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Errare è umano, ma perseverare nell’errore talora è veramente inspiegabile.

 

 

 

Fig. 1 Ricostruzione virtuale del nuraghe Arrubiu di Orroli (da Perra, Lo Schiavo 2012)

Errare è umano, ma perseverare nell’errore talora è veramente inspiegabile

 

Tomaso Di Fraia

 

 

Scriveva Cicerone (Filippiche, XII. 5): Cuiusvis hominis est errare: nullius nisi insipientis, in errore perseverare (“Errare è cosa che capita a qualunque uomo, ma è solo dello stupido perseverare nell’errore”). La forma proverbiale di tale concetto, Errare humanum est, perseverare autem diabolicum (“Errare è umano, ma perseverare è diabolico”), sembra derivare da una frase di Sant’Agostino (Sermones 164, 14): Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere “ Errare è sempre stato proprio dell'uomo, ma è tipico del Diavolo insistere nell'errore per superbia”.

Questa premessa, un po’ pedante, mi serve soprattutto per soffermarmi sulla categoria del “diabolicum”, cioè “dovuto all’influenza del Diavolo”, che, come è noto, in ambito cristiano era utilizzata per classificare molti fenomeni negativi che non si riusciva a spiegare razionalmente.

 

Anch’io mi trovo di fronte ad un’analoga difficoltà, dopo aver visto la puntata del 14 novembre 2020 del programma televisivo Sapiens condotto da Mario Tozzi su RAI 3, puntata dedicata soprattutto alla fine della civiltà nuragica (Fig. 1), da lui attribuita ad uno tsunami. Si è trattato di una sorta di riedizione, pochissimo rivista e per niente aggiornata, di un’altra sua trasmissione andata in onda nel gennaio 2005, a cui allora avevo dedicato un pezzo, fortemente critico, su Naturalmente [1]. Di qui l’interrogativo: che cosa ha spinto il geologo e divulgatore Mario Tozzi, a distanza di 15 anni, a replicare sostanzialmente la stessa tesi? Per la verità una breve ricerca on-line mi ha permesso di verificare che non solo la prima trasmissione televisiva di Tozzi sull’argomento risale al 2002 (9 novembre, RAI 3, nel programma “Gaia”), ma che lo stesso Tozzi nel corso degli anni ha partecipato o organizzato eventi e spettacoli in cui ha continuato a ribadire le stesse idee. Dunque una perseveranza molto lunga nel tempo, ripetitiva e senza ombra di ripensamenti. Poiché possiamo escludere l’intervento del Diavolo, occorre cercare altri motivi che possano spiegare questo comportamento, ma prima è necessario riprendere i termini della questione.   

Il filo conduttore seguito da Tozzi nella puntata di Sapiens è ancora una volta il racconto di Platone sull’“isola di Atlante” [2], in cui il filosofo descrive la catastrofe di un’isola ricca e prospera che, per la superbia e l’aggressività dei suoi abitanti, viene punita dagli dei che la sprofondano negli abissi. Dopo aver esaminato due diversi scenari storici cui far corrispondere questo racconto mitico, cioè l’esplosione dell’isola di Thera intorno al 1620 a. C. e la fine della civiltà nuragica (collocata da Tozzi verso il 1200 a.C.), il nostro divulgatore opta per la seconda ipotesi. Mentre su molti punti rimando i lettori all’articolo citato sopra, cerco di affrontare qui qualche altro aspetto.

Intanto appare sconcertante il fatto che gran parte dei discorsi di Tozzi sia basata sulla lettera di quanto è raccontatto da Platone, cercando di far collimare tutti i dettagli del racconto con dati reali geografici, geologici, naturalistici e storici. Insomma, pur ammettendo egli stesso che Platone potrebbe aver creato soltanto una metafora composta di situazioni e comportamenti virtualmente possibili, ma non realmente accaduti, alla fine egli propone un’interpretazione del tutto realistica delle vicende narrate. Ripetutamente sottolinea che “sono tali e tanti i meccanismi di questo racconto”, che “si tratta di fonti reali e più concrete” (sic!) e affermazioni simili. Questa opzione urta però contro un dato del tutto incongruente: Platone colloca l’evento evocato nel racconto 9000 anni prima della morte di Socrate (399 a. C.), data della redazione del suo testo.

A questo punto Tozzi, chiuso nell’alternativa di rigettare come inverosimile tutto il racconto di Platone o di retrodatare gli eventi in un’epoca lontanissima e quindi non correlabile a realtà storiche note, cerca di sfuggirne mediante l’escamotage di considerare il numero 9000 non in termini di anni ma di mesi, ottenendo così una data in anni (1149 a. C.) che può ancora corrispondere a quella che lui considera la fine della civiltà nuragica. In realtà tale proposta è cervellotica e inverosimile, perché Platone  non avrebbe complicato i calcoli con un numero inutilmente altissimo, e inoltre è priva di qualunque fondamento storico. Infatti anzitutto nella Grecia antica non è documentato nessun uso del calcolo di tempi lunghi effettuato in mesi; oltretutto i mesi erano quelli lunari e quindi i loro semplici multipli avrebbero prodotto non un numero tondo espresso in anni, ma la complicazione di molti resti. Per tempi relativamente più vicini si faceva riferimento ai nomi dei magistrati annuali o alla distanza (misurata in “Olimpiadi”, cioè quadrienni) dalla prima Olimpiade. Ma soprattutto, se Platone avesse voluto indicare il XII secolo a. C., avrebbe potuto appoggiarsi alla guerra di Troia, un riferimento cronologico abbastanza diffuso anche se ancora non fissato ad annum, cosa che farà solo Eratostene nel terzo secolo a. C., indicando il 1184 a. C. Insomma quella di Tozzi resta una strampalata e inaccettabile ipotesi e pertanto la datazione di Platone corrisponde bene a una dimensione mitica di tutto il suo racconto.  

Per quanto concerne la documentazione della civiltà nuragica, Tozzi non indica nessuna fonte autorevole e credibile, ma cita solo un sito online (Nurnet), gestito da un’associazione di dilettanti.

In tutta la trasmissione, salvo errore, non è mai stata pronunciata la parola “archeologia” e solo una volta il termine “archeologi”, ma a proposito di un dettaglio (l’uso di bacili in pietra). Ma, aldilà delle questioni nominali, la cosa più grave è che Tozzi non abbia riportato nessun dato scientifico ottenuto dalle centinaia di scavi archeologici effettuati nei complessi nuragici, né alcuna interpretazione di tali contesti fornita da archeologi e geologi (quindi suoi colleghi). Questa rimozione è per me l’aspetto più inesplicabile del suo modo di procedere. Nel mio articolo del 2005 avevo prospettato tre possibili spiegazioni per questo comportamento. La prima è quella dichiarata dallo stesso Tozzi anche nell’ultima occasione, cioè di voler ripercorrere alcune delle immagini e degli archetipi attraverso cui gli uomini hanno interpretato il loro passato nelle diverse epoche. Questa finalità, per quanto incongrua per una persona che non è né uno storico né un antropologo, potrebbe avere un senso, ma in realtà Tozzi fa esattamente il contrario: anziché utilizzare dati archeologici, etnografici e antropologici per interpretare il mito, utilizza il mito per supportare presunti eventi storici!

Fig 2 Il vano scale a pianta trapezoidale del pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino (da Contu 1985)  

La seconda spiegazione è quella di una preventiva e totale rinuncia alle acquisizioni ottenute dagli archeologi, forse perché ritenute non rilevanti né particolarmente esplicative. Per la verità Tozzi non esplicita questa posizione, né tanto meno presenta critiche contro le ricostruzioni proposte dagli archeologi, tuttavia di fatto esclude l’apporto dell’archeologia, che, sembra di capire, avrebbe la colpa di non rispondere alle questioni da lui sollevate. Una curiosa spia di tale atteggiamento è il suggerimento di effettuare saggi di scavo e carotaggi (nei siti da lui indicati come possibili testimoni di uno tsunami) per verificare se i depositi sono di origine marina. A questo proposito appare incredibile il modo in cui Tozzi qualifica i depositi che coprivano e in diversi casi ancora coprono parte dei complessi nuragici: “fango”, semplicemente fango, parola ripetuta decine di volte, come prima di lui aveva fatto Sergio Frau. Ora né un archeologo, né tanto meno un geologo si permetterebbe mai di usare questo termine, nemmeno in un programma divulgativo, se non avesse prove concrete (analisi sedimentologiche, mineralogiche ecc.) che si tratti del risultato di particolari alluvioni e che esso caratterizzi molti siti archeologici. Ma Tozzi non presenta il briciolo di una prova in questo senso e anzi, come abbiamo appena detto, arriva persino a capovolgere l’onere della prova (chi non è d’accordo con la sua tesi dovrebbe dimostrare che i depositi che ricoprono o ricoprivano diversi nuraghi non sono di origine marina) cercando così maldestramente di mascherare l’assoluta assenza di prove che attestino la presenza di sedimenti marini. Anche l’intervento in trasmissione del prof. Stefano Tinti, docente di geofisica all’università di Bologna, finisce per confutare l’ipotesi di un maremoto causato dalla caduta di un meteorite, in quanto non è stata trovata la minima traccia di un evento del genere. A questo punto è utile riportare qualche passaggio dell’Appello degli studiosi del 2004, citato nella nota 2: “.. sulla base dei risultati acquisiti in circa 200 anni dalla ricerca archeologica e geologica, è possibile affermare che non esiste in Sardegna alcun indizio di un’ipotetica inondazione provocata da un fenomeno geologico ipoteticamente verificatosi nei mari circostanti la Sardegna intorno all’anno 1175 a.C.”; “.. tutti i nuraghi si presentano danneggiati in misura dipendente dai tipi di pietra impiegati, dai vari fattori di dissesto (imperfezioni strutturali, agenti atmosferici e altri agenti naturali come le radici degli alberi, demolizioni intenzionali) e infine dal plurimillenario prelievo di materiale lapideo per la costruzione di fabbricati di età successiva … Quel che ricopre non solo i nuraghi del Bronzo Medio e Recente, ma anche gli insediamenti del Bronzo Medio, Recente e Finale e dell’età del Ferro …non è “fango”: sono invece diversi strati di crollo e di ricostruzione, riferibili a molte fasi scaglionate nel tempo.” A proposito di quest’ultima affermazione possiamo aggiungere che oggi gli archeologi sono sostanzialmente concordi sulla collocazione cronologica delle costruzioni nuragiche: i nuraghi furono costruiti almeno dal XVI secolo a. C., mentre la realizzazione di nuovi nuraghi si interrompe tra la fine del Bronzo recente e gli inizi del Bronzo finale (cioè intorno al 1150 a. C.). E’ possibile che in questa fase, o forse anche precedentemente, alcuni nuraghi siano addirittura rimasti incompiuti. Ma durante il Bronzo finale e ancora nell’età del Ferro si creano nuovi insediamenti, o si ampliano quelli esistenti presso i nuraghi, i nuraghi stessi subiscono modifiche o integrazioni, come ulteriori recinzioni murarie; alcuni vengono abbandonati temporaneamente o definitivamente, molti sono riutilizzati con funzioni diverse: “i dati archeologici evidenziano nuove o rinnovate destinazioni d’uso di alcuni ambienti, per l’immagazzinamento e conservazione di derrate, per la tesaurizzazione, per le espressioni rituali[3]. Inoltre vengono costruiti pozzi sacri (Fig. 2) e santuari.

 

Tutto ciò dimostra che la civiltà nuragica conservava notevoli energie e potenzialità produttive, oltre a una forte identità culturale, pur in un quadro complessivo che sia per ragioni interne che per influssi esterni attraversava forti trasformazioni. Particolarmente interessante è il fatto che proprio con il Bronzo finale si diffonde in varie forme la riproduzione simbolica del nuraghe. “L’emblema-nuraghe risponde allo scopo di disporre di un oggetto che sia rappresentativo del gruppo eminente e riconoscibile dalla comunità, quale espressione dell’unità sociale e dell’autodeterminazione della forza collettiva. Esistono riproduzioni in bronzo, in pietra, in ceramica, che rappresentano il nuraghe in tutti i suoi elementi distintivi, ma la torre nuragica stilizzata è riconoscibile anche sulla sommità dei bottoni in bronzo, come albero maestro e come cassero delle navicelle in bronzo, nelle decorazioni incise o a rilievo su particolari fogge di vasi in ceramica, come coppe su piede e anfore con finto versatoio. Ai modelli di dimensioni ridotte in ceramica, in pietra e in bronzo, che compaiono come offerte votive, forse intese anche come doni per rafforzare i legami sociali, si affiancano i modelli-simulacro in pietra che possono raggiungere dimensioni ragguardevoli…” [4] (Fig. 3). 

 

Fig. 3 Estremità absidata del santuario di S’Arcu e is Forros (Villagrande-Strisàili). In alto al centro si riconosce un bacile-focolare in pietra che riproduce la sommità di una torre nuragica (da Congiu 2012)  

Nella narrazione di Tozzi questa complessità, che poi è la carne e il sangue della storia, è completamente assente, e dunque nella sua narrazione non vi è nemmeno la parvenza di una divulgazione non dico scientifica, ma almeno vagamente informativa, cosa tanto più grave in quanto la trasmissione  è prodotta all’interno del servizio pubblico. Nella sua presentazione la storia dei nuraghi è ipersemplificata e cristallizzata come una vicenda lineare che, iniziata nel XVI secolo a. C., si sarebbe interrotta bruscamente e meccanicamente verso il 1200 a. C.

Purtroppo si arriva anche alla vera e propria disinformazione, perché il discorso è costellato di affermazioni non vere, buttate lì senza ulteriori spiegazioni, come: “civiltà che scompare quasi di colpo”, “i nuragici in parte si sposteranno verso l’interno, in parte emigreranno”, “quella nuragica è la più antica civiltà d’Europa”, “la storia antica della Sardegna è troppo poco studiata” eccetera.

L’impressione complessiva è quello di una persona, un ricercatore, che si fa scudo delle sue competenze scientifiche (nel proprio campo, cioè la geologia) e soprattutto della sua riconoscibilità mediatica per sostenere posizioni prive di consistenza scientifica in un campo, l’archeologia, che (mi scuso per l’insistenza) sembra totalmente (voler?) ignorare. Ma a questo punto entriamo già nel campo delle valutazioni soggettive e delle possibili implicazioni psicologiche, di cui non posso certo occuparmi. Anche il riferimento a figure di sicuro prestigio, come lo storico Luciano Canfora e l’archeologo Andrea Carandini, è utilizzato in modo potenzialmente fuorviante, perché questi due studiosi hanno espresso interesse o consenso limitatamente alla proposta di Sergio Frau circa una diversa collocazione delle cosiddette “Colonne d’Ercole”, non certo all’interpretazione della fine della civiltà nuragica. 

Per concludere queste amare riflessioni, considerato che dopo diciotto anni è molto difficile che Mario Tozzi voglia non dico riconoscere di aver condiviso e propalato interpretazioni prive di fondamento, ma nemmeno affrontare qualche contraddittorio serio, l’unico obbiettivo realistico è quello da una parte di insistere nell’opera di smascheramento di tali operazioni truffaldine, dall’altra di organizzarsi per pretendere che si rafforzino i controlli sull’attendibilità scientifica di quello che viene diffuso attraverso il mezzo televisivo, che nonostante il dilagare della comunicazione in rete produce ancora un impatto significativo su determinate fasce di pubblico.    

 

 

 

 

 

                                                                                          

 

Riferimenti bibliografici

 

Congiu G., Un nuovo tempio “a megaron” a S’Arcu ’e is Forros-Villagrande Strisàili, Atti della XLIV Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e protostoria, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna, Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009, Vol. IV (CD), Posters, Firenze: 1471-1476, 2012.

 

Contu E., L’architettura nuragica, in ICHNUSSA La Sardegna dalle origini all’età classica, Garzanti-Scheiwiller, Milano: 5-176, 1985.

 

Di Fraia T., Tra epistemologia e buonsenso. Ancora su Atlantide e altri misteri non per caso, Naturalmente, n. 1, febbraio 2005: 28-33, 2005.

 

Perra M., Lo Schiavo F., I ripostigli del nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro), Atti della XLIV Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e protostoria, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna, Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009, Vol. IV, Posters, Firenze: 1591-1594, 2012.  

 

Vanzetti A., Castangia G., Depalmas A., Ialongo N., Leonelli V., Perra M., Usai A., Complessi fortificati della Sardegna e delle isole del Mediterraneo occidentale nella protostoria, Scienze dell’Antichità, 19. 2/3-2013: 83-123, 2014.

 

Note 


[1] Di Fraia 2005; chi avesse difficoltà a ritrovare il numero della rivista, può scaricare l’articolo da: https://www.researchgate.net/publication/301489896_Tra_epistemologia_e_buonsenso_Ancora_su_Atlantide_e_altri_misteri_non_per_caso.

L’articolo era accompagnato da un “Appello” sottoscritto nel 2004 da oltre trecento studiosi di scienze dell’antichità del mondo mediterraneo, in cui si contesta la tesi di un evento catastrofico come spiegazione della fine della civiltà nuragica, tesi elaborata per la prima volta dal giornalista Sergio Frau.

[2] Nel dialogo Timeo e soprattutto nell’incompiuto Crizia.

[3] Vanzetti et alii 2014,  p. 115

[4] Vanzetti et alii 2014,  p. 115