cerca, ma dove si può trovare di tutto fino agli oggetti più tecnologici. In ogni ora del giorno si frigge in grandi padelle, si cucinano cibi i cui odori speziati riempono l’aria e stuzzicano l’appetito, salvo a scoprire che sono sempre piccantissimi. Nei mercati c’è un conflitto perenne tra puzze e profumi. Tutti sono indaffarati ma con la lentezza necessaria. Il contrasto tra il modo di guidare un qualsiasi veicolo strombettando e i modi delle persone di fare le cose lenti e rilassati, fino a innervosire a volte noi occidentali, lascia perplessi.
Questa scena ci ha fatto sorridere: nel parco intorno al palazzo dell’antico raja a Madurai si stanno facendo dei lavori; alcuni uomini accanto a un cumulo di sabbia riempiono dei grandi vassoi sorretti da donne in fila che poi se li mettono sulla testa, li trasportano a distanza di pochi passi e lì altri uomini li svuotano per colmare un dislivello!
Nei coloratissimi mercati i venditori possono anche essere insistenti con noi ma sono anche pronti a rispondere alle nostre curiosità sui prodotti, a far assaggiare frutti e a salutarci con: “Milano... Gianna Nannini …Ho amico a Torino!”
Abbiamo sempre riconosciuto le scuole perché sono ai margini dei centri urbani anche nei piccoli villaggi, dentro aree verdi alberate e recintate, molto ben curate. Per lo meno quelle dei primi livelli d’istruzione sono composte da tanti piccoli edifici e le aule con una veranda si affacciano sul parco. Gli alunni portano una semplice divisa e gruppi classe con i loro insegnanti si incontrano spesso in giro nei luoghi di interesse culturale, vocianti e saltellanti come da per tutto. A Mumbai, sulla facciata di una scuola Elementare leggeremo questa iscrizione: ”Il dono migliore che possiamo offrire ai nostri bambini sono radici e ali”.
L’immagine complessiva è quella di una popolazione vivace, chiassosa, che ama mangiare e chiacchierare, che ride volentieri, che a volte reagisce con veemenza alle azioni di altri, che sopporta con pazienza i fastidi quotidiani … un po' napoletana insomma! E’ una immagine che contraddice un po' l’idea di persone molto composte che avevo in mente. Mi chiedo ora con tristezza se queste loro caratteristiche li aiuteranno a sopportare il disastro prodotto dalla pandemia.
I templi induisti luoghi della pausa, dell’incontro
Attraverso le imponenti porte del tempio – ce ne sono quattro, una per ogni lato dell’area sacra – e il mio sguardo si apre su uno spazio vasto nel quale sono diverse costruzioni in pietra. Le entrate sono visibili da lontano perché sormontate da alti Gopuram, strutture piramidali a più gradini con una quantità incredibile di figure mitologiche intente a varie imprese, da cui mi sento guardata. L’effetto è imponente, sorprendente! Molte volte, ma non nei templi più antichi, tutte queste figure sono abbastanza grandi e colorate cosa che disturba un po' il senso estetico, almeno il mio. All’interno del recinto sacro domina invece sempre l’austero colore della pietra, liscia o scolpita, nelle foreste di colonne, nei soffitti con nicchie e volte. E’ il grigio del granito o il colore più chiaro di una pietra simile ad una arenaria, interrotto sui pavimenti dal disegno colorato di qualche grande mandala. E i sari delle donne si accendono come fiori! Avevo la sensazione di avere attraversato una soglia del tempo.
La pianta della costruzione principale non è facile da decifrare perché si passa attraverso porticati rettangolari che racchiudono altri porticati e corridoi via via più interni, fino ad arrivare all’ambiente centrale, in genere limitato e scuro, che è il cuore del tempio dove sono le statue delle divinità oggetto della venerazione e delle offerte. Due grandi statue di guardiani sono ai lati dell’accesso, in posizione quasi danzante che fissano con espressione terrifica e con il palmo della mano destra aperto verso chi guarda. E’ proibito fare foto ma i turisti possono entrare.
L’officiante (è un brahmino?) prende dalle mani l’offerta (collane di fiori, una particolare erba profumata, noci di cocco, soldi), entra nel sacello recitando parole rituali e la depone ai piedi dell’immagine divina; poi prende una lanterna con la fiamma e la passa sulla testa degli offerenti e segna la loro fronte con polvere rossa. I fedeli non si fermano a lungo; esprimono la loro devozione anche davanti a vari altri tempietti minori che incontrano lungo un percorso quasi labirintico che alterna spazi aperti e luminosi a luoghi più oscuri, come interni ad un bosco.
La maggior parte dei templi visitati era dedicata a Shiva, qualcuno a Visnu ma comunque entrambe queste divinità sono sempre presenti, come anche le loro spose, Krishna, Durga, … tutti Deva manifestazioni diverse di una unica entità, il Brahma, mai rappresentato. Ognuno simboleggia aspetti diversi della multiforme e ambigua realtà fisica e umana, dei processi di continuo mutamento e trasformazione sotto l’impeto di forze opposte, che muovono il cosmo attraverso crisi ed equilibri. Nelle bellissime, eleganti raffigurazioni in bronzo o in pietra ammirate nei musei abbiamo trovato condensati in una immagine significati densi, profondi, astratti di una visione del mondo nata millenni fa e che probabilmente è in gran parte perduta nella consapevolezza comune. Nella ritualità dei gesti e atteggiamenti delle persone nei templi abbiamo riconosciuto quelli che accomunano la devozione verso i simulacri del divino in tutte le religioni e che parlano soprattutto di consapevolezza della fragilità umana.
Nelle aree esterne agli edifici sacri possono esserci ancora grandi bacini d’acqua con gradini per raggiungerla e piccole pagode per rituali di purificazione che forse avvengono in occasioni particolari o che sono solo i brahmini a poter praticare. Dall’alto di piedistalli il sacro toro Nandi, il veicolo di Shiva, accucciato guarda pacioso. Con il salmodiare di voci lontane contribuisce a creare un’atmosfera un po' sospesa che dilata la distanza con la realtà esterna, un senso di una quiete in cui anche noi ci siamo lasciate sprofondare. Questi spazi sacri si popolano verso il tramonto; le persone, da sole o in compagnia arrivano per il culto, poi si fermano trovando ristoro nella frescura della sera, si riposano, chiacchierano, mangiano qualcosa. Sono luoghi che somigliano alla nostra piazza ma senza rumori e concitazione.
La grandiosità di questi templi affascina. Il modello di base non sembra essere mutato molto in epoche diverse, almeno al nostro sguardo profano. Alcune differenze di stile architettonico si impara un poco a riconoscerle, ma certamente non quelle che riguardano la simbologia delle rappresentazioni così complicate.
Ho molto ammirato il tempio di Keshava a Somnathpur, nelle vicinanze di Mysore, non più luogo di culto, dove file di ragazzi di età diverse in attesa della visita con la scuola ci hanno circondato festosamente. Un tempio più piccolo di altri visitati, molto elegante nelle forme a pianta ottagonale, costruito con una pietra color avorio nel 1200 durante il regno degli Hoysala, con l’esterno ricoperto da altorilievi. Questi, disposti dentro fasce parallele un poco distanziate, alternano episodi della mitologia, scene di vita quotidiana, il mondo degli dei e quello degli uomini, e motivi decorativi. catturando l’occhio nella decifrazione di tutte quelle narrazioni infinite, ma con un effetto complessivo di leggiadria. Nicchie contenenti altre raffigurazioni interrompono le fasce dove i profili architettonici diventano più articolati.
Fuori dal tempio, qualche casa del villaggio, distese di risaie di un verde smagliante, alberi con enormi ombrelli di fogliame sotto cui aspettare pazientemente il bus di cui non sappiamo l’orario.
Altro ricordo unico i tempietti-grotta di Mammalpuram, lungo la costa orientale a sud di Madras! Intagliati in rupi enormi di granito di cui non riesci a spiegarti l’origine geologica perché disseminate, alcune quasi in bilico, sui pendii di basse colline a poca distanza dalla spiaggia. Ad ogni svolta di sentiero o di cortine di alberi, in un paesaggio cosi strano, è emozionante scoprire peristili di celle sacre, figure di leoni fantastici su colonne quadrate, di elefanti, Vishnu dormienti protetti da Naga, intere pareti con le storie sulla penitenza di Arjuna. E’ quasi commovente immaginare gli scalpellini del VII sec. che lavorarono qui con abilità, grande pazienza e dedizione vincendo l’immensità del tempo.
La natura
Paesaggi diversi sono rimasti nella mente: il Tamil Nadu – la rice bowl dell’india –pianeggiante con il verde smagliante delle risaie, i campi di cotone, i campi delle canne da zucchero con i loro pennacchi leggeri che alla luce radente della sera si tingono di rosa e ondeggiano lucenti; i larghi fiumi e meandri d’acqua del Kerala, contornati da piantagioni di palme, con tappeti di giacinti d’acqua, voli di aironi, garzette, libellule; e poi i panorami montuosi del Karnathaka.
Per spostarci dalla costa occidentale e raggiungere Mysore abbiamo preso il bus in un pomeriggio di una giornata purtroppo piovosa. La strada presto ha cominciato a salire su pendici ripide coperte da piantagioni di caffè e di palme, poi coperte da foreste quando i rilievi sono diventati vere montagne, fino a raggiungere un passo attorno ai 1500 m dove avremmo potuto avere a disposizione l’intero l’orizzonte! Però la pioggia che cadeva da un cielo nerissimo e la nebbia ci hanno nascosto tutto.
I giorni trascorsi nel Parco Nazionale di Bandipur hanno lasciato il desiderio di vivere presto altre esperienze così. Non era per me la prima e anzi quelle vissute nelle giungle della Malesia e in Cambogia erano state ancora più stupefacenti, perché mi ero sentita assolutamente sopraffatta da quelle cattedrali di alberi e da un mondo vegetale intricato e ignoto nel quale avverti le tante presenze invisibili. Però a Bandipur dove la foresta era meno “esotica” ho provato l’emozione dell’incontro con tanti animali, alcuni avvistati per attimi, altri guardati con più agio in radure o tra grandi alberi di Teak dalle foglie larghe, alberi di Rosewood – utilizzato per fare gli intarsi , alberi con la crocodile bark – usata come medicinale per dolori di stomaco, mini-boschi di Lantana, che qui è di casa ed è invadente. In ore diverse della giornata abbiamo visto elefanti, scimmie (i Macachi e i Langur), cervi pomellati, la Mangusta rossa, la Mangusta grigia, l’Orso labiato, il Gaur (una specie di bufalo color tabacco dorato), piccoli varani come la Monitor Lizard e tanti uccelli. Tra i Rapaci, oltre al gufo ci hanno indicato i nomi di Serpent Eagle, Black Eagle, Spotty Eagle, Hawk Eagle che ha un ciuffetto di penne sulla testa. E poi i pavoni, il Martin pescatore, il Cuculo, i parrochetti, i Bee Eaters, uccellini verdi in gruppo che migrano nel Sud dell’India per svernare. Enormi reti di ragno con i loro costruttori in bella mostra ci hanno raggelato anche dopo la rassicurante informazione della guida sulla inesistenza di ragni velenosi in India.
Quando con la jeep ci siamo mossi all’alba e siamo arrivati a circa 1200 m di altezza, abbiamo volato con lo sguardo su panorami evanescenti nella nebbiolina che si andava sciogliendo al sole e ci siamo lasciate catturare dall’illusione di un mondo incontaminato.
Un ultimo appunto
Ecco, ora che ho raccontato non voglio ricordare il racconto dei miei ricordi, voglio che tornino alla libertà, disordinati o meglio in un ordine che non conosco, da dove impevedibilmente sorgono immagini vivide di “dettagli” che sembrerebbero irrilevanti, si accendono associazioni che emozionano perché legate alla mia storia un po' come avviene nel sogno quando l’Io abbandona il suo ruolo di auriga!