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Canoniche letture infantili

 

La famiglia Cervi 

Canoniche letture infantili

 

Luciano Luciani

 

Naturalmente la passione per la fantascienza, libri e film, non mi aveva reso monomaniaco come spesso accade agli uomini in pantaloni corti. No, no, mi cimentavo anche e spesso con i libri già entrati nel canone della cosiddetta letteratura per l’infanzia. Però, per essere sincero, sarà per le edizioni sciatte, edulcorate e mal tagliate a misura di bambino da originali di ben altro valore, ‘sti libri per ragazzi in genere mi sono scivolati addosso e non hanno lasciato granché. Accadde così, per esempio per Pattini d’argento e anche, lo confesso, per i due capolavori londoniani Il richiamo della foresta e Zanna bianca, pagine che avrei imparato ad apprezzare solo da un po’ più grandicello. Mi scivolarono addosso senza fremiti particolari anche il sopravvalutato I ragazzi della via Pal e il loro succedaneo italiano e romano, I ragazzi di Villa Borghese scritto da Giovanni Mosca, il direttore del “Corriere dei piccoli”, dove il Danubio si sposta sul Tevere e l’Orto Botanico di Budapest, teatro di tante sassaiole tra i ragazzini ungheresi, si riconverte nelle aiuole del Pincio e nei pini del Galoppatoio.

Troppi duri mi apparvero i Capitani coraggiosi di Kipling e troppo morbidi i non pochi volumi delle soap opera alcottiana (Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I figli di Jo...) su cui misi gli occhi, riguardandoli con palese sospetto di genere: libri da femmine! Anche i classici per l’infanzia del Bel Paese su cui si sono formate generazioni e generazioni di piccoli italiani, il Cuore di De Amicis e Pinocchio di Lorenzini/Collodi, li percepii e giudicai negativamente: fuffa dolciastra il primo, mentre il secondo mi consegnava l’immagine di un’Italia arcigna, rurale, povera. Esattamente quella che volevo lasciarmi alle spalle avendo intravisto dietro l’angolo un futuro ricco di ben altre possibilità e libertà.

Mi si attagliarono, invece, al punto da tornarci più e più volte in seguito, le pagine di taluni scrittori anglo-americani. In primis Mark Twain, di cui lessi sempre con particolare piacere i racconti, Le avventure di Tom Saywer e quelle di Hukleberry Finn - nascono lì i miei miti americani – e poi un libro di uno scrittore inglese, ingiustamente a mio parere considerato un minore: Jerome K. Jerome, i suoi Tre uomini in barca. Per lungo tempo, l’uno e l’altro hanno costituito i miei modelli di scrittura. Narrare col sorriso - non lo sghignazzo, il sorriso – alla maniera dello scrittore inglese e magari concludere con la battuta tagliente, irriverente, alla Twain.
Cosa resta ancora nella rete della memoria delle letture infantili? Un Giorgio Picchia, calciatore, di tal F. P. Trigona, Salani 1940, ancora intriso di umori antinglesi, nazionalisti e patriottardi eppure ben scritto, con un bel ritmo narrativo tanto da meritare gli elogi di uno storico e critico della letteratura per l’infanzia come Antonio Faeti e una citazione, lo lesse anche lui e gli piacque, di un insospettabile Francesco Guccini. Poi, ricompare la fantascienza, perché nella bibliotechina della parrocchia di Sant’Agnese, scampato alla censura dei preti e degli uomini d’Azione Cattolica, scovai e bevvi d’un fiato, in un pomeriggio strappato ai ben più noiosi doveri scolastici, una problematica e positivista Guerra dei mondi che distanziò di parecchie leghe i canovacci approssimativi dei pur amatissimi fascicoletti di Urania. Quindi, scovato nei modesti scaffali casalinghi, un londoniano Prima di Adamo cruenta descrizione dell’umanità barbara e feroce nella notte buia che precede la storia: non tutto mi fu chiaro, ma quello che compresi mi levò il sonno per giorni e giorni.

Da ultimo, sempre ritrovato in casa, un piccolo libriccino dalla copertina grigia delle Edizioni Cultura Sociale, figlio delle frequentazioni politiche di babbo. Titolo: I miei sette figli, scritto da un giornalista, Renato Nicolai dal racconto che un contadino emiliano, Alcide Cervi, gli aveva fatto della strage della sua famiglia, sette figli maschi ammazzati dai fascisti nel dicembre ‘44, colpevoli solo di aver difeso, in tempi difficili, la libertà e la giustizia. Non ne ho una nozione assolutamente precisa precisa, ma credo che fu allora che decisi che da grande sarei stato comunista.