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In principio fu l’argilla

 

vasaio

In principio fu l’argilla

 

Il vasaio. Cenni su un artigianato scomparso

 

Paolo Folcarelli

 

In principio fu l’argilla (prestito latino derivato dalla radice Arg ‘brillare’: ‘la terra brillante’, (perché bianca), forse dal greco àrgil(l)os, risultato della frantumazione e decomposizione, durante milioni di anni, in particelle piccolissime di rocce feldspatiche (dal termine tedesco Feldspat, da Feld, campo e Spat, che indica in maniera generica minerali a struttura laminare).

Le argille si distinguono in sedimentarie (formatesi attraverso spostamenti delle rocce causati da eventi naturali) e statiche (derivate dalla decomposizione delle rocce nel luogo di loro formazione). Le loro proprietà principali sono:

 - Plasticità (bagnate, possono essere plasmata e assumere la forma che si desidera);

 - Ritiro (plasmato, l’oggetto subisce una riduzione per essiccamento dovuto all’evaporazione dell’acqua);

- Refrattarietà (resistono all’aumento della temperatura di cottura).

L’argilla, dunque, è la materia inerte a cui il vasaio, conoscendone le proprietà, dà vita, successivamente, a tre operazioni preliminari (essiccazione, frantumazione, cernita) per purificarla dai residui della decomposizione delle rocce che l’hanno originata.

L’ultima operazione muta il termine argilla in creta “… che è stata cernita” (dal participio passato cretum del verbo latino cernere).

Bagnata, cremosa e rassodata, veniva confezionata in blocchi, all’occorrenza ammàllóppràti, ricavandone, cioè, màllòppre (malloppi, palle), divise e accoppiate a mano con tale veemenza che, a Pontecorvo, basso Lazio, provincia di Frosinone, il tipico suono si slargava nitido all’alba per la Cannataria.[1]

L’operazione era necessaria per meglio compattare la creta, eliminandone gliù vriccégliùme[2]eventuali ulteriori impurità.

La creazione avveniva con il tornio a pedale: pernio girevole che unisce due dischi di legno; quello inferiore, a fior di terra, imprimeva un movimento rotatorio a quello superiore (la girella), dove il vasaio poneva energicamente le màllòppre da foggiare aiutandosi con le mani, ripetutamente bagnate, e una spatola di legno.

Asciugato nell’ombra, giorni dopo, il manufatto era impilato nella fornace a struttura verticale,[3] il cui piano di cottura, realizzato a leggera schiena d’asino con creta e cocci di vasellame, era un autentico capolavoro di ingegneria per la capacità elastica di sopportare enormi pesi.

Sotto il piano di cottura venivano circolarmente accesi dei fuochi, gradatamente alimentati con fascine sempre più grandi, sino ad arrivare a una temperatura di circa 900-950°C.

Dal focolare le fiamme guizzavano ai manufatti attraverso fori praticati nella camera di cottura, mentre quelli aperti a medie altezze del forno (le focarole) ne permettevano la ventilazione. Accesa nel pomeriggio, sul far della sera, la fornace aveva già reso l’ambiente così torrido che, saettando dalle focarole, le fiamme si torcevano e fuggivano gemendo dall’inferno ciociaro! All’alba del giorno successivo iniziava lo svuotamento del forno ancora incandescente, sicché i vasai sembravano emergere da un girone d’acqua bollente!

Assicurando alle Società d’ogni tempo e Paese un servizio indispensabile, inverno o estate, all’alba essi erano già al pezzo e la durezza del lavoro ne aveva plasmato il carattere: asciutti, taglienti eppur gentili, anteponevano a tutto il valore della famiglia.

Abile nel far di conto, il vasaio immagazzinava per tempo argilla, legna, fascine e ossidi, organizzando la produzione (varia per destinazione d’uso, dimensione, forma e fantastiche smaltature), da sciorinare nelle fiere ciociare sino al litorale di Sperlonga e oltre.

Il lavoro del vasaio si alleggerì negli anni Sessanta grazie a macchinari e forni diversamente alimentati, ma proprio all’epoca del miracolo italiano venne strangolato da produzioni industriali anche di materiale diverso. Conniventi furono le Istituzioni perché non agevolarono l’attività con sgravi fiscali, né favorirono produzioni di nicchia, di cui i vasai pontecorvesi erano da sempre straordinariamente capaci.

E, allora, devo ricordare un articolo incentrato sull’artigianato ciociaro: … Altra attività artigianale da menzionare è quella della ceramica, risalente al IX secolo a.C. Le tradizionali forme delle terrecotte di Pontecorvo sembrano ispirarsi addirittura all’età del bronzo e del ferro: sono brocche, pignatte, boccali, … sulle quali vengono dipinti a freddo disegni stilizzati naturalistici di estrema essenzialità…[4]  Nel solco d’una millenaria tradizione si sarebbe, forse, salvato l’artigianato della creta, ma così non fu: non ci sono più vasai a Pontecorvo ed è come aver smarrito un ritratto di famiglia.

 

 


[1] Toponimo indicante a Pontecorvo (Fr) l’inizio di corso Garibaldi, dove era concentrato quell’artigianato. Il nome deriva dal simbolo della produzione, l’anfora usata per attingere e conservare l’acqua: la cannata, il cui cannello ricorda l’internodo cavo della canna, donde il nome.  

[2] Frammenti di breccia, piccoli sassi più o meno levigati. Volendo tradurlo con un neologismo si direbbe brecciolume.

[3] Così i forni nel mondo occidentale; in Oriente essi erano a struttura orizzontale, con focolare e camino, cioè, disposti alle estremità, per cui il calore compiva un percorso orizzontale, uscendo all’altra estremità del forno.

[4] F. Dattilo, Artigianato e folklore in Ciociaria- Bollettino Casse di risparmio dell’Italia centrale- supplemento al n.11, nov.1976, pag.36.