Amore, dammi quel fazzolettino...
Luciano Luciani
Da almeno mezzo millennio, soffiarsi il naso o asciugarsi gli occhi sarebbero potute risultare operazioni non del tutto sane, senza l’utilizzo di quel piccolo ausilio igienico rappresentato dal fazzoletto, un tempo realizzato con diversi tipi di stoffa, oggi irrimediabilmente di carta.
Fu un maestro indiscusso delle belle forme letterarie greche e latine, Erasmo da Rotterdam (1466 – 1536), dotto umanista rinascimentale e per il suo tempo autorevole e rispettato arbiter elegantiarum, a suggerire l’uso del fazzoletto specialmente a tavola, durante i banchetti. Raccomandazione condivisibile, perché, in tali occasioni, mangiando tutti con le mani, prescindendo dalle posate allora ancora non in uso, sembrava al colto umanista olandese sconveniente e di cattivo gusto, nettarsi il naso dal muco in eccesso con le dita e continuare tranquillamente a cibarsi. Un consiglio apprezzabile che però impiegò più di due secoli per affermarsi nel costume e nei comportamenti. Fino ad allora, infatti, si continuò a fare alla maniera di sempre: ovvero, si liberava il naso sul polsino della camicia o sulla manica delle giubba e solo dalla metà del secolo XVIII il “moccichino” o la toscanissima “pezzola” cominciò a divenire una prerogativa almeno delle classi abbienti. Per poi diffondersi più largamente nell’Ottocento romantico: ora per asciugare le lacrime, di lei o di lui, sollecitate dalle irrefrenabili passioni romantiche, ora per raccogliere discretamente gli espettorati striati di sangue degli innumerevoli malati di tisi. Una malattia sociale che la rivoluzione industriale e le ingiustizie sociali avevano seminato in tutta Europa. Oppure per essere agitati, i fazzoletti, tra la festa e la commozione, ben augurali, alla partenza delle navi transoceaniche che portavano milioni di emigranti ai quattro punti cardinali del pianeta alla ricerca di una vita più degna di essere vissuta. Piccole bandiere bianche, non di resa, però, ma segnali di una rinnovata voglia di lottare e non subire, anzi emanciparsi dalle leggi impietose dell’economia.
Novant’anni fa la mutazione, probabilmente definitiva. Nel 1929, infatti, un industriale tedesco della carta, Oskar Rosenfelder, comincia a produrre fazzoletti di carta, più igienici, pratici, economici di quelli di cotone, lino, o addirittura seta, pericolosi serbatoi di germi dopo appena un solo utilizzo. La novità sembra avere un largo successo e se ne producono sin da subito oltre 150 milioni di esemplari. Ma Rosenfelder è ebreo e, a partire dal 1933, anno della ascesa al potere dei nazionalsocialisti, contro di lui inizia una guerra sorda ma senza quartiere: accusato di evasione fiscale viene privato della sua azienda, la “Tempo” e costretto a svenderla. Anche i fazzoletti di carta sono costretti ad adeguarsi alla retorica del regime con la svastica che ne diffonde l’uso ricorrendo a pesanti slogan propagandistici: “L’igiene di un popolo, un pilastro della sua cultura”. Uscito indenne dalle persecuzioni antigiudaiche, nel secondo dopoguerra Rosenfelder e i suoi familiari tentano in ogni modo di rientrare in possesso della loro antica attività. Senza però riuscirvi, mentre il prodotto “usa e getta” conosce invece un’espansione universale. L’uomo delle seconda metà del secolo scorso - i nostri nonni e genitori - apprezza questa piccola, quotidiana novità, multitasking come si usa dire oggi, e sembra proprio non poterne più fare a meno.