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Una vita sghemba

 

 

 

Piero Bianucci

Una vita sghemba

 

Ospite e dilettante di due culture

 

Piero Bianucci

 

Un amico mi chiede di raccontare come, partendo dalla letteratura, sia approdato alla divulgazione scientifica in tanti settori diversi: giornali, libri, radio, televisione, mostre, conferenze, musei, web. Dubito che interessi a qualcuno. Lo faccio perché, arrivato alla mia età, è ora che chiarisca prima di tutto a me stesso una vita così sghemba, che tuttavia mi ha regalato tante esperienze e incontri interessanti. Purtroppo per chi legge, sento la necessità di prenderla alla lontana.

Avrò avuto sette anni. In vacanza a Meana, con zia Celestina scendevo a Susa ogni martedì mattina, giorno di mercato. C’era un banco di giocattoli e suppellettili da pochi soldi. Lì trovai un binocolo di plastica. Lo provai. Quando mi resi conto che facendo passare la luce attraverso due lenti era possibile avvicinare cose lontane, rimasi folgorato. Tornai a casa con il binocolo. Lo schema ottico era galileiano: obiettivo a una sola lente positiva e oculare a lente negativa. Dava immagini con orli arcobaleno, gli ingrandimenti saranno stati tre o quattro. Bastarono per scorgere dal terrazzino della casa di Meana il rifugio e la statua della Madonna sulla cima del Rocciamelone, quota 3538 metri. Di notte, puntato sulla Luna, il binocolo mi rivelò i “mari” e qualche stella dove ad occhio nudo non ne vedevo nessuna. Fantastico. Quando arrivò il plenilunio cercai di disegnare una mappa delle chiazze scure. Nacque così l’interesse per l’astronomia, e non mi è ancora passato.

 

Prima lezione

 

Le vocazioni precoci sono durature, hanno solo bisogno di un’occasione che le liberi. Visto da un pedagogista il percorso è: gioco (binocolo), stupore-curiosità (come funziona?), esplorazione (osservazione della Luna), tentativo di fissare il risultato (disegno). La prima e l’ultima parte del tragitto (gioco e disegno) passano attraverso la manualità, nel mezzo c’è la parte creativa (curiosità innescata dallo stupore e soddisfatta dall’esplorazione). “In nuce” c’è il metodo scientifico.

Venne l’inverno e a Torino, passeggiando con zia Celestina per via Garibaldi, passammo davanti alle vetrine della libreria Paravia, che erano parecchie. In una notai un libretto intitolato “Stelle”. Lo guardai con desiderio. Zia Celestina me lo comprò e quel dono mi accese un terribile senso di colpa: ero in prima media, la mattina a scuola avevo ricevuto una nota sul diario e non me l’ero sentita di confessarlo. Passai una brutta notte. La mattina vuotai il sacco quando ormai era l’ora di tornare a scuola e non c’era più tempo per sgridate e punizioni.

Il libretto era fantastico. C’era una pagina per ogni costellazione e due per ogni pianeta, una cartina della Luna con i nomi di mari, crateri, montagne; una nota suggeriva altri tre libri e due riviste, “Coelum” – fondata nel 1931 a Bologna da Guido Horn d’Arturo – e “l’Astronomie”, fondata in Francia da Camille Flammarion nel 1887. Mi si apriva un mondo. Uno alla volta, mi feci regalare i tre libri, da mio padre ottenni in prestito un vero binocolo (prismatico, 8 ingrandimenti, ottica Zeiss), in una rivista di bricolage trovai le istruzioni per costruire un telescopio da 100 ingrandimenti. Appresi dalla stessa rivista che tra settembre e ottobre del 1956 ci sarebbe stata una opposizione di Marte molto favorevole.

  

Storia sentimentale dell'Astroniomia

Seconda lezione

 

L’abilità manuale è uno degli aspetti dell’intelligenza e conviene coltivarla, specialmente nei bambini. Il Nobel per la chimica Harold Kroto mi raccontava di saper distinguere i suoi amici che da piccoli avevano giocato con il Lego da quelli che avevano giocato con il Meccano. I primi gli forzavano il rubinetto del bagno danneggiando la guarnizione, i secondi dosavano la forza necessaria per chiudere dolcemente il rubinetto. Deduzione: il Meccano allena il cervello motorio a eseguire movimenti fini, il Lego coltiva la forza, non l’abilità. Allenai l’abilità manuale costruendomi il telescopio. L’ottica – di qualità miserrima – la distribuiva in scatola di montaggio un certo ingegner Carlo Alinari che per mia fortuna abitava a Torino. Andai a trovarlo accompagnato da mia madre, divertita ma diffidente. Alinari aveva alloggio e azienda all’ultimo piano di un palazzo di corso Vinzaglio. Con l’ottica già montata in due tubi scorrevoli puntò un campanile lontano e aguzzo. In cima c’era un angelo munito di tromba, invisibile a occhio nudo. Fu un’altra rivelazione. Venni via con le parti ottiche: l’obiettivo a una sola lente da 5 centimetri, non acromatico, ma già nel suo barilotto e diaframmato a 2 centimetri, uno specchietto con il supporto per fare il diagonale, l’oculare a una sola lente. I tubi di cartone nero me li procurò un rilegatore di libri. Marte era un dischetto rosa insignificante, ma sulla Luna vidi decine di crateri sul confine tra la luce e l’ombra.

L’astronomia mi accompagnerà come un fiume carsico fino all’esordio nel giornalismo, quando il fiume tornò definitivamente in superficie con il favore di Elena, mia moglie, che mi fu sempre accanto in quel che ho di buono e di cattivo. Nel frattempo avevo letto parecchi libri, mi ero abbonato alla rivista francese “l’Astronomie” e avevo avuto in dono da un tipografo amico di mio padre che abitava a Cavour un cannocchiale in ottone della prima guerra mondiale a quattro segmenti sfilabili. L’obiettivo acromatico da sei centimetri aveva una delle due lenti con una incrinatura a forma di Y. Lo portai da Salmoiraghi, che aveva un negozio di ottica in via Roma, e feci sostituire la lente. Ci misero due mesi perché mandarono il cannocchiale alla casa madre di Milano. Quando mi tornò tra le mani non era più necessario estrarre tutti i segmenti del tubo: avevano messo una lente con più diottrie. Di conseguenza erano diminuiti la distanza focale e l’ingrandimento. Protestai, ma per evitare danni peggiori mi tenni lo strumento così com’era. Ce l’ho ancora, è un bell’oggetto.

 

Terza lezione

 

La scuola è importante ma non è tutto. Il liceo classico Massimo d’Azeglio di Torino (quello di Cesare Pavese, Fernanda Pivano, Primo Levi, Piero Angela, Salvador Luria, premio Nobel per la medicina nel 1969) mi mandò all’esame di maturità con due 5, uno di scienze e uno di filosofia. Per i casi imperscrutabili della vita, uscii con due 10 e una filza di 9 e di 8 nelle altre materie, prima o seconda “maturità” di Torino per quell’anno. Incerto se iscrivermi a Fisica o a Lettere, scelsi la seconda perché mi sembrava (ed era) più facile. Mi laureai in tre anni lavorando (insegnante di italiano in una scuola professionale privata e ragazzo di bottega in un settimanale cattolico) e per circostanze favorevoli pochi mesi dopo, il 2 dicembre 1967, fui assunto come praticante giornalista alla “Gazzetta del Popolo”, l’altro quotidiano di Torino, contraltare povero della ricca “Stampa”. Altre vicende fortunate due anni dopo mi portarono a curare la Terza Pagina, quella culturale, e il Diorama Letterario, come, per motivi storici, si intitolava la pagina dei libri.

  

 

Peter Kolosimo,  conosciuto in occasione del Premio Bancarella 1969, con la moglie Caterina nella loro casa torinese (1970) 

Il caso Kolosimo

 

 

 

 

In quanto redattore di quelle pagine, seguivo da cronista i premi letterari. Nel 1969 Peter Kolosimo con “Non è terrestre”, edito da Sugar, vinse il Premio Bancarella. Quel libro aprì un nuovo filone, la cosiddetta “archeologia insolita”, ispirata all’ipotesi (improbabilissima, per usare un cauto eufemismo), che in un passato lontano esseri alieni avessero visitato il nostro pianeta.

Incontrai Kolosimo a Pontremoli il giorno della premiazione. Era lì con la moglie Caterina, graziosa e bionda, nativa di Bolzano, accento veneto, non tedesco. Abitavano a Torino in via Michelangelo angolo via Madama Cristina. Qualche giorno dopo andai a intervistarlo e ne scaturì un’amicizia eccentrica. A ricordarlo oggi, con il suo viso triangolare e scavato, gli occhi enigmatici, le rughe incise sulla fronte, l’espressione tenera e intensa che avremmo poi visto nell’E.T. disegnato da Carlo Rambaldi per il film di Spielberg, Kolosimo stesso era la miglior «prova» dell’esistenza degli extraterrestri ricorrenti nei suoi libri. Nato nel 1922, si diceva di origini gitane, ma pare che la K del cognome sia stata inserita al posto di una più domestica C. E’ sicuro, invece, che Peter sotto il fascismo si chiamava Pier Domenico, e tale rimase per l’anagrafe.

 

Favoleggiava di un nonno emigrato negli Stati Uniti, dove importava dal Messico casse da morto con dentro messicani vivi che non riuscivano in altro modo a fuggire dalla miseria del loro Paese. Raccontava della propria nascita a Modena «per caso», dell’adolescenza a Bolzano, dell’ingresso - a 17 anni - nell’esercito tedesco come ufficiale carrista e poi nelle SS, del passaggio dai nazisti ai partigiani, della guerriglia nella Selva Boema al fianco di volontari comunisti fino all’incontro con l’Armata Rossa. Poi la direzione di Radio Capodistria, l’espulsione dalla Jugoslavia di Tito perché ritenuto filosovietico, esperienze di giornalismo politico, infine la metamorfosi in scrittore popolare. Snobbava gli accademici e teorizzava sé stesso come pioniere di una saggistica antiaccademica, diceva che “l’immaginazione è un’arma sociale”, a parole fiancheggiava i movimenti extraparlamentari di estrema sinistra.

Bizzarro come la sua biografia era il Kolosimo privato. Si svegliava nel tardo pomeriggio, faceva colazione sorseggiando un amaro, pranzava quando la gente normale mette in tavola la cena, cenava mentre gli altri fanno colazione, andava a dormire all’ora in cui operai e impiegati bollano la cartolina. Generoso con gli amici, estroso nel comportamento, per anni tenne con sé un lupo che si era portato di ritorno da un viaggio in Jugoslavia, un lupo vero ma così mite che aveva paura della mia gatta Ratin, dalla quale rimediò un graffio sul naso. “Poiché è un animale di branco senza branco – mi spiegava Peter – è timidissimo. In ogni modo il suo capobranco sarebbe Caterina, non io”. Veniva da studi umanistici, diceva di essersi laureato in filologia germanica e poi, a Uppsala, in sessuologia. Con Caterina, di vent’anni più giovane, conosciuta nel 1961 tramite una inserzione per cercare una segretaria che sapesse bene il tedesco, aveva stabilito un sodalizio non soltanto di complici affetti ma anche di lavoro.

Gli spunti per i libri gli venivano da un archivio ordinatissimo, accumulato in decine di viaggi e in costanti contatti con archeologi, astronomi, biologi e psicologi, soprattutto in quella che allora era la Repubblica Democratica Tedesca. Sono nati così «Il pianeta sconosciuto», «Terra senza tempo», «Astronavi sulla preistoria», «Odissea stellare», «Fratelli dell’infinito», «Polvere d’inferno», «Fiori di Luna», «Viaggiatori del tempo», «Civiltà del silenzio», «Italia, mistero cosmico». Non c’era, a ben guardare, nulla di esclusivo. Ma il modo di mettere insieme gli ingredienti era soltanto suo, e in tutto il mondo milioni di lettori glielo riconoscevano.

Quando nel 1984 morì a Milano per un tumore al fegato non estraneo agli aperitivi tracannati, la sua fama si era appannata. A “La Stampa” per dare notizia della sua scomparsa ebbi a disposizione una trentina di righe. Eppure Kolosimo era stato uno straordinario caso editoriale. I suoi libri, guardati con sufficienza dagli scienziati e dai recensori, furono tradotti in sessanta Paesi, incluso il Giappone, e sempre con tirature favolose. Il loro segreto sfugge ancora. I temi, certo, sempre giocati sullo spartiacque tra documentazione e improbabilità, avevano la loro parte di richiamo sul pubblico popolare: enigmi dell’archeologia, vita extraterrestre, Ufo, fenomeni paranormali, psicoanalisi, ipnotismo, sessuologia. E così pure lo stile: agile e leggero come il passo di un felino, con una misura giornalistica scattante anche quando il discorso si distendeva per centinaia di pagine. Ma tutto ciò non sarebbe bastato a determinare tanto successo se non ci fosse stata una più profonda e inafferrabile sintonia con lo spirito del tempo: quegli anni 60-70 che videro lo sbarco sulla Luna, la ribellione studentesca, la crisi dell’Accademia.

Per il pubblico italiano, quello di Kolosimo era un genere così anomalo che non si trovava un paradigma dove collocarlo. Non era saggistica, non era fantascienza, non era narrativa, non era inchiesta giornalistica, non era divulgazione. Ma di tutti questi generi c’era qualcosa, e se ne parlo qui è perché a modo loro quelle pagine pseudoscientifiche prepararono un pubblico interessato alla scienza. Per classificare i temi di Kolosimo si dovettero inventare discipline nuove: l’esobiologia, oggi più nota come astrobiologia, l’improbabile archeologia spaziale (o fantastica) per indicare le ricerche di tracce geologiche interpretabili come segni del passaggio di esseri alieni, l’ufologia, pseudoscienza peraltro da lui confutata. Fatto sta che «Non è terrestre», dove Kolosimo esamina l’ipotesi che in passato più volte la Terra sia stata meta di civiltà aliene, fu un libro che fece sognare la generazione del ’68. Forse perché era evasione, sì, ma con l’alibi di una certa documentazione: Peter sapeva fermarsi un passo prima dell’eresia esoterica. Non ho mai capito quanto credesse alle cose che scriveva. Una volta mi trascinò sul monte Musiné, un cono arido alto 1150 metri all’imbocco della valle di Susa, luogo leggendario per presunti avvistamenti di Ufo, e mi mostrò quattro buchi rotondi in un masso. “Vedi – mi disse – queste sono coppelle scavate migliaia di anni fa: disegnano la costellazione della Croce del Sud. Ma siamo nell’emisfero boreale. Come te lo spieghi?”. Non c’era niente da spiegare, i massi sono pieni di buchi.

Il successo dei suoi libri era tale che il direttore editoriale della Sugar Massimo Pini decise di lanciare una rivista intitolata “PK”, P come Peter e K come Kolosimo. Peter fu ovviamente il direttore, e tra i collaboratori volle sua moglie Caterina, mia moglie Elena, me stesso e alcuni colleghi della “Gazzetta”, dove ogni tanto pubblicavo qualche articolo di Peter. Ci fu una cena inaugurale al “Gatto nero” in corso Turati e arrivò a Torino il direttore editoriale Massimo Pini con al seguito vari personaggi della Sugar / Messaggerie Italiane (ma non Caterina Caselli). Peter chiese a Pini di farmi fare un libro di astronomia nella collana di “Non è terrestre”. Pochi giorni dopo mi arrivò per telegramma la commessa del libro, subito dopo il contratto e un anticipo sui diritti d’autore. Scrissi “Universo senza confini” e per assicurarmi che non venisse confuso con altri libri pseudoscientifici della collana chiesi a Mario Girolamo Fracastoro, cattedratico di astronomia e direttore dell’Osservatorio torinese, di scrivermi una Introduzione (dopo aver ripulito il testo dagli svarioni, che non mancavano). Fracastoro mi accontentò. Il libro andò bene, fu ristampato più volte e tradotto in spagnolo. Ho incontrato decine di astrofili e persino qualche astronomo che hanno avuto la loro iniziazione con quel libro. Ebbene, sì, devo a Kolosimo il mio esordio nella divulgazione scientifica. E’ l’eterogenesi dei fini. 

  

Il “grand tour” negli Usa

 

Quel libro attirò l’attenzione del Consolato degli Stati Uniti a Torino, sede diplomatica che qualche tempo dopo fu cancellata. Il console mi offrì l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti per farmi un’idea delle frontiere della ricerca oltre Atlantico. Partii nell’autunno del 1979, tre settimane. Scelsi i settori di mio interesse: fisica, astronautica, astronomia, energia. Fu una straordinaria avventura, che mi sprovincializzò e mi lasciò una eredità di contatti e di conoscenze sulla quale campo ancora. A Washington visitai il Pentagono e le redazioni del “Washington Post” e di “National Geographic”. A Cape Canaveral passai una giornata nel VAB (Vehicle Assembly Building) e salii sulla rampa 39/a che aveva visto tutte le missioni Apollo verso la Luna e che in quell’anno veniva adattata ai lanci Shuttle. A Houston vidi le sale di controllo Apollo e Shuttle. Nel New Mexico visitai i laboratori di Los Alamos e vidi le nuove bombe atomiche formato “tascabile” accanto ai modelli di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Un giorno lo passai al nuovo radiotelescopio-interferometro Very Large Array (VLA) nel deserto di Socorro. In Arizona per un paio di notti fui sotto le cupole dell’Osservatorio nazionale americano di Kitt Peack e di giorno nella stanza sotterranea del piano focale del telescopio solare McMath-Pierce. Ancora in Arizona, visita sul Mount Hopkins al Multi Mirror Telescope, prototipo dei futuri telescopi a tasselli di specchi (li aveva ideati nel 1930 Horn d’Arturo a Bologna). Il progetto era astronomico ma anche militare perché quello strumento aveva il compito di tracciare i satelliti sovietici, e intorno al Monte Hopkins, nascosti nel sottosuolo, c’erano missili balistici intercontinentali a testata atomica. In California, un soggiorno all’Osservatorio di Monte Palomar e all’Università di Stanford per vedere l’acceleratore lineare lungo tre chilometri SLAC (un piccolo aereo, mi raccontarono, lo scambiò per una pista e ci atterò sopra). A Princeton vidi la casa di Einstein, un centro di ricerca sulla fusione nucleare e intervistai Gerard O’Neill, fisico geniale e visionario che progettava colonie spaziali. L’ultima sosta fu tra i grattacieli di New York in un hotel affacciato su Central Park. Prima di andare all’aeroporto, una passeggiata di mattina presto in una Broadway deserta. Sceso a Malpensa, affittai un’auto e mi precipitai a Torino. Arrivai appena in tempo per vedere mio padre che si spegneva in ospedale, uno dei tanti rimorsi della mia vita.

 

Tullio Regge

L’incontro con Tullio Regge

 

Ho passato alla “Gazzetta del Popolo” quindici anni della mia vita giornalistica, quelli “letterari”, ma anche in parte dedicati a preparare il passaggio a scrivere di scienza sui giornali, nei libri e altrove. Li ricordo come anni meravigliosi. Una lontana goliardia giornalistica purtroppo finita con la chiusura del giornale nell’estate del 1981. Conobbi molti dei maggiori scrittori italiani della seconda metà del Novecento: Primo Levi, Italo Calvino, Fernanda Pivano, Ennio Flaiano, Ignazio Silone, Giorgio Bassani, Carlo Cassola, Luigi Santucci, Fulvio Tomizza, Piero Chiara, Mario Soldati, Rossana Ombres, il poeta Diego Valeri e tanti altri. La transizione alla scienza avvenne dopo un saggio letterario sullo scrittore di mare Raffaello Brignetti (edito da Mursia, 1974) e una guida alla lettura dei giornali per i licei (“La verità confezionata”, Paravia, 1974). A “Universo senza confini” (1975) seguirono “Dagli atomi al cosmo”, “La svolta nucleare”, “Pionieri del cielo”, e tanti altri libri messi giù nel poco tempo che il giornale mi lasciava. Oggi sono una trentina. Tra gli ultimi, “Storia sentimentale dell’astronomia”, “Vedere, guardare” e “Camminare sulla Luna”, scritto a mezzo secolo dallo sbarco di cui ero stato testimone e cronista.

Per la varietà della mia attività divulgativa importante fu l’incontro con Tullio Regge, fisico teorico che da molti anni stava all’Institute for Advanced Study di Princeton: era arrivato lì poco dopo la morte di Einstein, e ne venne via nel 1979 con il prestigioso “Einstein Award” (molti dei vincitori ebbero poi anche il Nobel).

 

Conobbi Tullio Regge durante un suo passaggio estivo a Torino (credo nel 1977). L’occasione fu un’intervista sull’annuncio, rivelatosi infondato, della scoperta dei monopoli magnetici. Mentre c’ero, gli chiesi di scrivere per la Terza Pagina della “Gazzetta del Popolo”. Accettò ma passarono due anni. Nel 1979, centenario della nascita di Einstein, lo convinsi a scrivere tre articoli sulla relatività. Questa collaborazione giornalistica divenne “il suo nuovo giocattolo”: lo diceva con un sorriso indulgente la moglie Rosanna Cester, anche lei fisico di prima fila ma sperimentale, collaboratrice di Val Logsdon Fitch, che nel 1980 con James Cronin vincerà il Nobel per «la scoperta di violazioni dei principi fondamentali di simmetria nel decadimento dei mesoni K-neutri». Tale era il divertimento di Regge, che tra un articolo e l’altro scrisse per la “Gazzetta” anche un racconto satirico sul moto perpetuo. Questa produzione confluirà nel libro “Cronache dell’universo” edito da Boringhieri nel 1981.

 

Vincitori dell’“Einstein Award”

 

Anno

Nome

1951

Kurt Gödel and Julian Schwinger

1954

Richard Feynman

1958

Edward Teller

1959

Willard Libby

1960

Leó Szilárd

1961

Luis Alvarez

1965

John Wheeler

1967

Marshall Rosenbluth

1970

Yuval Ne'eman

1972

Eugene Wigner

1978

Stephen Hawking

1979

Tullio Regge

Svolta culturale

 

La Terza Pagina è stata una caratteristica esclusiva dei giornali italiani. Nacque nel dicembre 1901 sul “Giornale d’Italia” in occasione della “prima” della “Francesca da Rimini” di Gabriele D’Annunzio interpretata da Eleonora Duse. Presto gli altri giornali imitarono quell’iniziativa, che segnava una pausa tra i fatti politici di prima pagina e le cronache delle pagine successive.

Per settant’anni tutte le Terze Pagine – oggi scomparse – furono dedicate esclusivamente alla cultura umanistica. Lo schema era fisso. Apertura a due o tre colonne con un “elzeviro”, altro genere giornalistico solo italiano: di solito un racconto, una prosa d’arte, il commento a qualche libro o evento importante. Di spalla a sei colonne tradizionalmente c’era il reportage di un inviato o di un corrispondente dall’estero: storie di viaggi, interviste a personaggi famosi, pezzi scritti in morte di illustri scomparsi chiamati “coccodrilli” nel gergo delle redazioni. A centro pagina, di taglio, andava un articolo di attualità culturale: mostre d’arte, concerti, spettacoli teatrali, resoconti di conferenze e dibattiti.

Dopo aver pubblicato un’ampia inchiesta tra scrittori e intellettuali sulla funzione della Terza Pagina, nel 1976 sporadicamente incominciai a inserirvi articoli divulgativi che trattavano i progressi più recenti in biologia, genetica, fisica, informatica. Per attenuare l’innovazione, spesso erano interviste a scienziati che facevano ricerca in quelle discipline o avevano pubblicato un libro per divulgarle. Il mio primo articolo di astronomia fu sulle meteore di San Lorenzo e si avvalse, come alibi, della poesia di Giovanni Pascoli “10 agosto” di scolastica memoria. Intanto anche “La Stampa” infranse il dogma umanistico pubblicando come elzeviro qualche articolo dell’astronomo Paolo Maffei, che nel 1973 si era fatto conoscere con il libro divulgativo “Al di là della Luna”.

 

A capo di “Tuttoscienze”

 

Con la chiusura della “Gazzetta” nel 1981 passai a “La Stampa”, assunto da Giorgio Fattori, che provvisoriamente mi collocò alla redazione Esteri. Ero saturo di romanzieri, poeti e letterati: dopo 15 anni di frequentazioni, conosci tutti e non puoi più recensire un libro senza sentire il peso delle relazioni umane. Gli Esteri furono una pausa liberatoria. Fu una pausa breve perché Fattori aveva in mente di inserire nel quotidiano un supplemento scientifico settimanale e una serie di altri supplementi (seguirono “Tuttodove” per il turismo, “Tuttocome” per il tempo libero, “Torino7” per l’intrattenimento). Come capo dei supplementi fu chiamato dal “Giorno” Franco Pierini, a me toccò l’incarico di curare “Tuttoscienze” e naturalmente mi tirai dietro Tullio Regge, ormai rodato dalla collaborazione alla “Gazzetta del Popolo”. “Tuttoscienze” mi ha permesso di lanciare una nuova generazione di divulgatori: il geologo Mario Tozzi, il climatologo Luca Mercalli, il matematico Piergiorgio Odifreddi, Barbara Gallavotti e tanti altri rimasti meno famosi. In qualche caso mi sono pentito: credo che non si dovrebbe fare divulgazione scientifica da militanti neppure quando si difende una causa giusta.

Regge ha scritto per i quotidiani 394 articoli. Ventuno comparvero sulla “Gazzetta”. Seguirono 346 articoli su “La Stampa” (di cui 123 nel supplemento “Tuttoscienze”) e 27 su “la Repubblica”. Per trent’anni, dal 10 gennaio 1979 al 26 febbraio 2009, la firma di Tullio Regge sui quotidiani fu una presenza assidua, che si diradò soltanto quando divenne deputato europeo (1989-1994). La collaborazione a “la Repubblica” è una breve parentesi all’inizio del millennio: coincise con una rubrica affidatagli sul mensile “Le Scienze”, appartenente allo stesso gruppo editoriale del quotidiano romano. Regge usò quella rubrica soprattutto per affrontare polemicamente temi controversi: la difesa degli Ogm, la critica al “principio di precauzione” dei Verdi, la lotta alle sigarette e alle multinazionali del tabacco, la denuncia della pseudoscienza, le pari opportunità per i disabili. Poi ritornò a “La Stampa”.

Scriveva in fretta, con la stessa spontaneità con cui parlava. Questo era il suo segreto, peraltro trasparente e inconsapevole. La sua pagina era fatta di parole semplici e brevi erano le frasi, ritmate, quasi jazzistiche, uno stile che aveva assorbito dall’inglese, forse dal supplemento scientifico del “New York Times”, dove scriveva Walter Sullivan, uno dei migliori science reporter americani. Ovviamente i termini scientifici rimangono e lo spazio concesso non sempre permette di spiegare concetti insoliti come la rottura di simmetria, il vuoto quantistico, le singolarità gravitazionali. Ma Regge riduceva al minimo i tecnicismi e semplificava audacemente i contenuti complessi, a costo di esporsi alle critiche dei colleghi più superciliosi.

Il divertimento era l’unica motivazione che potesse trascinarlo in una attività così dispersiva, ma ben presto la diffusione della scienza divenne per lui un impegno crescente. Questo ci rendeva reciprocamente empatici. Contemporanee dei primi articoli sulla “Gazzetta del Popolo” sono le affollatissime conferenze tenute da Regge all’Unione Culturale di Torino nel centenario della nascita di Einstein. Diventai la sua “spalla” nelle attività divulgative. Le conferenze consentono un linguaggio molto più disinvolto degli articoli: migliaia di persone seguirono una serata al Palasport mentre sullo schermo passavano 80 diapositive di pianeti, stelle, nebulose, galassie che Regge aveva portato dagli Stati Uniti. Circolavano allora le prime immagini riprese dalle sonde “Pioneer”, “Viking” e “Voyager” lanciate nel sistema solare, il puntatore laser sembrava un bazooka ed era una meraviglia tecnologica. Al Parco della Pellerina d’estate il Comune organizzava i “Punti Verdi”: una sera Regge attirò diecimila persone parlando dei fondamenti dell’informatica, un’altra volta mostrammo la Luna e Giove su un grande schermo riprendendoli con una telecamera messa nel fuoco di un telescopio amatoriale.

 

Quattro chiacchiere con Piero Bianucci

Tra radio e Tv

 

Dal 1975 collaboravo alla Rete Due della Rai (allora in bianco e nero) come autore e conduttore della rubrica televisiva “L’uomo e il motore” e al Terzo Programma della radio con trasmissioni scientifiche, di solito interviste di mezz’ora con ricercatori delle più varie discipline. Per “L’uomo e il motore” la Rai mi aveva chiamato perché, come redattore della “Gazzetta” ero libero dai conflitti di interesse che avrebbe avuto un giornalista della “Stampa”, quotidiano della famiglia Agnelli. Parlai poco di Fiat e anche poco di motori. Mi divertii a prendere l’automobile di sponda: l’auto e il cinema, l’auto e le canzoni, l’auto e l’arte, l’auto e la pubblicità, l’auto e il costume, l’auto e la letteratura, l’auto e il linguaggio e così via. Invitai quindi come ospiti cantautori, critici letterari, cinematografici, d’arte, il linguista Gian Luigi Beccaria. Per la radio, tra gli altri, coinvolsi di nuovo Regge.

Intorno alla metà degli Anni 80 la nostra attività divulgativa sui giornali, nelle piazze e nei teatri, trovò uno sbocco naturale in programmi radiofonici e televisivi che realizzai come autore e conduttore per la sede torinese della Rai. Con la regia di Bruno Gambarotta, per il Dipartimento Scuola Educazione nacquero quattro serie di 12 puntate ciascuna, dedicate nell’ordine all’astronomia (Verso l’infinito e ritorno, tra gli ospiti Margherita Hack, Mario Girolamo Fracastoro, Giovanni Gòdoli, Marcello Coradini, Francesco Bertola, Giancarlo Setti), alla fisica delle particelle (Viaggio dentro l’atomo, con Primo Levi, Gian Carlo Wick, Carlo Rubbia, Chen Ning Yang, Nicola Cabibbo, Toraldo di Francia, Remo Ruffini), al concetto di simmetria in fisica, matematica, cristallografia, chimica, biologia, arte, letteratura, musica (Dietro lo specchio, con il compositore Luciano Berio, l’anglista Claudio Gorlier, il matematico Alberto Conte, il fisico Vittorio De Alfaro, il neuroscienziato Ruggero Pierantoni e il biologo Pier Carlo Marchisio) e alle scienze della vita (Cellule buone, cellule cattive). Regge ed io eravamo presenze costanti, io conduttore, lui commentatore scientifico. Gambarotta ci chiamava “i fratelli De Regge”.

Erano programmi di sobrietà estrema: puntate di 28 minuti, tre sedie, scenografia elementare, poche immagini fisse, qualche breve filmato. Ma il Dipartimento Scuola Educazione permetteva discorsi approfonditi che nella tv attuale sarebbero impensabili e Bruno Gambarotta riuscì a ideare sigle eleganti, con musiche di Ludovico Einaudi, allora trentenne. La messa in onda avveniva purtroppo con poca attenzione. La puntata con il premio Nobel per la fisica Chen Ning Yang fu interrotta per trasmettere a reti riunite il discorso di capodanno del presidente della Repubblica, e la seconda metà rimase inedita. Tuttavia il risultato didattico fu apprezzabile e ancora adesso torna qualche replica occasionale su Rai Scuola. 

 

Mostre e Cd-Rom

 

Nel 1987 Regge ed io cogliemmo altre opportunità per praticare la divulgazione con la nascita della mostra annuale Experimenta, promossa dalla Regione Piemonte, e dei cicli di conferenze spettacolarizzate GiovedìScienza al teatro Colosseo. La prima edizione di Experimenta , ideata da Pino Zappalà di Extramuseum, introdusse in Italia la didattica dell’Exploratorium di San Francisco fondato nel 1967 da Frank Oppenheimer, fratello di Robert, il fisico che aveva guidato il progetto della bomba atomica e poi l’Institute for Advanced Study di Princeton. La novità consisteva nel coinvolgere il visitatore direttamente negli esperimenti secondo la regola “fare per capire”, un recupero delle mani come prolungamenti del cervello, e del corpo intero nel caso di esperimenti immersivi. L’interattività nella didattica delle scienze inaugurata a Experimenta ebbe un grande successo, e ciò indusse la Regione a organizzarne altre 19 edizioni annuali sui temi più diversi: Regge ne presiedette a lungo il comitato scientifico. Io ne faccio ancora parte e conduco gli incontri in teatro. GiovedìScienza da 34 anni riempie i 1400 posti del Colosseo e dal 2013 ha anche una diffusione in streaming. Le conferenze hanno superato le 600 mila visualizzazioni complessive. Dal 1987 sono andate in scena oltre 500 conferenze di 400 conferenzieri, tra i quali vari premi Nobel.

Negli Anni 90 il personal computer diventa di uso abbastanza comune e inizia la diffusione di Internet, che accelera quando al Cern viene sviluppato da Tim Berners Lee il protocollo ipertestuale www, inizialmente ad uso dei fisici, poi messo a disposizione della comunità della Rete. Da tempo Regge programmava piccoli calcolatori casalinghi per produrre disegni dai titoli allusivi, ironici, scherzosi. La popolarità dei personal computer offrì a Regge un nuovo strumento di divulgazione che permette di trasferire sullo schermo, in una sorta di laboratorio virtuale, l’interattività materiale della mostra Experimenta: il Cd-Rom. Con la collaborazione di Federico Tibone, un fisico che si era laureato a Torino con Regge e aveva lavorato in Inghilterra al programma JET per la fusione nucleare controllata, nasce il il Cd-Rom Tullio Regge spiega la relatività di Einstein, diffuso in decine di migliaia di copie con La Stampa-Tuttoscienze. Il successo si ripete con Nello spazio tra le stelle. Da Galileo Galilei alla sonda Galileo (sintesi delle più recenti scoperte astronomiche curata con chi scrive), Vicino alla musica, con Luciano Berio, e La freccia del tempo, con Federico Tibone coautore. Anche “Tuttoscienze”, oltre che in volumi (una trentina complessivamente), si traduceva in Cd-rom che ne rendevano comoda la consultazione grazie al motore di ricerca. Con uno di questi Cd-rom andò in edicola il mio libro “Piccolo, grande, vivo”, cinquantamila copie vendute.

 

Prepararsi al futuro. Dialoghi sulla sostenibilità

Con Piero Angela

 

La collaborazione alla Rai è andata avanti, dal 1980 in poi, anche su chiamata di Piero Angela. Partecipai alla prima serie di “Quark” e a parecchi “speciali”: la cometa di Halley vista dalla sonda “Giotto” e il fly-by di Urano da parte del “Voyager 2”, l’impatto su Giove della cometa Shoemaker-Lévy nel luglio 1994, fenomeno mai visto prima da occhio umano. Nel 1998-99 con Piero Angela curai le quattro puntate in prima serata di “Viaggio nel cosmo”, effetti speciali di Gabriele Cipollitti. Passai una settimana all’Osservatorio europeo di Roque de Los Muchachos nelle isole Canarie per fare riprese con quei telescopi, benché il telescopio nazionale italiano “Galileo” non fosse ancora in funzione per ritardi su ritardi. Negli studi Rai di via Verdi a Torino ricostruimmo 100 metri quadrati di Luna e 40 metri quadrati di Marte. Istruttiva per me fu la precisione con cui Piero Angela si preoccupò che la resa dei colori fosse realistica: in televisione gran parte dell’informazione passa per le immagini e i colori a volte sono più importanti del testo.

Per conto mio sono stato autore e conduttore di “Vita da scienziato”, sei puntate per la Rete Tre in cui intervisto Rita Levi Montalcini, il matematico Bepi Colombo (al quale è intitolata la sonda spaziale che nei prossimi anni visiterà Mercurio), l’etologo Danilo Mainardi, l’oncologo Umberto Veronesi, il fisico Sergio Fubini, il chimico Luciano Caglioti. Al di fuori della scienza, eredità del passato letterario, tra il 1988 e il 1999 sono stato autore della rubrica settimanale di libri “Finito di stampare” sulla Rete Due e di vari programmi nazionali e locali per la Rete Tre. Intanto il lavoro a “La Stampa” mi permetteva di seguire i lanci Shuttle da Cape Canaveral e i lanci in orbita di satelliti dalla piattaforma galleggiante (ex petrolifera) “San Marco” creata da Luigi Broglio al largo di Malindi, Kenya. Molti i lanci di razzi “Ariane” visti da Kourou, spazioporto dell’ESA nella Guyane francese. Uno dei viaggi a Kourou fu a bordo del “Concorde” a Mach 2,1, quota di crociera 16mila metri, al confine con la stratosfera. Indimenticabile.

A Kourou il 4 giugno 1996 drammatico fu il lancio sperimentale del primo “Ariane 5”: esplose 40 secondi dopo il distacco dalla rampa, 700 tonnellate di propellente finite in un botto abbagliante sopra la testa dei giornalisti, addio ai quattro satelliti “Cluster” che dovevano andare in orbita per lo studio delle interazioni tra il vento solare e la magnetosfera terrestre. Vidi piangere i tecnici del lancio e gli scienziati che a quei satelliti avevano affidato la loro carriera. Per fortuna alcuni anni dopo furono lanciati con successo i quattro satelliti rimasti a terra come modelli di simulazione. L’insuccesso del primo “Ariane 5” turbò molto gli inviati italiani: temevamo che la colpa del disastro fossero i “booster” a combustibile solido costruiti in Italia. Dopo una analisi dei dati e della telemetria si chiarì che il razzo era esploso per un baco nel software di bordo, responsabilità della francese Matra. Il baco aveva fatto rilevare al sistema di guida una inclinazione sbagliata ed era scattato il comando di autodistruzione.

Gli elenchi sono noiosi, l’aneddotica sarebbe troppo lunga. Devo limitarmi all’elenco. Ho avuto la fortuna di conoscere bene molti scienziati, e specialmente Edoardo Amaldi e il figlio Ugo, Bruno Pontecorvo, Giancarlo Vick, Carlo Rubbia, Rita Levi Montalcini. Parecchi Nobel sono stati ospiti delle conferenze-spettacolo di “GiovedìScienza” che ho organizzato con Pino Zappalà e condotto per 34 anni al teatro Colosseo (1400 posti). Oltre a una dozzina di edizioni di “Experimenta”, ho curato la mostra per il centenario della Fiat (1999: ne descrissi il contenuto a Gianni Agnelli e due ore dopo, all’inaugurazione, l’Avvocato, che non l’aveva vista, ne parlò con tanta competenza che sembrava l’avesse realizzata lui), ancora per la Fiat ho organizzato al Lingotto un convegno sui colori con il Nobel David Hubel e lo psicoanalista Hillman. Ho scritto i testi del Museo Lombroso riaperto al pubblico nel 2009, ho progettato e realizzato il museo interattivo per bambini “Xké? - Laboratorio della curiosità” (2011), ideato e realizzato la mostra “Guardare il buio” (2013), ho collaborato alla mostra “Scienza e vergogna” sulle leggi razziali applicate nell’Università di Torino (2018). Dal 2009 al 2012 sono stato presidente del Planetario di Torino: mi sono dimesso su due piedi e in pubblico quando l’assessore alla Cultura della giunta leghista (quella delle “mutande verdi” messe in nota spese dal presidente Cota) mi ha proposto di andare con lui in una banca a chiedere soldi, io ho rifiutato, lui ha osservato “Mi avevano detto che lei è una persona intelligente” e io gli ho risposto “Mi avevano detto che lei è una persona educata”.

Dopo 42 anni di contributi, ho lasciato la redazione della “Stampa” ma continuo a scrivere per l’edizione online lastampa.it una o due volte la settimana. Per sei anni sono stato docente a contratto di giornalismo scientifico all’Università di Torino e da altrettanti al Master di comunicazione scientifica dell’Università di Padova. Collaboro con la radio e la tv della Svizzera italiana. Ho sempre libri in cantiere e da quando ho perso Elena vivo con un gatto vecchietto come me che si chiama Pulce. Ma anche con circa 15 mila libri e una decina di telescopi di ogni tipo. Continuo a sentirmi ospite di due culture, l’umanistica e la scientifica. Solo ospite, forse neanche gradito. Però sono contento di averle frequentate entrambe. E sono convinto che in realtà la cultura sia una sola, e non consista nel sapere le cose ma nel saperle mettere in relazione tra loro. Certo, per farlo, qualcosa bisogna sapere. Da dieci anni sono un giornalista free lance che ha fatto propria la massima della cantante jazz, attrice e pin-up Ertha Kitt: “Si impara per tutta la vita. La tomba sarà il mio diploma”.

 

L'Autore con l'ultimo libro, "Camminare sulla Luna". Giunti, 2019

Nel mezzo secolo che ho attraversato l’informazione e la divulgazione scientifica sono radicalmente cambiate. La quantità è cresciuta anche troppo, la qualità in generale è migliorata. Nuove forme di diffusione della scienza si sono affermate: feste, festival, notti del ricercatore, Ted conference. Scorrevolezza e comprensibilità della divulgazione scientifica scritta sono misurabili con l’algoritmo “Gulpeasy” elaborato dal Gruppo universitario linguistico e pedagogico di Tullio De Mauro. Il web mette a portata di clic le biblioteche e i centri di ricerca di tutto il mondo. Molti ricercatori, usciti dai laboratori, fanno divulgazione. Talvolta nei laboratori non rientrano più, sedotti da tv, teatri, web, applausi – e devo dire che talvolta questa è l’alternativa dei ricercatori mediocri, che però si trasformano in divulgatori saccenti. La spettacolarità rischia l’eccesso: le Ted Conference puntano solo sull’attrattiva sexy della scienza e non accennano al metodo scientifico, che dovrebbe essere sempre sotto traccia in ogni attività divulgativa. Ma questi forse sono barbottìi di chi ha troppi anni.

Posso dire, in ogni caso, che mi sono sempre divertito e mi diverto tuttora. L’ultimo lavoro con Piero Angela, è “Costruire il futuro” (2017, 2018, 2019-20), tre cicli annuali di conferenze che abbiamo organizzato al Politecnico di Torino per 400 studenti scelti tra i migliori con lo scopo di esporli a conoscenze che la scuola non può dare e di formare una classe dirigente onesta e competente. Sono intervenuti i demografi Livi Bacci e Antonio Golini, gli studiosi di Intelligenza Artificiale Roberto Cingolani, Riccardo Zecchina, Luciano Floridi, il chimico Nicola Armaroli, gli economisti Tito Boeri e Pietro Terna, il farmacologo Silvio Garattini, il politologo Paolo Magri, il sociologo Giuseppe De Rita, il geriatra Roberto Bernabei, i magistrati Raffaele Cantone e Armando Spataro, il costituzionalista Sabino Cassese, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Da alcuni di questi incontri sono nati video di 15 minuti per il portale digitale della Rai. Quando guardo il cielo penso che un asteroide, il numero 4821, porta il mio nome. Come per tante altre cose non è merito mio. Lo devo all’astronomo Walter Ferreri che mi ha segnalato alla International Astronomical Union. Penso anche che un racconto ora nell’“opera omnia” di Primo Levi incomincia con “Caro Piero Bianucci, lei si stupirà di ricevere una lettera da una sua ammiratrice, in un tempo così breve e così da lontano.” Primo Levi finge che a scrivermi questa lettera sia una abitante di un pianeta della stella Delta Cephei e mi chiede, tra l’altro, chiarimenti su alcune parole terrestri che le sembrano etimologicamente incongruenti: antifermentativi, antiparassitari, anticoncezionali, antiestetici, antisemiti, antipiretici, antiquari, antielmintici, antifone, antitesi, antilopi. C’è pure una premonizione del suicidio, agghiacciante se letta con il senno di poi: “In mare non ci andiamo mai, perché siamo basiche e l’acqua è acida, e ci scioglierebbe; delle volte succede, a quelle che sono stanche della vita e in mare si gettano apposta.” 

 

 

 

 

Post scriptum

 

 

Lo so, sono detestabili gli scritti come questo nei quali, se si toglie l’“io”, rimane solo la punteggiatura. Siate pazienti. L’asteroide 4821 e il racconto di Primo Levi sono tracce elusive che tra qualche anno ai posteri risulteranno totalmente incomprensibili. La gente si chiederà allora: “Chi era costui?”