Comunicazione e Linguaggio
Marirosa Di Stefano
Anche se siamo l’unica specie a parlare, condividiamo con molte, se non con tutte le altre, la capacità di comunicare con i nostri simili.
Limitando il discorso ai primati non umani, oggi sappiamo che le loro vocalizzazioni hanno sofisticate proprietà comunicative. I richiami delle scimmie comprendono grida, schiamazzi, grugniti e guaiti spesso emessi con grande potenza di suono per poter trasmettere informazioni specifiche anche a lunga distanza. I richiami di allarme si differenziano tra loro per segnalare il tipo di pericolo da cui guardarsi (un leopardo in agguato, un serpente che striscia nell’erba) oppure per informare sui limiti della territorialità; ma molte altre espressioni vocali trasmettono stati emozionali(1). Suoni diversi comunicano paura, sottomissione, minaccia, oppure indicano una richiesta, di gioco, di collaborazione o di contatto fisico tramite il grooming. Il grooming è la pulizia della pelle dai parassiti che le scimmie si praticano a vicenda; occupa una larga parte del loro tempo ed è considerata un legante sociale all’interno del gruppo. La pratica del grooming infatti servirebbe soprattutto a stabilire o a rafforzare legami e a comporre conflitti tra gli individui. Le scimmie accompagnano questo prolungato contatto fisico con l’emissione di suoni modulati, una sorta di chiacchiericcio dai toni bassi e caldi apparentemente privo di scopo; alcuni hanno suggerito che in queste particolari vocalizzazioni si possa riconoscere un precursore del linguaggio articolato(2).
Il linguaggio umano è comparso tra 250 e 100 mila anni fa ed è dunque un’acquisizione relativamente recente.
Quello che distingue il linguaggio dalle altre forme di comunicazione è la sua natura simbolica. Le parole sono simboli, associazioni arbitrarie tra un suono e un significato indipendenti dal contesto. Con le parole, infatti si rappresentano cose che possono non essere presenti nell’ambiente dei parlanti e ci si riferisce ad eventi già accaduti o che possono accadere. Ma le parole da sole non bastano a fare un linguaggio: vanno organizzate in “stringhe” il cui significato dipende dalla sintassi (che regola la formazione delle frasi) e dalla grammatica (che è il complesso di norme che combinano gli elementi sonori in parole).
Le origini e meccanismi del linguaggio sono tutt’ora oggetto di speculazione. Mentre i neuroscienziati studiano le strutture e i circuiti cerebrali la cui lesione comporta la perdita della produzione e/o della comprensione del linguaggio, gli psicolinguisti analizzano il parlato di comunità umane isolate (come alcune tribù amazzoniche e di Papua Nuova Guinea) alla ricerca degli elementi strutturali delle lingue.
Gli studi concordano nell’indicare che tutti i linguaggi umani utilizzano le stesse aree del cervello e presentano una struttura comune, universale, basata su una convenzione che stabilisce il nesso tra suono ed oggetto o tra suono ed azione e posseggono una grammatica(3).
Poiché il cervello non fossilizza non è possibile risalire agli stadi evolutivi del linguaggio nel genere Homo attraverso i reperti paleontologici. Un tentativo è stato fatto confrontando nei teschi degli ominidi la forma e la profondità delle impronte che le circonvoluzioni cerebrali lasciano sul cranio. Nell’Homo abilis le impronte corrispondenti alle aree cerebrali che nell’uomo moderno sono deputate al linguaggio appaiono visibili e hanno dimensioni maggiori nell’emisfero sinistro. Sebbene non si possa essere certi che quelle aree fossero già adibite al linguaggio, è suggestivo che anche nei nostri più lontani antenati sia presente una differenziazione tra le due metà del cervello analoga a quella che osserviamo oggi. Nella stragrande maggioranza della popolazione umana infatti l’emisfero sinistro è la sede del linguaggio e questo vale non solo per il linguaggio verbale ma anche per il linguaggio dei segni praticato dai non udenti.
Si potrebbe pensare che, se il linguaggio umano si è evoluto con un meccanismo di selezione naturale di tipo darwiniano, esso debba avere avuto un precursore negli altri animali. La teoria evolutiva del linguaggio ipotizza che si sia sviluppato a partire da una modalità di comunicazione gestuale. Si tratta di un’idea espressa per la prima volta quasi tre secoli fa(4) e ripresa con poche modifiche fino ad oggi(5). Le principali osservazioni a favore di un’origine gestuale del linguaggio sono 1) il bipedismo, che ha liberato le mani prima impegnate nella deambulazione, è emerso relativamente presto, prima che il tratto vocale assumesse la forma che permette di parlare; 2) nei primati non umani la gestualità è molto più ricca e variegata di quanto non siano le loro vocalizzazioni; 3) sia in cattività che nel loro habitat, le grandi scimmie fanno spesso gesti intenzionali diretti a ottenere specifiche risposte comportamentali dai loro simili.
È stata proprio la capacità gestuale delle scimmie che - a partire dagli anni ’60 del secolo scorso - ha indirizzato le ricerche verso l’insegnamento della lingua dei segni a scimpanzé e bonobo. I risultati però non sono stati così soddisfacenti come ci si sarebbe aspettati. Dopo anni di intenso training alcune delle scimmie hanno imparato non più di 120-130 parole ma nessuna regola grammaticale e usavano spontaneamente i segni solo per comunicare bisogni elementari (ho fame, ho sete, fammi le coccole). È andata un po' meglio quando l’insegnamento del linguaggio è avvenuto tramite lessigrammi, cioè simboli visivi corrispondenti a specifiche parole o azioni, applicati su tasti che l’animale imparava a premere. Kanzi, un bonobo addestrato fin dall’infanzia, è certamente la star tra i primati a cui è stato insegnato a comunicare tramite i lessigrammi. A sei anni Kanzi padroneggiava 150 simboli e poteva fare richieste specifiche di cibo o chiedere di essere condotto in specifici posti o di incontrare determinate persone. Ma nell’insieme la sua capacità di linguaggio era paragonabile a quella di un bambino di due anni(6).
Molti primatologi, nel commentare il complesso dei risultati ottenuti finora, hanno concluso che seppure le scimmie possono imparare una qualche primitiva forma di linguaggio danno l’impressione di non sapere che farsene(7); d’altro canto però la loro comprensione delle istruzioni verbali degli umani con cui interagiscono è in genere nettamente superiore alla loro capacità di comunicare(8).
Coloro che ritengono il linguaggio una peculiarità dell’uomo considerano i sistemi di comunicazione delle specie non umane, anche quelli delle scimmie e dei delfini, stereotipati e ripetitivi privi cioè di quella capacità di combinare, in misura praticamente illimitata, elementi distinti ciascuno dei quali ha un senso compiuto, che è propria del linguaggio umano. In questa luce viene esclusa un’origine evolutiva del linguaggio a favore di una transizione improvvisa che ha reso l’uomo capace di parlare. È quello che sostiene Noam Chomsky secondo cui nel cervello umano, in qualche momento del suo sviluppo, si è verificato un repentino mutamento strutturale che ha comportato la comparsa di un sistema neurale da cui dipende l’acquisizione del linguaggio. Questo dispositivo detto LAD (Language Acquisition Device) sarebbe un sistema autonomo, indipendente dagli altri sistemi cognitivi e percettivi del cervello. Può essere descritto come un programma biologico che permette di apprendere ogni linguaggio umano, dal momento che la struttura profonda di tutte le lingue è la stessa. Esisterebbe cioè una grammatica universale di cui il LAD è la base biologica.
La teoria di Chomsky(9) è molto complessa; non è esente da critiche da parte di alcuni linguisti ed è rifiutata dagli psicologi evolutivi(10) che definiscono “miracolista” l’idea che le funzioni linguistiche siano emerse all’improvviso - come per effetto di una sorta di big bang nel cervello - a seguito di una mutazione che Chomsky suggerisce sia avvenuta al tempo in cui i nostri progenitori hanno lasciato l’Africa.
Il dato principale che supporta l’idea di un meccanismo innato per l’acquisizione del linguaggio è fornito dagli esperimenti condotti sui bambini molto piccoli. Nei primissimi mesi di vita i bambini sono in grado di distinguere i suoni caratteristici del linguaggio, compresi suoni che non appartengono al linguaggio dei genitori e che i genitori stessi non sono in grado di distinguere (per esempio i bambini europei percepiscono le differenze tra elementi fonetici del linguaggio eskimo che appaiono indistinguibili agli adulti(11)). Intorno all’anno di età questa capacità viene perduta e la percezione del linguaggio si sintonizza con quello che viene parlato nell’ambiente in cui vive il bambino.
Per acquisire il linguaggio però i meccanismi innati non bastano. È vero che i bambini imparano a parlare e a padroneggiare le strutture grammaticali di una lingua senza bisogno di un insegnamento specifico ma per farlo è necessario che siano esposti al linguaggio. I cosiddetti “bambini selvaggi” o quelli allevati in ambiente silente da genitori sordomuti sono sempre muti.
L’alternativa più recente alla concezione di Chomsky del linguaggio come manifestazione di regole innate è quella offerta da Daniel Dor(12) secondo cui il linguaggio è il prodotto di una tecnologia, e quindi il risultato di un apprendimento. Per Daniel Dor il linguaggio è una tecnologia comunicativa (la prima, tra le tante inventate dalla nostra specie) e, al pari di ogni innovazione tecnologica, lo sviluppo del linguaggio e` la risposta a una pressione evolutiva. A dare impulso allo sviluppo del linguaggio e` stata la necessita`, necessita` pratica – di migliorare la capacita` di interazione con i propri simili, di condividere pensieri ed esperienze: dunque, un fattore esterno, non un mero processo neurologico. Riassumendo a grandi linee l’ipotesi di Dor si può dire che il linguaggio rappresenta uno strumento sociale e la funzione delle parole e` quella di attivare e guidare l’immaginazione del destinatario. Seguendo quelle direttive, egli cerchera` di riprodurre nella propria mente i significati che il parlante ha ricavato dalle proprie esperienze. È probabile che il lavoro di Daniel Dor costituisca un nuovo punto di partenza per gli studi sul linguaggio che sono invitati a cercarne l’origine non dentro i parlanti ma tra di loro e la sua essenza nella vita sociale, non nella mente.
Note
(1) Arcadi AC, Language evolution: what chimpamzee have to say, Current Biol 15:885-886, 2005.
(2) Dunbar R, Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue, Longanesi, 1998.
(3) Tattersal I, The material record and the antiquity of language, Neuros Biobehav Rev 81:247-254, , 2017.
(4) de Condillac EB, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, 1746 (trad. it. Utet, 1976).
(5) Corballis MC, La verità sul linguaggio (per quel che ne so), Carocci, 2020.
(6) Rumbaugh DM, Language learning by a chimpanzee. The LANA Project, Ed Academy Press NY, 1977; Font RS and Waters GS, Chimpanzee sign language and Darwinian continuity, Neurol Res 23:787-794, 2001.
(7) Pinker S, The language instinct, Ed Morrow NY 1994.
(8) Savage-Rumbaugh ES, Language comprehension in ape and child, Univ Chicago Press, 1993. 9[1] Chomski N, Riflessioni sul linguaggio, Einaudi, 1981.
(9) Chomski N, Riflessioni sul linguaggio, Einaudi, 1981.
(10) Tomasello M, Le origini della comunicazione umana, Cortina, 2009.
(11) Poiché i neonati non parlano e non sono in grado di seguire le istruzioni i ricercatori hanno dovuto individuare un metodo per valutare la loro capacità di percepire il linguaggio. L’atto del succhiare è la chiave per accedere alla mente dei neonati: quando sono interessati a qualcosa succhiano più velocemente e riducono il ritmo di suzione quando l’interesse scema. Mediante un ciuccio in grado di registrare la frequenza di suzione fu determinata prima di tutto la frequenza di base misurata mentre i soggetti (bambini di 1 mese e di 4 mesi di età) erano tenuti in un ambiente tranquillo e privo di stimoli acustici. Poi ai bambini veniva fatta sentire una stessa sillaba (per esempio “ba”) per cinque minuti. Durante i primi due-tre minuti di ascolto la frequenza di suzione diventava pressoché doppia, dopo di che rallentava fino al valore di base. I bambini si erano abituati alla sillaba ripetitiva. A quel punto e senza interruzione veniva presentata per i cinque minuti successivi una sillaba diversa (per esempio “pa”). La frequenza di suzione tornava a salire, indicando che i bambini percepivano la differenza tra le due sillabe. Gevain J et al., The neonate brain detects speech structure, Proc Natl Acad Sci USA 105:1422-1427, 2008.
(12) Dor D, The instruction of imagination: Language as a social communication technology, Oxford University Press, 2015.