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Piccolo galateo evoluzionistico

 

Galateo evoluzionistico

Piccolo galateo evoluzionistico

 

Fabio Fantini

 

 

Premessa

 

Da alcuni decenni si è affermata, tra i biologi evoluzionisti, una pratica di squisita cortesia e di rispetto dei diritti di tutte le specie, con ecumenico spirito evolutionarily correct. Tuttavia permane ancora qualche incertezza in alcuni giovani biologi, spesso indotti al dubbio, e magari all’eccesso di correctness, dalla lettura di opere di maldestri evoluzionisti (in genere tardo-ottocenteschi o proto-novecenteschi), prodighi di espressioni scorrette e irrispettose. Può forse essere non del tutto inutile, allora, una sintetica ricapitolazione delle principali norme del galateo evoluzionistico, applicate a otto casi paradigmatici.

 

Specie primitive

 

È contrario a ogni buona creanza definire una specie come «primitiva». La conservazione di plesiomorfie, caratteri identici a quelli di lontani antenati e rimasti immutati attraverso i processi evolutivi, indica che, nella nicchia occupata, quei caratteri si sono rivelati efficaci. I taxa ricchi di plesiomorfie hanno fatto tesoro delle antiche radici e non vanno visti come trafelati ritardatari che cercano di afferrare in corsa l’autobus della sopravvivenza senza avere pagato il biglietto. Definire un mammifero monotremo come un mammifero primitivo provocherebbe generali sollevamenti di sopracciglia e una palpabile disapprovazione, anche perché i mammiferi monotremi possono vantare molti caratteri assai specializzati. Se proprio volete esternare il vostro senso di superiorità per essere nati da un uovo senza guscio, potete sempre definire un ornitorinco come diversamente evoluto. Se diceste di un’echidna che appartiene a una specie primitiva, questa avrebbe tutto il diritto di rispondervi piccata «Primitivo sarà lei!».

 

Caratteri primitivi

 

In questo caso c’è maggiore tolleranza. Indicare un carattere come primitivo farà convenire con condiscendente gravità i vostri interlocutori, consapevoli della correttezza della terminologia e delle profonde implicazioni filogenetiche della vostra affermazione. Sarà apprezzato come affidabile indizio di bon ton il garbato accenno a caratteri primitivi presenti nella propria specie. Un umano, per esempio, potrebbe citare con eleganza le proprie plesiomorfie, come gli arti pentadattili, capaci di prensilità ma primitivi, in quanto a numero di dita, rispetto rispetto agli arti di un equino, dotati di un solo dito, splendida autapomorfia così adatta per il galoppo. Un equino, se volesse ricambiare la vostra dignitosa ammissione di inferiorità con un gesto di uguale magnanimità, potrebbe citare la posizione laterale dei propri occhi, che fornisce un campo visivo ampio quasi 360° ma è, ahilui, incapace di generare una visione tridimensionale.

 

Specie inferiori

 

Un’espressione di imbarazzato disappunto accoglie puntualmente, fra le persona a modo, ogni riferimento a taxa definiti come «inferiori». Il biologo evoluzionista attento a usare espressioni evolutionarily correct saprà evitare comode ma indelicate scorciatoie quali «animali inferiori» o «piante inferiori» per indicare, rispettivamente, Poriferi, Ctenofori e Cnidari oppure Muschi ed Epatiche. Si tratta di un’attenzione doppiamente necessaria. Per un verso, infatti, questi organismi possiedono, accanto a caratteristiche proprie di antenati molto antichi, adattamenti sorprendentemente specializzati. Per un secondo verso, il ricorso al termine «inferiori» rischia di innescare rappresentazioni mentali nelle quali l’evoluzione degli animali e delle piante «superiori» avrebbe avuto origine dai gruppi «inferiori», che rappresenterebbero pertanto una sorta di base di partenza dei percorsi evolutivi (ascendenti, naturalmente, ça va sans dire).

 

Fossili viventi

 

Provate a dire di qualche taxon che è un «fossile vivente». Anche in sua assenza, troverete sempre interlocutori pronti a dissentire sull’uso di quell’ossimorico appellativo. L’incapacità dei paleontologi di rintracciare reperti fossili recenti di una specie già presente negli strati più antichi di una sequenza stratigrafica, unita alla scoperta che organismi di quella stessa specie sono attualmente vivi e vegeti, può forse deporre a sfavore della completezza delle ricerche paleontologiche, certo non autorizza a usare un simile epiteto. La gratuita villania di indicare come «fossile vivente» un limulo, per la sola somiglianza morfologica con gli xifosuri vissuti 200 Ma fa o più, non solo trascura la continuità delle tracce fossili di questi organismi, ma anche i numerosi, originali adattamenti sviluppati dai limuli nel corso dei tempi. Ci vuole poco a sbeffeggiare quegli innocui animaletti, che non possono più farsi forti del sostegno dei loro temibili parenti: «Adesso chiamo mio cugino euripteride!» è una minaccia che al giorno d’oggi nessuno prenderebbe sul serio.

 

Specie «Lazzaro»

 

Le specie che sembrano riapparire improvvisamente dal passato dopo la presunta estinzione («una notizia fortemente esagerata», commenterebbero i diretti interessati sulla scia di Mark Twain) sono state scherzosamente battezzate «specie Lazzaro». A ben vedere, si tratta di una locuzione che tenta di smorzare l’effetto sgradevole di un appellativo come «fossile vivente», ma che rimane in ogni caso fonte di imbarazzo per i gesti apotropaici che induce negli interlocutori, in particolare se inseriti nella Lista Rossa compilata dalla Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Una «specie Lazzaro», ovviamente, non è una specie resuscitata, ma semplicemente sopravvissuta in un ambiente particolare e limitato, mentre si è estinta nella maggior parte degli ambienti in cui era diffusa. Vai però a farglielo capire, a un gipeto o a una lucertola delle Eolie…

 

Anello mancante

 

Ecco un’altra locuzione da evitare. Occorre confessare, però, che in questo caso, più che di galateo, si tratta di scaramanzia. Ogni volta che qualche organismo, fossile, vivente o fittizio (spiegherò tra breve), è stato proclamato «anello mancante» di una linea evolutiva, la sconfessione non è tardata. Ciò vale, in particolare, per la storia evolutiva cui siamo comprensibilmente più interessati, quella degli Hominina. Le puntuali smentite dei numerosi, entusiastici annunci di scoperte di «anelli mancanti» disseminati ora qua ora là nella filogenesi degli Hominina hanno reso molto cauti gli studiosi dell’evoluzione umana e hanno anche generato qualche dubbio sui meccanismi con cui si svolgono i processi evolutivi. La rappresentazione grafica oggi più comune della filogenesi degli Hominina è costituita da una serie di segmenti paralleli, la cui poco-euclidea convergenza verso punti più o meno lontani nel passato è lasciata immaginare, senza essere esplicitata. Häckel sarebbe inorridito, ma l’esperienza è stata maestra di prudenza per i suoi epigoni. Un reperto, rinvenuto nel 1912 nel Sussex orientale, avrebbe, in effetti, potuto meritare il titolo di «anello mancante», capace di documentare la remota esistenza di antenati a metà tra umani e scimmieschi. Come tutti sanno, però, era stato artificiosamente (e forse beffardamente) allestito con un cranio umano e una mandibola di orangutan. Un anello di equa congiunzione, riconosciamogli almeno questo merito!

 

Albero della vita

 

È noto come gli antichi eroi si presentassero vantando la propria ascendenza patrilineare, così come è noto un certo generico richiamo all’ascendenza matrilineare impiegato per insultare un rivale. Le parentele sono una questione delicata, da affrontare con tatto. La ricostruzione di una genealogia è un compito impegnativo quando riguarda una stirpe umana, figuriamoci quando l’ambizione si rivolge all’intero mondo dei viventi. La teoria dell’evoluzione per selezione naturale è un aiuto prezioso, grazie alla sua spontanea capacità di generare diagrammi ad albero. Potenti strumenti al servizio della descrizione delle relazioni evolutive, i diagrammi ad albero esprimono con sintetica e immediata potenza i rapporti di parentela fra taxa. Inoltre, un albero della vita con radice unica rappresenta efficacemente il fatto che tutti gli organismi viventi in un dato istante sulla Terra hanno alle spalle una storia evolutiva di uguale lunghezza; ovvero, per dirla in altre parole, sono tutti ugualmente evoluti, anche se hanno sviluppato (o conservato) adattamenti differenti. Nulla di sconveniente, quindi, a farne uso. Con una certa prudenza, però. Perché i rami dell’albero della vita, separati dalla divergenza in corrispondenza di un nodo, non sempre si mantengono incomunicanti. Trasferimenti orizzontali di materiale genetico e reincroci tra specie diverse rendono lo sviluppo dei rami aggrovigliato, con anastomosi che rimescolano le parentele e ci costringono ad abbandonare l’idea di uno sviluppo evolutivo per successive irreversibili dicotomie. Ciò riguarda in particolare i nostri parenti più lontani, stufi di essere accomunati ad altri lontani parenti, lontani a loro più ancora che a noi. Da tempo gli Eubatteri ci vanno dicendo che quello dei cosiddetti «Procarioti» è un gruppo parafiletico (un’offesa grave, nell’ambiente dei tassonomisti) e che gli Archei sono parenti più nostri che loro. Alla fine ce ne siamo convinti e abbiamo fatto la grande concessione di suddividere i viventi in tre domini, ma su un punto abbiamo dovuto cedere: gli Archei sono sul nostro ramo evolutivo, non sul loro!

 

Cladogrammi

 

I rapporti filogenetici sono oggi per lo più descritti mediante cladogrammi, diagrammi in prima approssimazione riportabili a quelli ad albero, ma con una sostanziale limitazione, perché indicano solo le relazioni fra «pacchetti» di caratteri. Ogni nodo di un cladogramma rappresenta un cambiamento evolutivo, cioè la comparsa, in uno o piu` taxa, di un carattere che si presenta in forma modificata (derivata o apomorfa) rispetto alla condizione originaria (conservata o plesiomorfa), che si e` mantenuta invece nel ramo fratello. Non ci sfuggirà, per fare un po’ il verso ai due più famosi biologi del ventesimo secolo, che se si prendono in esame pacchetti di caratteri diversi, potrebbero risultarne cladogrammi diversi. Non è arduo immaginare le contese tra evoluzionisti che ne conseguono. Malgrado la natura probabilistica delle attribuzioni di parentela inviti alla prudenza, i cladogrammi «fotografano» spesso clamorosi colpi di scena evolutivi. Memorabile fu lo smascheramento della natura parafiletica della classe rettili, con la conseguente ricollocazione degli uccelli come discendenti diretti dei dinosauri sauropodi. Un fatto che porta alcuni evoluzionisti con lievi tendenze paranoiche a guardare con sospetto i numerosi piccioni che si aggirano per campagne e città di tutto il mondo.