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“Fin che c’è la salute…” A Roma, da Asclepio a san Bartolomeo

 

Isola Tiberina

“Fin che c’è la salute…”  A Roma, da Asclepio a san Bartolomeo

 

Luciano Luciani

 

“Fin che c’è la salute…” Viviamo in tempi pandemici e lo strausato, e vagamente consolatorio, modo di dire ha acquistato connotati nuovi e inediti. Molti, infatti, si sono resi meglio conto che, per dirla col severo filosofo tedesco Arthur Schopenauer (1788-1860), “la salute non è tutto, ma senza la salute tutto è niente”. Per questo abbiamo imparato ad apprezzare più e meglio di quanto avvenuto in precedenza il ruolo degli operatori sanitari, medici e infermieri, divenuti i nuovi eroi dei nostri ultimi difficili mesi. I più zelanti e agguerriti tutori di quel bene corposo – è proprio il caso di dirlo – e insieme inafferrabile, che è la salute: una generale, psicofisica, condizione di benessere sempre desiderata, spesso, troppo spesso, contraddetta dai molteplici accidenti dell’esistenza. Per i Romani delle origini, una divinità, la Dea Salus, onorata insieme a Stregna o Strennua, antica divinità sabina, nei primi secoli della storia di Roma, con feste, templi, statue dorate e una particolare vicinanza ad Apollo, soprattutto a partire dal 180 a. C., quando un’epidemia di peste infierì ferocemente sulla città. Al momento di entrare in carica i consoli le prestavano l’augurium salutis, un’usanza via via caduta in disuso ma ripristinata da Augusto. La Dea Salus sovraintendeva alla sanità pubblica entrando anche nella religione ufficiale con la dea d’origine greca Hygiea, Igieia, figlia di Asclepio. Personificazione del benessere e della prosperità a lei toccò un luogo di culto eretto nel 302 a. C sul Quirinale: la si raffigurava con le fattezze di una giovane donna di sana e robusta costituzione colta nell’atto di nutrire un serpente. La si rappresentava anche in maniera identica a quella della Dea Fortuna, al timone di una nave con una palla ai piedi e un piccolo piatto nella destra colta nel gesto di libare su un altare intorno al quale appare avviticchiato un serpente che solleva la testa: forse perché il serpente che muta pelle ogni anno simboleggia l’uomo che col recuperare la salute entra in una vita nuova. Un culto assorbito nel corso dei secoli da quello di Esculapio, in cui onore venne eretto un tempio nell’isola Tiberina. Un luogo sacro e sanitario insieme, una vera e propria “isola della salute” che nel corso dei secoli e dei millenni si è sempre connotata come uno spazio in cui hanno potuto trovare ricetto, accoglienza e cure tutte le tipologie di emarginati: in età tardo repubblicana e imperiale gli schiavi e ogni genere di diseredati erano mandati a morire presso il tempio di Esculapio, dove peraltro ricevevano anche alcune modeste cure. E lo schiavo eventualmente sanato nell’area di quel tempio diventava un uomo libero. Quel romitaggio fluviale si configurò, quindi, come un luogo di sollievo dove si accoglie, si cura, si guarisce, si libera: una fama che non abbandonò più la piccola isola - lunga trecento metri, larga ottanta, dalla vaga forma di una nave, la prua verso nord, la poppa in direzione di Ostia - e le garantì per secoli le attenzioni e le speranze di legioni di pellegrini, di poveri, di disgraziati. Una fama che si mantenne anche in età cristiana sia pure attraverso un’opera di depaganizzazione che vide la sostituzione del tempio di Esculapio con la chiesa di san Bartolomeo, che, a tutt’oggi, conserverebbe le reliquie del santo apostolo e martire, predicatore in Armenia e in India, celebrato per aver vinto con la sua parola eletta proprio il culto del patrono romano della medicina.