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La nozione di apoptosi

 

La nozione di apoptosi

 

A partire da La sculpture du vivant di Jean Claude Ameisen

 

Adriano Leonardo Scapicchi (*)

 

 

Introduzione

 

Con il presente lavoro si intende ripercorrere brevemente le analisi di Jean Claude Ameisen, raccolte nel libro La sculpture du vivant, sul fenomeno della morte cellulare programmata o suicidio cellulare altruistico, noto come apoptosi1, con l’obiettivo di mostrare in che modo questo si configuri come l’ex-attamento di un programma di morte cellulare risalente ai primi legami simbiotici, in particolare ai moduli di dipendenza (addiction module), tra batteri e plasmidi. Dopo aver presentato brevemente alcune caratteristiche del fenomeno apoptotico e rintracciato, da un punto di vista storico-evolutivo, le origini di questa tipologia di morte cellulare, si cercherà, inoltre, di inquadrarlo come vincolo evolutivo del vivente.

 

 

L’apoptosi come riconfigurazione del plesso vita-morte

 

L’opposizione radicale, tanto ovvia quanto problematica, tra le nozioni di vita e di morte è reinterrogata da Jean Claude Ameisen a partire da un fenomeno scoperto all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso: l’apoptosi. Una cellula o un gruppo di cellule, in risposta a segnali provenienti dall’ambiente cellulare circostante, producono delle proteine (proteasi, caspasi) che portano in poco tempo all’interruzione prematura delle loro stesse funzioni biologiche. Si tratta di un processo che porta alla morte sia cellule sane che cellule malate ed è essenziale per il corretto sviluppo dell’organismo e per la sua stessa sopravvivenza. È importante sottolineare come non si tratti di un fenomeno di morte cellulare che avviene a causa di eventi traumatici accidentali esterni alla cellula ? come nel caso della necrosi ? ma per la diretta attuazione di un programma autodistruttivo inscritto all’ interno dei geni stessi della cellula, attivato da determinati segnali dell’organismo. Per questo motivo, ovvero per la presenza di tale programma genetico, l’apoptosi è altrimenti nota col termine di morte cellulare programmata o suicidio cellulare.

Poiché si tratta di un fenomeno necessario per far sì che l’organismo si sviluppi correttamente e possa sopravvivere, si può parlare di “suicidio altruistico” dal momento la cellula si sacrifica “intenzionalmente” per il benessere dell’intero organismo. Il termine "suicidio” potrebbe apparire di primo acchito improprio, in quanto presupporrebbe un potere decisionale che una cellula a rigore non ha; tuttavia, le ragioni di tale scelta terminologica sono dovute al fatto che la cellula «interpreta e integra i segnali che riceve dal suo ambiente, e risponde. Il risultato ? l’attuazione o meno del suicidio ? rassomiglia ad una decisione. Il termine “decisione” può avere un significato scientificamente neutro. Traduce allora semplicemente l’idea che la risposta di una cellula alle modifiche del suo ambiente non sia univoca»2.

La scoperta di tali fenomeni apoptotici ha gettato luce, in primo luogo, nel campo dell’embriologia in cui, fino agli anni Sessanta, erano già stati attestati episodi massivi di morte cellulare nelle fasi di sviluppo dell’embrione ma sempre derubricati a «incidenti che scaturiscono da difetti aleatori di “fabbricazione”, errori inevitabili dovuti all’enorme produzione di cellule necessaria alla costruzione di un embrione»3 Solo un decennio più tardi si comprese come tali fenomeni non fossero dovuti a cause di natura accidentale ma a episodi di morte cellulare programmata – apoptotici, quindi – che avvenivano in tutti gli embrioni di tutte le specie viventi, e che, negli embrioni di una stessa specie, si verificavano nelle stesse fasi e secondo le stesse modalità4.

Lungi dunque dall’essere alcunché di contingente, tale tipologia di morte cellulare riveste un’importanza decisiva nella formazione dell’embrione; per la prima volta si intravide come la morte cellulare programmata fosse necessaria alla vita dell’organismo in via di formazione e che una compromissione dei normali processi apoptotici avrebbe portato a malformazioni o alla morte dello stesso. In poco più di un decennio, inoltre, l’apoptosi divenne un oggetto specifico di indagine nel campo dell’immunologia5: si scoprì come una deregolazione dei processi apoptotici portasse all’insorgenza di malattie autoimmuni o all’inefficienza del sistema immunitario. Negli stessi anni, inoltre, anche le ricerche in campo oncologico mostrarono come un’interruzione anomala della morte programmata delle cellule provocasse la formazione di tumori6: «Una cellula tumorale è una cellula che giorno dopo giorno fabbrica delle proteine “protettrici” che le permettono di scappare alla “morte prima del tempo”»7 che dividendosi viene a costituire una massa tumorale, potenziale minaccia per l’organismo».

Non potendo trattare in questo lavoro l’insieme delle patologie analizzate nel libro di Ameisen ? legate a un disequilibrio apoptotico ? né tanto meno esaurire la complessità e l’importanza del ruolo che questo fenomeno di morte cellulare riveste per l’organismo, ci si limiterà a presentare alcune delle principali caratteristiche dell’apoptosi per capire in che modo questo programma autodistruttivo consenta di riarticolare il plesso vita-morte al di là di una rigida contrapposizione tra i due termini.

Secondo Ameisen, tale “antagonismo assoluto”8 costituirebbe il cardine della concezione ordinaria della relazione che intercorre tra i due termini e sarebbe esemplificata da due brevi citazioni: «la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte»9 (Xavier Bichat); «Riguardo alla morte, essa non implica alcuna positività di sorta: il vivente è alle prese con la sterile e mortale antitesi e si difende disperatamente contro il non-essere; la morte è la pura, l’assoluta impossibilità di realizzarsi»10 (Jankélévitch). In tale prospettiva teorica, la morte ricade necessariamente al di fuori della sfera della vita, come sua ineluttabile conclusione; essa infatti non sarebbe altro che un elemento esterno, antitetico, rispetto al quale l’elemento positivo della vita si scherma e resiste. Tuttavia, la linea netta di demarcazione tra i due termini sfuma rapidamente quando ad essere presa in considerazione è l’unità morfologica e fisiologica minima del vivente: la cellula. 

 

Oggi sappiamo che tutte le nostre cellule possiedono, in ogni momento, il potere di autodistruggersi nell’arco di poche ore. A partire dalle informazioni contenute nei loro geni ? nei nostri geni ? le nostre cellule producono costantemente gli “esecutori” capaci di affrettare la loro fine e i “protettori” capaci di neutralizzarli. E la sopravvivenza di ciascuna cellula dipende, giorno dopo giorno, dalla sua capacità di percepire nell’ambiente del nostro corpo i segnali emessi da altre cellule che le consentono di reprimere l’attivazione della propria

autodistruzione.11

 

A partire da alcune informazioni genetiche, la cellula produce costantemente delle proteine che inducono l’apoptosi (proteine “esecutrici” o pro-apoptotiche) e delle proteine (“protettrici” o anti- apoptotiche) che contrastano l’effetto delle prime. È sufficiente che la produzione di questa seconda tipologia di proteine sia interrotta perché le prime causino la morte della cellula per apoptosi. Vi è un equilibrio dinamico continuo, ininterrotto tra componenti dall’effetto contrastante, una autodistruttiva e l’altra conservativa. A svolgere una funzione mediatrice centrale tra le due vi è una terzo gruppo di proteine, le proteine “attivatrici”, che fa sì che siano quelle “effettrici” ad esercitare il proprio potere autodistruttivo, o le “protettrici” ad impedirne gli effetti. Queste tre tipologie di proteine sono prodotte a partire da alcune informazioni genetiche per tutto l’arco della vita della cellula. Benché la natura delle proteine possa cambiare a seconda della specie e possa presentare maggiore o minore grado di parentela con altre proteine di un’altra specie, questo programma genetico è stato rintracciato in tutto il regno animale e vegetale, nella maggior parte di lieviti e batteri, quindi in cellule procariotiche ed eucariotiche.

È possibile osservare che tale “potere autodistruttivo” caratterizzi strutturalmente la cellula e che esso giunga a compimento solo nel processo apoptotico in quanto tale. L’apoptosi non è semplicemente dunque un fenomeno di morte che sopraggiunge in un determinato momento della vita della cellula a sigillarne la fine (una morte pro-grammata nel senso di pre-scritta e in attesa di realizzazione); è una possibilità in-scritta che, sin dai primi istanti della vita della cellula, è già da sempre presente. Presente e, allo stesso tempo, costantemente neutralizzata, presente come neutralizzata, repressa fino al giorno in cui la cellula non attuerà il suicidio a seguito della ricezione di un segnale di morte.

Il quadro fin qui delineato consente già di intravedere in che modo si possa riconfigurare l’opposizione vita-morte. Per una cellula, la vita è intrinsecamente legata al suo opposto: essa è infatti possibile solo come continuo differimento della morte programmata, ovvero soltanto nella misura in cui il programma genetico suicidario sia continuamente represso: «Vivere per ogni cellula significa, ad ogni istante, essere riuscita a reprimere l’attuazione del suicidio»12; la morte invece viene a configurarsi come l’interruzione del processo di neutralizzazione stesso, ovvero come l’arresto del differimento. Prosegue Ameisen:

  

Queste nuove nozioni hanno cominciato a trasformare la nozione stessa di vita. In maniera inquietante, contro-intuitiva, paradossale, un evento percepito finora come positivo ? la vita ? sembra risultare dalla negazione di un evento negativo ? l’autodistruzione. E un evento percepito finora come individuale, la vita sembra necessitare la presenza continua degli altri ? e non poter essere concepita se non come un’avventura collettiva. Per ciascuna delle nostre cellule, vivere significa essere riuscita ad impedire per un certo tempo il suicidio13

 

 

Non vi sarebbe una rigida contrapposizione tra un elemento positivo ? la vita ? e uno negativo ? la morte ?, ma un intreccio indissolubile di negazioni reciproche: la vita per la cellula risulterebbe dalla “negazione di un’altra negazione”, ovvero dalla repressione costante della propria autodistruzione, dal rinvio della sua stessa morte; al contrario, la morte verrebbe a delinearsi come l’interruzione definitiva di tale dinamica repressiva, quindi come la «repressione della repressione del suicidio, ovvero della negazione della negazione di una negazione»14.

Questo rapporto di co-implicazione strutturale tra la vita e la morte della cellula si riflette anche al livello dei legami che questa intesse con le altre cellule e con l’ambiente circostante. L’apoptosi, infatti, rivela chiaramente come la vita di una cellula non possa essere pensata se non in termini relazionali: è solo grazie alla natura dei segnali che le arrivano dalle altre cellule e dall’organismo che la cellula può reprimere il suicidio e continuare a vivere, oppure interrompere questa stessa repressione e quindi morire. In assenza di tali segnali, la cellula va necessariamente incontro alla morte programmata: «Ogni cellula trapiantata, fuori da un corpo, in una serra artificiale, in presenza di una quantità sufficiente di nutrimenti, si autodistruggerebbe nell’arco di poche ore qualora non trovasse i segnali emessi da altre cellule che le consentono, nel corpo che abita, di reprimere l’attuazione del suicidio»15. Né l’insieme delle condizioni favorevoli alla sopravvivenza della cellula né la presenza degli elementi nutritivi indispensabili per le sue funzioni metaboliche sono fattori di per sé sufficienti. Il destino individuale di una cellula sottende necessariamente una dimensione relazionale che vincola la sua sopravvivenza a quella delle cellule che la circondano.

Il termine suicidio, quindi, dà a pensare prima di tutto la rottura di un legame, letteralmente, il tagliar-si (sui-cidium) fuori da un tessuto di relazioni: «La cellula che attua il suicidio comincia innanzitutto col tagliare ogni contatto col suo ambiente, poi […] condensa, frammenta il suo nucleo, facendo a pezzi l’insieme della biblioteca dei suoi geni »16. Rottura dei legami che la cellula opera a favore dell’insieme di quelle circostanti, sia che si tratti di organismi pluricellulari che beneficiano dell’apoptosi per i processi di formazione dell’embrione e della rigenerazione cellulare, sia che si tratti di microrganismi unicellulari, in cui il suicidio cellulare consente la formazione di colonie e il relativo sostentamento in determinati casi17.

Dopo aver presentato le analisi di Ameisen sulla co-implicazione strutturale del nodo vita-morte che il suicidio “altruistico” della cellula dà a vedere, è ora necessario rileggere questo fenomeno di morte cellulare (e il programma genetico) che lo rende possibile, al di fuori di un certo finalismo sovrasemantizzato da risonanze antropomorfiche che termini scientifici come “suicidio cellulare altruistico”, “decisione di vivere o morire della cellula”, “morte programmata” sembrano sottendere: «Alla domanda “perché le nostre cellule hanno il potere di autodistruggersi?” si è sostituita, e confusamente imposta, in una visione panglossiana del “migliore dei mondi possibili”, l’idea che la ragion d’essere del suicidio cellulare fosse di permetterci di costruire un corpo»18.

La prospettiva teorica di Ameisen intende porsi al di fuori quindi di un certo paradigma panglossiano che vede nel suicidio cellulare una risposta adattativa e una cesura biologica e storica tra organismi unicellulari e pluricellulari. Scriveva nel 1982, Umansky: «il programma di morte cellulare è apparso durante l’insieme delle prime fasi della formazione degli organismi pluricellulari, quando la sopravvivenza del corpo intero divenne dipendente dal normale funzionamento delle sue cellule»19. Lo stile di ragionamento di Ameisen si pone radicalmente agli antipodi di tale concezione ? surrettiziamente orientata in termini teleologici20  e per chiarire la natura del fenomeno mira a comprendere non tanto la natura del “ruolo” o della “funzione”

dell’apoptosi, né tanto meno la sua ragion d’essere, quanto a cercare di rintracciarne le origini all’interno di un quadro storico evolutivo. Come scrive Dobzhansky: «Nulla ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione»21.

 

 

L’apoptosi come ex-attamento di un programma di morte cellulare

 

Come è possibile che una cellula, l’unità minima funzionale di un essere vivente, presenti in sé un programma di morte? Da dove deriva tale programma autodistruttivo?

La presenza di fenomeni di morte cellulare programmata nei vari regni del vivente porta Ameisen ad ipotizzare che il suicidio cellulare sia apparso già con i primi procarioti. «I batteri rappresentano uno  dei tasselli mancanti  per comprendere la  nascita del potere di autodistruggersi»22. I batteri, infatti, producono costantemente tossine con cui attaccano colonie batteriche rivali. Le tossine, a seconda della loro natura, agiscono in molteplici modi: alcune provocano la morte del batterio tramite una diretta frammentazione del suo DNA; altre agiscono attraverso un meccanismo indiretto di compromissione di alcuni enzimi batterici – le griasi –, responsabili del grado di torsione della doppia elica: una modifica dell’attività delle griasi porta rapidamente alla rottura del DNA; altre infine provocano l’apertura di piccoli canali nel corpo cellulare del batterio, che muore per la perdita dei liquidi presenti nel corpo cellulare. Il motivo per cui il batterio che produce queste tossine non ne subisce a sua volta gli effetti è dovuto alla produzione simultanea di un antidoto che neutralizza gli effetti potenzialmente autodistruttivi. Questa compresenza simultanea nel batterio di informazioni genetiche responsabili della produzione di tossine e antidoto sembra già presentare in nuce quello che sarà poi il programma di morte cellulare proprio dell’apoptosi. «Cerchiamo un istante di dimenticarci dell’uso che fanno i batteri di queste tossine e antidoti per esaminare semplicemente i loro effetti [...]. Questi moduli tossine/antidoti ricordano in modo sorprendente i moduli esecutori/produttori che controllano la vita e la morte delle nostre cellule. [...] Gli antenati degli esecutori e dei protettori che controllano il suicidio sono già presenti, nascosti, dalla notte dei tempi, nell’universo batterico. Produrre simultaneamente una tossina e un antidoto vuol dire essere capaci di distruggere un altro. Basterebbe un giorno continuare a produrre la tossina e interrompere improvvisamente la produzione dell’antidoto per acquisire la capacità di uccidersi»23.

 

Tuttavia, i geni che consentono la produzione di tossine e antidoto non appartengono al DNA batterico ma a un plasmide ? una molecola di DNA di dimensioni ridotte che parassita la cellula batterica. Un corpo estraneo che necessita del batterio per vivere e riprodursi. La sopravvivenza dei plasmidi in una colonia batterica dipende sia dalla loro capacità di resistere all’interno della cellula batterica che infettano, sia dalla loro capacità di invadere nuove cellule. Una volta infettato dal plasmide, infine, il batterio inizia a produrre le proteine – le tossine e l’antidoto – codificate nei geni del parassita. A questo punto, le tossine del batterio infetto finiscono, in breve tempo, con l’eliminare le altre cellule della colonia batterica sprovviste di antidoto: gli unici batteri che sopravvivranno saranno quelli infettati dal plasmide e che, quindi, dispongono del modulo tossina-antidoto, e questi, riproducendosi, soppianteranno la prima colonia con una nuova infetta.

Vi è tuttavia la possibilità che un batterio riesca a liberarsi del plasmide. In tal caso, il batterio ritorna solo apparentemente al suo stato iniziale: infatti, permane nel suo corpo cellulare dopo l’espulsione del parassita una determinata quantità di tossina e antidoto.

Ma i tempi di degradazione delle proteine-tossine e delle proteine-antidoto sono notevolmente differenti: queste ultime impiegano molto meno tempo rispetto alle prime, per cui, degradato l’antidoto, non resta nel batterio che la quantità di tossine sufficienti ad ucciderlo: «Un batterio infettato da un plasmide è programmato per morire ‘prima del tempo’, se rigetta il plasmide che lo infetta»24. Tali moduli tossina-antidoto, noti come addiction modules, creano di fatto un legame simbiotico tra batterio e plasmide: l’uno necessita della presenza dell’altro. Il plasmide, infatti, sopravvive solo all’interno del corpo cellulare del batterio e si riproduce grazie alla sua divisione cellulare; il batterio infettato invece non sopravvive in assenza del plasmide a causa della differenza tra i tempi di degradazione tra tossine e antidoto, prodotti a partire dal programma genetico del plasmide. Inoltre, è importante rilevare come sia paradossalmente il batterio stesso a contribuire ad un’accelerazione dei tempi di degradazione dell’antidoto, quindi a contribuire al consolidarsi del legame simbiotico: quest’ultimo infatti è reso inefficace proprio da alcune proteasi prodotte dal batterio.

Come nel caso dell’apoptosi quindi le proteasi svolgono un ruolo di proteine attivatrici del processo di morte cellulare. «Così come il suicidio delle cellule del nostro corpo, l’autodistruzione dei batteri infettati dai plasmidi, implica delle proteasi e in alcuni rami del vivente nati a miliardi di anni di distanza si ritrovano degli strumenti simili assemblati, come i pezzi di un puzzle, in maniera differente. Come se, nel corso del tempo, fossero state realizzate delle variazioni multiple su uno stesso tema»25. Tuttavia, la sopravvivenza del batterio infettato non dipende effettivamente dalla semplice presenza del plasmide quanto dalle informazioni genetiche di quest’ultimo. È questo modulo tossina-antidoto, possibile a partire dal programma genetico del plasmide, che permette al batterio di continuare a produrre allo stesso tempo l’antidoto e la tossina. Sulla base di questa considerazione, Ameisen ipotizza “tre scenari” possibili per la rottura di questo legame simbiotico, ovvero le uniche condizioni in cui il batterio riesca a liberarsi del parassita senza subire l’effetto dell’ addiction module:

1) un’alterazione del gene corrispondente alla tossina e conseguente interruzione della sua produzione. In questo caso, il batterio continuerebbe a produrre una sola proteina, quella dell’antidoto divenendo immune ad eventuali attacchi esterni.

2) Un’alterazione del gene corrispondente all’antidoto e conseguente resistenza del medesimo all’azione delle proteasi batteriche. In questo caso, antidoto e tossina avrebbero tempi di degradazione equivalenti.

3)La cattura da parte del batterio stesso dei due geni del plasmide responsabili del modulo tossina antidoto, all’interno del proprio cromosoma. In questo caso, il batterio, liberatosi del plasmide, produce autonomamente le tossine e l’antidoto. Le prime due possibilità consentirebbero al batterio di ripristinare effettivamente la condizione iniziale, preplasmide: in assenza di quest’ultimo, infatti, la quantità rimanente di antidoto e tossina si degraderebbe senza costituire una minaccia per il batterio. Il terzo caso ipotizzato da Ameisen, invece, produce uno scarto significativo: «Questa rottura dell’“alleanza” non consentirebbe al batterio di tornare al suo stato originario. La ‘guarigione’ avrebbe un “costo”. La bomba ad orologeria sarebbe sempre presente, innescata […]. Emergerebbe in questo modo un programma dalla natura singolare: un “programma” senza funzione apparente legato alla contingenza delle lotte tumultuose che l’hanno generato. Ma una transizione capitale avrebbe avuto luogo. Gli strumenti del suicidio sarebbero a questo punto ancorati al cuore della cellula. Il batterio si dividerà, trasmettendo a ciascuno dei suoi discendenti questo “programma” senza funzione. [...] La vita ha improvvisamente acquisito un costo addizionale, apparentemente assurdo: la necessità di reprimere a ogni istante l’attuazione del suicidio, della morte che proviene dall’interno»26.

Il terzo scenario ipotizzato d’Ameisen ha avuto nel 1996 una conferma inaspettata presso l’istituto Weizmann in Israele: nell’Escherichia coli è stata osservata la presenza di due geni ? mazE e mazF ? batterici, e non plasmidici. Questi due geni, e le relative proteine, sono rispettivamente l’antidoto e la tossina che il batterio produce costantemente, i cui tempi di degradazione sono differenti a causa dell’attività esercitata dalla proteasi ClpP sull’antidoto. Questo modulo tossina-antidoto, o modulo esecutore-attivatore-protettore, scrive Ameisen: «È probabilmente la traccia, l’impronta sempre attiva, della presenza ancestrale, di “un altro”, di un plasmide oggi scomparso»27. Questa traccia dell’altro inscritta nella cellula batterica si configura quindi, secondo l’ipotesi di Ameisen, come un programma di morte, senza alcuna funzione, sempre attivo (le tossine) e ininterrottamente neutralizzato (l’antidoto).

La prospettiva teorica di Ameisen consentirebbe dunque di inquadrare il suicidio cellulare come l’ex-attamento di un programma di morte acquisito dai primissimi batteri apparsi sulla Terra dai geni dei plasmidi – un programma senza alcuna funzione che dai batteri sarebbe passato a funghi, piante e animali nel lungo corso delle evoluzione. Perché parlare di ex-attamento – neologismo critico che dà a pensare l’uso «adatto di una struttura che già esiste: non dunque un ad adattamento a qualcosa -ad-, ma a partire -ex - da qualcosa»28? Si è potuto constatare come il suicidio cellulare non sia affatto l’esito di una graduale risposta adattiva – che la selezione avrebbe premiato – di alcune cellule al loro ambiente; né tanto meno sembra presentare alcun vantaggio, inizialmente. Il programma genetico non è soltanto privo di funzioni specifiche per il batterio, ma, anzi, costituirebbe per quest’ultimo un significativo “costo addizionale”, un dispendio energetico notevole ed una minaccia costante per la propria sopravvivenza. Soltanto ex post il programma sarebbe stato cooptato a nuovi usi e funzioni, venendo a configurarsi quindi come una risorsa indispensabile.

È proprio il nodo funzione-struttura, quindi, ad essere riconfigurato all’interno di questa spiegazione sulle origini del fenomeno: il suicidio cellulare – fenomeno che, come già sottolineato, riveste un’importanza decisiva per la vita di organismi unicellulari e pluricellulari, per la loro formazione e sopravvivenza, per i legami che questi intessono con l’insieme delle altre cellule e con l’ambiente circostante – deriverebbe dall’inserzione di alcuni geni plasmidici nel genoma dei primissimi batteri. Deriverebbe, quindi, – secondo Ameisen – da un legame simbiotico, un evento storico ancestrale, le cui tracce – riscontrabili nel programma di morte cellulare in quanto tale – si sono ‘congelate’ (frozen genes) nei tempi remoti, acquisendo in tal modo un carattere vincolante in termini evolutivi: «Nel genoma degli organismi superiori esiste una “stratificazione” che permette di distinguere geni responsabili di funzioni di base, evoluti nel primo periodo della storia evolutiva, e geni stratificati mano a mano superiori. I primi non riescono quasi più a modificarsi adattivamente perché ormai l’evoluzione “sta pensando ad altro”. Al tempo stesso, però, questi geni congelati nella loro struttura e funzione impongono dei vincoli alle possibilità anche ai livelli superiori»29.

In primo luogo, vi è dunque una processualità dinamica che vede il legarsi di due microrganismi in un’unità simbiotica. In secondo luogo, vi è il portato di tale unione, l’insieme degli effetti che ne scaturiscono: il programma di morte cellulare è – secondo l’ipotesi di Ameisen – la traccia di tale legame ancestrale, che di simbiosi in simbiosi30, è passata nei vari regni del vivente congelandosi a livello genico sotto forma di frozen genes.

Il concetto/verbo che condensa l’aspetto relazionale-dinamico di tale legame e gli effetti che ne conseguono è quello di «vincolo»/vincolare che si «dà come l’accadere di un processo in cui parti diverse di un sistema si legano tra loro. Il risultato dopo, come in un nodo che si è ben stretto, è un’entità (struttura o funzione autocatalitica o rete modulare di geni) che può diventare, quasi cristallizzandosi, ‘congelandosi’ (frozen), un’invariante di base per altri processi successivi: prima c’è il ‘vincolare’, poi il ‘vincolato’»31. In questo senso è quindi possibile affermare che il programma di morte cellulare sia un vincolo evolutivo del vivente. Il vincolo infatti «si costituisce come una forma di relazione e blocca una soglia di non ritorno che difficilmente può essere più modificata senza conseguenze»32. In tal modo dunque il programma di morte cellulare costituisce un’invariante che è «il prodotto del tempo e nel tempo»33, ma che non pre-determina, né pre-scrive in alcun modo, come pro-gramma, una sola possibilità d’attuazione. Si tratta infatti di un vincolo genico che – come è stato evidenziato – nel corso della storia evolutiva è stato riconfigurato e funzionalizzato, ex-atto, da fenomeno di morte a risorsa vitale. Più che un programma prescrittivo, è quindi un programma proscrittivo in quanto «delimita il campo delle possibilità ma non determina una modalità unica di realizzazione»34. Il suicidio cellulare come riconfigurazione funzionale di un programma di morte cellulare geneticamente controllata ne è un esempio.

 

 

Conclusione

 

Con questa breve disamina del fenomeno di morte cellulare programmata si è cercato di leggere nell’apoptosi una traccia di alcuni fenomeni simbiotici peculiari tra microrganismi ancestrali, con l’intento di mostrare – seguendo le analisi del biologo francese – come il suicidio cellulare sia l’ex- attamento di un addiction module, e come l’apoptosi costituisca tanto un elemento necessario alla sopravvivenza dell’organismo quanto, se deregolata, una potenziale minaccia per quest’ultimo. Infine si è cercato di mostrare come la morte non possa esser semplicemente intesa come negazione della vita, ma piuttosto come una presenza necessaria e “vitale”. La riconfigurazione del plesso vita-morte non coincide in alcun modo con la cancellazione della differenza che intercorre tra i due termini, ma consiste, piuttosto, nel rilevarne la co-implicazione costitutiva che il fenomeno dell’apoptosi esibisce. La morte non dovrà allora essere considerata come un elemento negativo, esterno alla vita, ma come una presenza costantemente differita inscritta al cuore della vita stessa; quest’ultima, invece, non verrà a delinearsi come elemento positivo puro e incontaminato da ogni traccia di morte ma come elemento differenziale, già da sempre abitato dal suo opposto. Il programma genetico dell’apoptosi, quindi, non consente ? anzi, a rigore, pro-scrive: ? di pensare la vita e la morte al di fuori del vincolo che li lega.

 

(*) Adriano Leonardo Scapicchi

Tesi per il corso di Filosofia e scienza del vivente, docente: prof.ssa Elena Gagliasso "Filosofia e Scienze della Vita e Filosofia della Scienza" presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università La Sapienza di Roma

 

 

Note

 

1 Dal greco caduta, termine spesso utilizzato per descrivere la caduta delle foglie in autunno e, più in generale, dei petali di fiori che appassiscono. Il rinvio metaforico alla gamma semantica della sfioritura è legato al carattere naturale, inesorabile e programmato della morte cellulare.

2 Ameisen, J. C. La sculpture du vivant, le suicide cellulaire ou la mort créatrice, Éditions du Seuil, Parigi 1999, p.51:

Ivi, p.39

4 Cfr. Ivi, pp. 27-46 e pp. 215-224

5 Cfr. Ivi, pp. 70-94

6 Cfr. Ivi, pp. 179-203

Ivi, p.185

Ivi, p. 14

9 Marie François Xavier Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, Parigi, 1805, p. 1: «La vie est l’ensemble des fonctions qui résistent à la mort», citato in Ameisen, J. C. La sculpture du vivant…, p. 14

10 Vladimir Jankélévitch, La mort, Parigi 1977, citato in Ameisen, op. cit., p. 14

11 Ameisen, J. C , op. cit., p. 15

12 Ivi, p. 138

13 Ivi, p. 15

14 Ivi, p. 151

15 Ivi, p. 137

16 Ivi, p. 57

17 Ivi, p . 271: Ivi, p . 271

18 Ivi, p. 253

19 Ivi, p. 239

20 Ricordiamo, per inciso, che è stato proprio Ameisen tra i primi ad aver rintracciato fenomeni di suicidio cellulare in organismi unicellulari: «En 1995, J’ai apportai avec mon équipe la preuve de l’existence de phénomènes de suicide cellulaire dans un organisme unicellulaire eucaryote. La branche à laquelle il appartenait était née il y a eviron deux milliards d’années» p. 255

21 Dobzhansky Theodosius, Nothing in biology makes sense except in the light of evolution, 1973, American Biology

Teacher, 35, pp. 125-9, citato sia in Gagliasso Luoni Elena , Dal determinismo al vincolo:transizioni epistemiche, Seminario Sensibilia, 6 giugno 2008, sia in Ameisen, J. C , op. cit., p. 224

22 Ivi, p. 272

23 Ivi, p. 274

24 Ivi, p. 280

25 Ivi, p.

26 Ivi, p. 285

27 Ivi, p. 286

28 Gagliasso Luoni Elena, Dal determinismo al vincolo:transizioni epistemiche, Seminario Sensibilia, 6 giugno 2008, p. 2. Il termine è stato introdotto da S.J. Gould ed E. Vrba, cfr. Gould S.J. e Vrba E. Ex-aptation- a missing term in the science of form, Paleobiology, 8 (1),1 982, pp.4-15.

29 Amaldi Francesco (2008), Evoluzione della selezione, in (a cura di) S. Forestiero, citato in Gagliasso Luoni Elena, Dal determinismo al vincolo:transizioni epistemiche, p. 9.

30 Ameisen, J. C , op. cit.:«Nel 1996, ho proposto l’idea che i moduli tossina/antidoto, che hanno giocato un ruolo essenziale nelle simbiosi tra i plasmidi e i batteri, potrebbero aver giocato un ruolo simile nelle simbiosi successive che hanno dato nascita alle cellule eucariotiche; che essi potrebbero essere gli antenati dei moduli esecutore/protettore che controllano l’attivazione e la repressione del suicidio delle cellule che ci compongono, legando inesorabilmente il destino di ciascuna della nostre cellule a quello della collettività a cui appartengono. È possibile che inizialmente gli antenati batterici dei mitocondri fabbricassero allo stesso tempo delle tossine e degli antidoti che essi liberavano nelle cellule che abitavano; e che queste tossine e questi antidoti costituissero per le cellule eucariotiche un vero e proprio addiction module»

31 Gagliasso Luoni Elena, op. cit., p. 8

32 Ivi,pp. 8-9

33 Ivi,p. 7

34 Ivi, p. 94

 

 

Bibliografia essenziale

 

Testi citati:

Ameisen, Jean Claude, La sculpture du vivant, le suicide cellulaire ou la mort créatrice, Éditions du Seuil, Parigi 1999.

Gagliasso Luoni Elena, Dal determinismo al vincolo:transizioni epistemiche, Seminario

Sensibilia, 6 giugno 2008.

 

Testi consultati:

Borghini Andrea e Casetta Elena, Filosofia della biologia, Carocci, Roma 2013.

Breuil Michel, Dictionnaire des Sciences de la vie et de la terre, Éditions Nathan, Parigi 2010.

Continenza Barbara e Gagliasso Elena, Giochi aperti in biologia, Una riflessione critica su adattamento, struttura, specie, Franco Angeli editore, Milano 1996.

Pievani Telmo, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2005.