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Quis custodiet custodem?

  

dott. Fauci spiega sotto osservazione 

Quis custodiet custodem?

 

I rischi della globalizzazione nella ricerca scientifica

 

Comunicazione della scienza: fatti distinti dalle opinioni? Non sempre o non proprio

 

Tomaso Di Fraia

 

Chi ha frequentato abbastanza la rivista, e in particolare i vecchi lettori di quella cartacea, sa che il tema della divulgazione e dell’informazione sulla ricerca scientifica, nel suo farsi e nelle sue acquisizioni, è sempre stato al centro delle sue attenzioni. Ma in questa occasione vorrei proporre ai lettori qualche elemento di riflessione sul livello che sta a monte, cioè i canali e le modalità attraverso cui la scienza comunica se stessa, cioè le proprie ricerche e i relativi risultati, e anche sui modi in cui talora è organizzata la ricerca.

Nel quadro di una realtà ormai ben nota, cioè i recenti progressi nell’analisi del DNA umano, lo spunto è dato da un ambito specifico, lo studio del DNA antico (ancient DNA, o aDNA) e le sue implicazioni, le quali sono uno dei pochi argomenti che le mie competenze di archeologo mi permettono di affrontare in qualche misura. Mi riferisco in particolare a due pubblicazioni che nel 2015 hanno avuto una grande risonanza mediatica.

Il primo studio è di 39 autori (il primo è Wolfgang Haak, l’ultimo David Reich), è intitolato Massive migration from the steppe was a source for Indo-European languages in Europe ed è stato pubblicato su Nature. Il secondo articolo, Population genomics of Bronze Age Eurasia, ha come primo autore M. E. Allentoft e altri 65 coautori ed è apparso anch’esso su Nature.

Dall’assertività del titolo del primo articolo ci aspetteremmo sostanzialmente due cose: che si dimostri che sia avvenuta una massiccia migrazione dalle steppe asiatiche verso l’Europa e che tale processo abbia favorito la diffusione di lingue indoeuropee. Nel riassunto premesso al testo si specifica in particolare che verso il 2500 a.C. “la popolazione tardo-neolitica della Ceramica a cordicella in Germania aveva il 75% del proprio genoma corrispondente a quello  [delle popolazioni delle steppe della cultura] Yamnaya, documentando una massiccia migrazione nel cuore dell'Europa dalla sua periferia orientale”.  Dal testo apprendiamo che gli autori hanno analizzato un campione di 69 individui, integrato da altri 25 già presenti in letteratura, ma non viene specificato il numero degli individui della Ceramica a cordicella; soltanto dalle figure 1a e 2a apprendiamo che sono quattro. E’ perciò legittimo il sospetto che questo dato sia stato intenzionalmente messo in secondo piano, giacché sarebbe arduo sostenere che soli quattro individui, per giunta provenienti dalla stessa località, possano dimostrare una “migrazione massiccia”. E infatti gli autori, per sostenere tale tesi, mettono in evidenza che i gruppi della Ceramica a cordicella sono i primi a differenziarsi dalle precedenti popolazioni della Germania e le differenze sono così marcate da giustificare una trasformazione molto rapida, spiegabile solo attraverso una migrazione. Ma per poter sostanziare questa affermazione si dovrebbe dimostrare che precedentemente non vi erano state altre ibridazioni, cosa praticamente impossibile per l’aDNA, in quanto bisognerebbe disporre di un numero grandissimo di campioni ben distribuiti nello spazio e nel tempo, cosa che nessuna ricerca archeologica potrà mai garantire, non foss’altro perché la maggior dei resti umani non si sono conservati.

La seconda osservazione riguarda l’estensione geografica coperta dai campioni. Dei 69 nuovi  individui analizzati, quelli riferibili al terzo millennio a. C. provengono soltanto da quattro nazioni: Russia, Ungheria, Germania, Svezia. Anche in questo caso l’ “Europa” evocata nel titolo è un concetto del tutto abusivo rispetto ai dati forniti dalle analisi scientifiche dello studio. Se su queste ultime, da perfetto profano, non posso avanzare nessuna critica, posso tuttavia affermare senza alcuna remora che la presentazione dei loro risultati è fortemente condizionata e manipolata dall’ars retorica. Anche se può sembrare paradossale, una delle branche più avanzate delle scienze biologiche, l’analisi genetica, in questo caso è stata strumentalizzata dagli autori per sostenere una tesi preconcetta; e per riuscire nell’intento si è ricorsi a vecchissimi artifici retorici.

Inoltre nello studio in questione è importante anche ciò che manca e che invece dovrebbe assolutamente essere presente. Lo stesso studio ha dimostrato ad esempio che l’Uomo del Similaun (“Oetzi”, in inglese Tyrolean Iceman) ha una piccola percentuale di tratti genetici correlati con il profilo Yamnaya. Però l’Uomo del Similaun è molto più antico (circa 3200-3300 a. C.) degli individui citati sopra (2500 a.C.) e ciò solleva un enorme problema: forse gruppi umani che condividevano almeno parte del patrimonio genetico Yamnaya possono essere arrivati nell’Europa meridionale in seguito a episodi di trasferimento o colonizzazione più antichi o molto più antichi? Ma Haack e colleghi non si pongono nemmeno il problema e questo getta un’ombra preoccupante sulla buona fede degli autori. L’articolo di Allentoft e colleghi, che fa capo a un laboratorio e a un gruppo di ricerca danese, ha analizzato 101 individui ed è arrivato a conclusioni analoghe a quelle di Haack e colleghi, cioè che il terzo millennio a. C. sarebbe “a hightly dinamic period involving large-scale population migrations and replacement ”. Ma lo stesso Allentoft e altri sostenitori della teoria della migrazione dalle steppe hanno ammesso due anni dopo che l’origine della diffusione del profilo genetico Yamnaya in Europa potrebbe essere legata a un gruppo di popolazioni ancora non analizzato, ma comunque tali popolazioni dovrebbero essere state strettamente collegate geneticamente agli Yamnaya. Ma in realtà è evidente che questa ammissione relega la presunta invasione del terzo millennio nel rango delle semplici ipotesi, confutando implicitamente l’assertività di Haack e colleghi.

A questo punto si potrebbe pensare che il prestigio di una rivista come Nature dovrebbe garantire

comunque l’affidabilità scientifica complessiva degli articoli pubblicati. In realtà le cose sono un po’ più complesse e a questo proposito è utile citare un’inchiesta giornalistica condotta da Gideon Lewis-Kraus e apparsa il 17 gennaio 2019 sul New York Times Magazine.

Nel 2013 lo studioso statunitense David Reich, dopo aver collaborato con il genetista Svante Pääbo nel laboratorio di Lipsia, rinnovò il suo laboratorio presso la Harvard Medical School e lo trasformò in uno dei primi laboratori dedicati al DNA antico degli USA. L'idea, scrive egli stesso, "era quella di rendere industriale l'antico DNA - costruire una fabbrica di genomica in stile americano”. Così, mentre fino al 2010 erano stati sequenziati solo cinque antichi genomi, nel 2014 ne furono eseguiti 38 in un anno e presto il numero sarà vicino a 2.000. Il solo laboratorio di Reich è responsabile di almeno la metà della produzione pubblicata, che non include circa 5.500 in corso di analisi. Scrive Lewis-Kraus: “Il paesaggio è dominato da quattro laboratori ben finanziati e ben collegati, tre dei quali – quello di Pääbo a Lipsia, insieme a quelli di due dei suoi protégés, Reich ad Harvard e Johannes Krause, che gestisce un nuovo laboratorio nella piccola città tedesca di Jena – spesso collaborano strettamente tra loro, al punto che alcuni critici li accusano di collusione”. “ La potenza di questi grandi laboratori si estende a campioni, dati e persino alla tecnologia: i reagenti chimici di proprietà consentono loro di isolare e arricchire campioni antichi in modo molto più accurato ed economico rispetto ad altri laboratori.” Uno studioso ha spiegato a Lewis-Kraus: “Un piccolo laboratorio incentrato su un determinato sito non sarebbe in grado di collocare il proprio lavoro in un contesto più ampio. L'unico modo in cui posso accedere a quei dati è se consegno il mio osso a David [Reich] o Johannes [Krause] e aspetto fino a quando non li elaborano, seppellendomi nella lista dei contributori."

Ma soprattutto “la pubblicazione in una rivista come Nature o Science può trasformare completamente la carriera di un giovane studioso, migliorando sia la prospettiva di impiego che la capacità di ottenere finanziamenti. L'unica “quota di iscrizione” per una 27° o 53° posizione nella lista di autori in questa "manna gratuita di articoli Nature" è il costo di una spedizione di ossa e un resoconto minimo della loro provenienza archeologica”.

Dunque 1) chi dirige la ricerca ha interesse a raccogliere il maggior numero di campioni provenienti da molti Paesi; 2) i singoli contributori hanno interesse a vedere il loro nome tra i coautori di articoli di successo su riviste prestigiose, anche se in realtà non hanno partecipato alle analisi vere e proprie; 3) le riviste hanno interesse a pubblicare lavori sempre più ampi e su temi di forte richiamo, forse anche allentando i controlli scientifici; e probabilmente, a mio avviso, sono anche disposte a non obiettare se il titolo non è proprio fedele al contenuto dell’articolo.

E qui arriviamo al problema dei custodes, i controllori, che nel nostro caso dovrebbero essere gli anonimi revisori che, con la loro peer review, o “revisione fra pari”, cioè tra studiosi della stessa disciplina, devono valutare la correttezza scientifica e l’originalità del manoscritto proposto alla rivista. Uno dei casi più discussi, e almeno in parte rimasto oscuro, è quello di un articolo presentato alla rivista Nature da Reich e colleghi e concernente lo studio di alcuni teschi provenienti dalla baia di Teouma nell’isola di Efate, nel piccolo Stato di Vanuatu nell’Oceano Pacifico meridionale. Senza entrare nello specifico dell’argomento, è la procedura di peer review che in questo caso risulta molto anomala. Infatti in un primo momento l’articolo era stato rifiutato dalla rivista, perché due revisori su tre avevano espresso critiche radicali sia a livello di contesto archeologico che di analisi dei dati. Ma gli autori dell’articolo, anziché rinunciare alla pubblicazione su Nature come avviene normalmente in caso di rifiuto, ripresentarono l’articolo alla stessa rivista con l’aggiunta di un solo nuovo campione di osso recuperato da tutt’altro contesto. E qui si verifica una cosa ancora più singolare: ai tre revisori ne viene aggiunto un quarto, grazie al cui sostegno i redattori della rivista, di fronte a un verdetto incerto (due revisori contro gli altri due) hanno deciso di pubblicare l’articolo. Non è certo questa la sede per discutere i criteri utilizzati nelle procedure di peer review, ancora piuttosto eterogenei, e certamente i responsabili di una rivista hanno tutti i diritti di decidere se un articolo merita di essere pubblicato, anche contro l’eventuale parere negativo di uno o più revisori. Però non si può non osservare che, almeno nei casi più controversi, sarebbe importante e probabilmente necessario che il pubblico dei lettori, specialisti o meno, possa conoscere argomentazioni e repliche delle due parti; e del resto questa pratica è già attuata da alcune riviste. 

L’inchiesta di Lewis-Kraus denuncia anche altri aspetti molto discutibili di questa politica della ricerca sempre più monopolistica e verticistica: dalla corsa all’accaparramento dei campioni, ad esempio quelli presenti nei depositi dei musei, alla sostanziale esclusione della stragrande maggioranza dei coautori dalla discussione dei risultati, alla revisione (attraverso peer review) e approvazione di un articolo in una sola settimana pur di anticipare un’analoga ricerca in corso di pubblicazione su un’altra rivista. 

A questo punto, alla domanda: l’articolo di Haack e colleghi del 2015 riesce a dimostrare che nel terzo millennio a. C. sia avvenuta una massiccia migrazione dalle steppe asiatiche verso l’Europa?, la mia (e anche di altri) risposta è: no. I lettori attenti, che abbiano avuto la pazienza di sorbirsi tutto il pezzo, si chiederanno anche: che pensare della diffusione di lingue indoeuropee, presente nella seconda parte del titolo? Non volendo abusare della loro pazienza, proporrei di rimandare la questione a una prossima occasione.  

 

 

Riferimenti bibliografici

 

M. E.Allentoft , … E.Willerslev, Population genomics of Bronze Age Eurasia, in Nature 522, pp. 167-182, 2015

W.Haak, …, D.Reich, Massive migration from the steppe was a source for Indo-European languages in Europe in Nature 522, pp. 207-220, 2015

M.Lipson, D.Reich Population Turnover in Remote Oceania Shortly after Initial Settlement, in Current Biology 28, pp. 1-9, 2018