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Risorse in rete per unità didattiche su: impatto ambientale dell’alimentazione umana

 

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Risorse in rete per unità didattiche su: impatto ambientale dell’alimentazione umana

 

Aldo T. Marrocco - versione pdf

 

Introduzione

L’alimentazione umana è legata ad alti consumi di risorse naturali, ad es. acqua ed energia, necessarie per produrre, raccogliere, conservare, confezionare, trasportare e distribuire i prodotti. Spesso, l’uomo moderno si procura il cibo impiegando quantità di energia molto maggiori di quelle che poi ne ricava. Gli antichi, a differenza di noi, ottenevano dal raccolto l’energia spesa per produrlo; chiaramente infatti, in natura una popolazione non può consumare stabilmente più energia di quanta può reperirne (1).

 

Obiettivi

Abbiamo cercato in rete risorse informative e didattiche utili a far comprendere agli studenti, quanto consumo di risorse e che degrado ambientale sono spesso associati al cibo che arriva sulle nostre tavole. Una unità didattica su quest’argomento, oltre a fornire agli studenti informazioni, concetti e stimoli, può far comprendere come le nostre scelte possono influire su questa situazione.

 

Materiali e metodi

Questo manoscritto si propone di presentare ai lettori di “Naturalmente”: testi, grafici, tabelle, immagini, animazioni, giuochi ed atlanti interattivi trovati in rete. Alcuni di questi siti sono italiani, altri sono scritti in inglese; tra questi ultimi talvolta sono disponibili altre versioni linguistiche, forse utilizzabili in classi multietniche. Ogni insegnante può disporre di queste risorse come meglio ritiene, eventualmente anche in collaborazione con altri colleghi cui ciò possa interessare.

L’argomento è molto vasto e questa è solo un’introduzione ad uno studio più ampio ed approfondito.

Quanto è scritto nella discussione che segue è tratto unicamente dai documenti citati, a meno che non sia specificato diversamente.

 

Discussione

Energia e agricoltura

In agricoltura si consuma energia direttamente, (ad es. per lavorare i terreni, irrigare, raccogliere e trasportare i vari prodotti) e indirettamente, ad es. per produrre fertilizzanti, pesticidi e macchinari agricoli.

Uno studio ha analizzato l’andamento dei consumi di energia nell’agricoltura turca nel periodo 1975-2000, quando la modernizzazione ha comportato impieghi di energia crescenti (2). L’energia ottenuta tramite i raccolti è passata da 38,8 a 55,8 GJ/Ha e ciò fa intuire i benefici, sul piano alimentare, per la popolazione. Complessivamente però, la quantità di energia impiegata nell’agricoltura turca è passata da 17,4 a 47,4 GJ/Ha. Si può osservare che i consumi energetici sono aumentati ad un ritmo maggiore delle produzioni con conseguenze immaginabili, ad es., a livello di riscaldamento globale ed inquinamento.

 

Secondo il prof. D. Pimentel, il 7% dell’energia fossile consumata negli USA va per le produzioni agricole, il 7% per lavorazione e confezionamento dei prodotti, il 5% per la distribuzione e quindi la preparazione dei cibi presso i consumatori (3). Complessivamente quindi il 19% dell’energia fossile consumata negli USA serve per il funzionamento del cosiddetto food system, compreso anche, ad esempio, il consumo energetico necessario per costruire e mantenere le macchine usate in agricoltura.

Per le produzioni agricole si consuma l’equivalente di 1.000 litri di combustibile per ettaro, di cui un terzo serve per il funzionamento dei mezzi meccanici, un terzo per i fertilizzanti, il rimanente per i pesticidi e tutte le altre attività.

Il testo del professore conclude accennando ai diversi costi energetici nell’agricoltura biologica ed in quella convenzionale; la prima assorbe input energetici di tipo fossile in quantità inferiore del 31% rispetto alla seconda. Tra gli altri vantaggi dell’agricoltura biologica, ci sono ad es. l’economia idrica, una minor erosione del terreno ed un suo più alto contenuto di sostanza organica (3).

L’agricoltura biologica produce emissioni inferiori rispetto a quella convenzionale (4), grazie ai minori costi energetici relativi ai prodotti biologici che sostituiscono fertilizzanti chimici e pesticidi, la cui sintesi comporta invece alti consumi di energia. Il minor uso di mangimi che si fa nella zootecnia biologica rispetto a quella convenzionale, contribuisce alla riduzione dei costi energetici (4).

Secondo uno studio dedicato ad aspetti ambientali ed economici, l’agricoltura biologica si caratterizza anche per un maggior impiego di personale, rispetto a quella convenzionale (5).

 

Alimenti, trasformazione dei prodotti e trasporti

Uno studio svedese confronta le quantità di energia complessivamente utilizzate per produrre, essiccare, eventualmente trasformare, surgelare, confezionare, trasportare e cucinare vari cibi (6). Gli autori precisano che si tratta di uno studio condotto con la metodologia dell’analisi del ciclo di vita dei prodotti, conosciuta anche con l’acronimo LCA.

L’input energetico così calcolato, relativo alla carne bovina, è di 75 MJ/kg, mentre è di 35 MJ/kg nel caso del pollo. Tale differenza è dovuta principalmente al diverso rapporto di conversione dei mangimi in carne, a sua volta dipendente da un differente tipo di metabolismo. Rimanendo in tema di alimenti proteici, l’input energetico riguardante i legumi cucinati è molto più basso (tra 5 e 20 MJ/kg; il secondo valore riguarda fagioli in scatola provenienti da paesi d’oltremare).

Per le mele prodotte in Svezia l’input è di 3,5 MJ/kg ed è di 8,6 MJ/kg per quelle importate da paesi d’oltremare tramite trasporto marittimo, considerato efficiente dal punto di vista energetico. La frutta fresca tropicale, trasportata fino in Svezia con l’aereo, raggiunge invece il livello record di 115 MJ/kg (6).

Dalla tab. 1 si vede che, in Svezia, per produrre pomodori in serra l’input è di 66 MJ/kg. Per produrre cavoli e carote nello stesso paese bastano rispettivamente 3,7 e 2,7 MJ/kg. Per le carote in scatola, il valore sale a 8,1 se il prodotto è nazionale ed a 11 se la provenienza è dall’Europa centrale.

L’input relativo alle patate cotte è 4,6 MJ/kg, se però per la cottura si è usato il forno, l’input sale a 29 MJ/kg.

Cucinare ogni singola porzione di patate fritte comporta un input di 60 MJ/kg, tale valore scende alla metà se ne cuciniamo 4 porzioni insieme (6).

Dalla stessa tabella si nota che in taluni casi, l’uso di margarina al posto del burro può comportare consumi energetici più bassi.

Un documento della Harvard School of Public Health descrive i rischi cardiovascolari particolarmente elevati che possono però essere associati all’uso di certi tipi di margarine e grassi idrogenati in genere (7). Ciò può far riflettere sulla opportunità di considerare i parametri ambientali nell’ambito di un più vasto ed articolato progetto di educazione alimentare.

Talune trasformazioni dei prodotti alimentari ed il loro confezionamento sono spesso necessarie per note questioni di palatabilità, conservazione ed igiene; in taluni casi possono però comportare elevati costi energetici. Un documento analizza vari metodi di trasformazione, conservazione e confezionamento dei cibi dal punto di vista energetico, considerando anche le conseguenze di tali tecniche sulla salute. La tab. 1 mostra le quantità di energia necessarie a produrre contenitori per alimenti. Produrre contenitori riusabili può comportare un costo energetico più elevato, ma se questi sono utilizzati varie volte, il loro uso è vantaggioso. La tab. 2 fornisce le quantità di energia necessarie per la trasformazione di taluni alimenti (8). Nell’ampia discussione è anche riservato un breve spazio alle bibite.

 

Un articolo spiega perché la nostra alimentazione è così dipendente dal petrolio (9).

Alcuni dei dati che riporta possono indurre riflessioni, ad es., per ogni caloria alimentare ottenibile dagli asparagi cileni importati nel Regno Unito se ne consumano 97 per il loro trasporto aereo.

Il manoscritto descrive anche il caso di una salsa al pomodoro prodotta in Svezia. La materia prima di questa salsa, prodotta in Italia, è messa in contenitori provenienti dall’Olanda e trasportati fino al nostro paese per essere riempiti e portati in Svezia. Le bottiglie destinate a contenere la salsa possono essere prodotte nel Regno Unito con materiali che possono provenire da vari paesi, incluso Giappone, Belgio, USA, Danimarca…… Concludendo, secondo il manoscritto, per produrre questa salsa occorrono più di 52 trasporti e processi di lavorazione.

Il Regno Unito nel 1997 ha esportato 270 milioni di litri di latte, e ne ha importato 126 milioni. Ha inoltre importato 61.400 tonnellate di pollame dall’Olanda, esportandone contemporaneamente 33.100 nello stesso paese.

L’articolo dedica un’ampia discussione al problema, suggerendo una limitazione dei trasporti, nonché delle distanze tra produttori e consumatori, come strategia per diminuire consumi energetici ed emissioni di CO2.

Un sito del WWF Italia è dedicato al calcolo dell’impronta di carbonio, una parte del documento è riservata all’alimentazione, con informazioni sullo stile di vita (10).

 

I terreni possono emettere o sequestrare anidride carbonica

Le operazioni di deforestazione, anche se realizzate senza incendi, producono forti emissioni di anidride carbonica. Infatti, nei terreni forestali esposti al sole e lavorati, si ha una rapida ossidazione della sostanza organica di cui sono ricchi (11).

Nel Sud Est Asiatico e particolarmente nell’isola di Sumatra e nella parte indonesiana del Borneo, esistono grandi estensioni di foreste torbiere. Si tratta di zone umide occupate da foreste che affondano le radici in grandi depositi di resti vegetali che, con il tempo, si sono trasformati in torba grazie a condizioni di sommersione ed ambiente acido. In questi depositi di torba, di spessore compreso tra 0,5 e 20 metri, sono immagazzinate enormi quantità di carbonio.

Questi ambienti sono stati parzialmente deforestati e, ai fini di uno sfruttamento agricolo prevalentemente orientato verso la creazione di piantagioni di palma da olio, spesso i terreni sono stati poi drenati (12). Conseguentemente al drenaggio, si ha subsidenza del terreno ed abbassamento della falda freatica; la torba, non più sommersa, inizia a decomporsi producendo emissioni di CO2 ed anche di metano. Inoltre, le condizioni di secchezza della torba la espongono al rischio di incendi che, coinvolgendo grandi spessori di materiale combustibile, sono poi difficili da domare (12).

Un video con spiegazioni in sovrimpressione aiuta a comprendere questi fenomeni (13>Palm oil production, peatland loss and CO2 emissions).

L’agricoltura può invece avere un ruolo nel ridurre le emissioni di CO2, se si interrano i residui dei prodotti agricoli in modo tale che vi rimangano abbastanza a lungo prima di decomporsi (14).

La sostanza organica, se ben trasformata, diventa humus che contribuisce al miglioramento del terreno. Bisogna però tener presente che le lavorazioni del terreno, esponendo all’aria la sostanza organica ivi contenuta, ne favoriscono l’ossidazione con emissione di CO2. Sono pertanto consigliate quelle tecniche di coltivazione che prevedono minime lavorazioni del terreno (15 / 14).

Un documento è dedicato alle potenzialità dell’agricoltura nel contribuire a sequestrare CO2 dall’atmosfera (15). Il documento fornisce dati sulle quantità di carbonio contenute negli oceani, nei giacimenti fossili, negli esseri viventi, nell’atmosfera e nei suoli. Questi ultimi, entro il primo metro di profondità, ne contengono complessivamente 2,5 miliardi di tonnellate. In passato molto carbonio è stato perso dai suoli a causa della conversione di ambienti naturali in pascoli o campi, poi coltivati con tecniche che ne hanno ridotto il contenuto di sostanza organica. E’ possibile e necessario, considerando le problematiche dei cambiamenti climatici, innalzare il tenore di sostanza organica nei terreni agricoli secondo talune pratiche di gestione consigliate. I terreni potrebbero così sequestrare da 100 a 1.500 kg/ha di carbonio l’anno.

L’argomento è trattato anche in altri due documenti, uno della FAO ed uno dell’Istituto di Biometeorologia del CNR (11 / 16).

La pratica dell’agricoltura biologica tende ad incrementare il contenuto di sostanza organica dei terreni, capovolgendo la tendenza al degrado e migliorando al contempo fertilità e salute dei suoli (17 pag.117).

 

Zootecnia, sicurezza alimentare, salute e ambiente

Tradizionalmente gli animali erano allevati tramite la somministrazione di sottoprodotti dell’agricoltura e l’utilizzazione di terreni marginali per il pascolo (17). Le attività zootecniche sono poi cresciute divenendo più intensive; al contempo, l’uso delle risorse usate tradizionalmente lasciava sempre più spazio all’utilizzazione di mangimi. I mangimi possono provenire anche da grandi distanze ed oggi l’80% del bestiame è allevato in stalle con sistemi industriali.

Le attività zootecniche sono coinvolte in maniera importante nella deforestazione. Il 70% delle aree deforestate dell’Amazzonia è utilizzato a pascolo mentre il resto è, in buona parte, impiegato per la produzione di mangimi (18).

 

Secondo un documento della FAO, occorre somministrare ai polli 2 kg di cereali per ottenere 1 kg di carne, ma nel caso dei bovini ne sono necessari 7 kg, sempre per ottenere 1 kg di carne (19).

Questo documento, intitolato The new food-feed competition, esprime anche una riflessione sulla sicurezza alimentare nel Mondo. Tra il 1966 ed il 1980, la produzione agricola nei paesi in via di sviluppo aumentava più velocemente rispetto alla crescita della popolazione. A causa però delle quantità crescenti di cereali utilizzate nelle attività zootecniche, la dieta delle fasce di popolazione a basso reddito in alcuni di questi paesi, migliorava a malapena (19).

In taluni paesi a basso reddito, sono contemporaneamente presenti classi sociali esposte al problema della denutrizione e fasce di popolazione esposte a malattie croniche conseguenti ad un’alimentazione troppo ricca (1).

Un documento fa rilevare che, ad es., un consumo più ridotto di carni rosse nei paesi ricchi ridurrebbe il rischio di vari tipi di cancro, ad es. quelli del colon retto e del seno (1).

L’American Cancer Association consiglia, tra l’altro, un consumo limitato di prodotti animali ed in particolare di carni rosse, specialmente se conservate. Sono invece da privilegiare, secondo questo documento, cereali integrali, legumi ortaggi e frutta (20).

I siti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, forniscono consigli alimentari che vanno nella stessa direzione (21 / 22).

Da un sito si possono aprire due atlanti interattivi che mostrano come, negli USA, il diabete si è diffuso parallelamente all’obesità (23).

La produzione mondiale di carne è passata da 70 milioni di tonnellate nel 1961 a 278 nel 2009; secondo le previsioni, potrebbe arrivare a 460 nel 2050 (24).

 

Il 37% del metano ed il 65% dell’ossido di azoto prodotti da attività antropogeniche, provengono rispettivamente dalla fermentazione enterica del cibo nei ruminanti e dal letame (18). In un documento dell’UNEP, si legge che questi gas hanno capacità di produrre effetto serra in misura rispettivamente 25 e 296 volte maggiori rispetto alla CO2 (24).

Inoltre, le attività zootecniche causano il 64% delle emissioni antropogeniche di ammoniaca (24).

In sintesi, il consumo di un kg di carne bovina comporta emissioni di gas serra equivalenti a quelli sviluppati percorrendo 160 km con l’auto (24).

Il grafico in fig. 2 mostra in quali proporzioni si producono emissioni di gas serra nelle varie fasi delle attività zootecniche (1). La fig. 3 dello stesso documento mostra graficamente il contributo alle emissioni di gas serra dei sistemi di allevamento estensivi ed intensivi.

La tab. 1 riporta il consumo pro capite di carne in varie parti del mondo (1). La tab. 2 indica quanto gas serra è prodotto da varie specie animali comunemente allevate (1). Le tabelle sopra menzionate permettono di osservare notevoli ed interessanti differenze.

 

Spesso i terreni circostanti agli allevamenti di bestiame sono insufficienti per ricevere le quantità di concime prodotto; se quest’ultimo non è opportunamente gestito può raggiungere falde idriche e corsi d’acqua (24). Le deiezioni prodotte dalle attività zootecniche ed altri scarti organici possono essere trasformati in biogas, portando così vari vantaggi ambientali e produzione di energia (17 pag. 121 / 25 / 25>PDF Mappatura delle biomasse avviabili a digestione anaerobica in Alto Adige - Presentazione).

 

Il calpestio prodotto dagli animali che pascolano, se eccessivo o se praticato quando la terra è bagnata, può compattare il suolo riducendone porosità e capacità di infiltrazione idrica. Ciò comporta che, in caso di forti piogge, aumenteranno lo scorrimento idrico superficiale, la velocità dell’acqua che scorre e quindi l’erosione del terreno. Inoltre, conseguentemente alla ridotta infiltrazione idrica nel terreno, si può anche avere un abbassamento delle falde freatiche, mentre i corsi d’acqua saranno in piena con maggiore frequenza (17 pag. 163).

Un esperimento ha mostrato che, in un pascolo sottoposto per vari anni ad un calpestio troppo intenso, la velocità di infiltrazione idrica attraverso il terreno si era ridotta di ben 10 volte rispetto a prima (26).

In un documento della FAO, un disegno fornisce informazioni su scorrimento idrico superficiale ed erosione del suolo, in un terreno in pendenza, in relazione a diverse intensità di attività pascoliva (27 fig. 15).

Alcuni documenti accennano anche alle esternalità positive che il pascolo degli animali può produrre per l’ambiente. Una buona gestione del pascolo può contribuire a sequestrare carbonio accumulandolo nel terreno come sostanza organica stabile; in taluni casi può ridurre lo scorrimento superficiale delle acque, favorendone l’infiltrazione nel terreno (17 / 18). Un documento menziona anche benefici per la biodiversità (28).

In determinate situazioni, il pascolo degli animali può ridurre la quantità di erba presente sui terreni contribuendo alla prevenzione degli incendi (29 pag. 8 / 30 / 31). Un documento della FAO è dedicato al ruolo fondamentale che il bestiame spesso ha nell’agricoltura del terzo mondo (63). Qui permette di smaltire sottoprodotti agricoli altrimenti inutilizzati, fornendo cibo, reddito, concime ed un importante aiuto per i lavori agricoli.

 

Impronta idrica degli alimenti

Chiaramente, l’alimentazione umana ha anche un impatto sulle risorse idriche. Secondo il prof. A. Hoekstra, l’85% dell’acqua è utilizzata in relazione al consumo di prodotti agricoli, il 10% ai prodotti industriali ed il 5% ai consumi domestici (32).

E’ nota l’importanza di una gestione attenta dell’acqua per uso domestico, anche se in realtà sono soprattutto le scelte alimentari a determinare i nostri consumi idrici. Ad es., una tabella indica che l’intero ciclo di produzione relativo ad una tazza di caffè richiede mediamente, in qualche parte del mondo, l’utilizzazione di 140 litri di acqua (33). L’intero ciclo produttivo relativo ad un kg di carne bovina, comporta l’utilizzazione di 15.500 l di acqua, mentre ne occorrono 1.644 l per produrre 1 kg di cereali (33>Product water footprint>Animal products).

Un ampio sito scritto in inglese e ricco di links, con parziale traduzione in italiano e varie altre lingue, è dedicato all’impronta idrica (33).

Può essere interessante visitare la parte dedicata alle domande più comuni (33>FAQ>I already pay for the water, isn’t that enough? / What is the difference between water footprint and virtual water?).

Sul sito di Grid-UNEP si trova un grafico relativo alle quantità di acqua necessaria per produrre vari cibi (34>water for food).

Un sito del WWF Italia aiuta a calcolare i litri di acqua consumati ed i kg di CO2 prodotti per produrre ciò che compriamo al supermercato (35).

 

L’impronta idrica normalmente si divide in tre componenti principali:

La cosiddetta acqua verde è l’acqua piovana immagazzinata nel suolo, che evapora dopo l’utilizzazione da parte delle piante. L’acqua blu è quella prelevata da corpi idrici superficiali o sotterranei che evapora dopo l’utilizzazione. L’acqua grigia è il volume idrico necessario a diluire le sostanze inquinanti immesse nell’ambiente durante i processi produttivi, ad es. fertilizzanti e pesticidi, affinchè si rispettino gli standard di qualità delle acque (33>FAQ>Technical questions>Why distinguish between a green, blue and grey water footprint? / 32).

 

Chiaramente, il problema dell’impronta idrica ha maggiore importanza nelle aree afflitte da scarsità d’acqua.

In alcune aree geografiche lo sviluppo è stato possibile grazie a depositi di acqua fossile, o ad acquiferi che non ricevono un ricarico sufficiente, come tali destinati quindi a divenire inutilizzabili in futuro (36>Interactive Maps: Irrigation in the Middle East>Non-renewable Groundwater Aquifers / 28). In un ricco sito multimediale della FAO, dedicato all’acqua, si trovano animazioni, quiz, immagini e mappe interattive (36).

Un sito dedicato alle scuole dell’United States Geological Survey, ricco di links e immagini, parla delle falde acquifere (37).

Due animazioni mostrano come piogge e prelievo idrico da un pozzo situato vicino ad un fiume, influenzano il livello dell’acqua in quest’ultimo (38 / 39).

Può essere interessante uno studio sulle impronte idriche nazionali (33>National Water Footprints). In Germania ad es., i consumi idrici domestici ed industriali sono diminuiti costantemente, evidenziando una tendenza che merita di essere incoraggiata. Questi consumi rappresentano però solo una piccola parte dell’acqua utilizzata in questo paese. Infatti, per produrre beni come cibo, tessuti ed altri prodotti ancora, vi si continuano ad utilizzare enormi quantità di acqua.

Quando questi beni sono importati, allora si può dire che un paese è importatore di acqua virtuale; quest’ultima è l’acqua che è stata utilizzata altrove, per produrre le merci importate nel paese in questione. Molti prodotti agricoli richiedono enormi quantità di acqua per la loro coltivazione, spesso con impatti significativi sui sistemi idrici delle aree ove tali processi produttivi hanno luogo. Un grafico è dedicato ai flussi internazionali di acqua virtuale (33>Global Water Footprint>International Virtual Water flows).

Un rapporto dell’United Nations Development Programme, intitolato “Gestione delle acque transfrontaliere”, propone interessanti riflessioni sulle problematiche che sorgono quando le acque sono condivise tra stati diversi (40). Da questo testo, a carattere più geografico che scientifico, si possono selezionare letture sui disastri conseguenti allo sfruttamento idrico non sostenibile ed alla mancanza di cooperazione tra gli stati.

 

Per produrre carne occorre somministrare agli animali grandi quantità di alimenti, da cui l’elevata impronta idrica di quest’ultima rispetto agli alimenti vegetali (33>Water Footprint of Animal Products). Produrre proteine animali richiede spazi molto maggiori, rispetto a quelli necessari a produrre uguali quantità di proteine vegetali (28). Il bestiame allevato negli Stati Uniti consuma sette volte più cereali che la popolazione umana dello stesso paese (41).

 

La pesca

In passato le risorse alimentari offerte dai mari erano ritenute, almeno da taluni, inesauribili; negli ultimi 50 anni il crollo di varie popolazioni ittiche, causato da eccessivo sfruttamento, ha dimostrato il contrario (42). E’ emblematico ad es. il caso del crollo nella pesca del merluzzo nell’Atlantico Nord-Occidentale, che dava lavoro ad oltre 40.000 persone (43 grafico / 42).

Un grafico mostra l’andamento globale della pesca di pesci marini (44).

In aree dove la pesca non è regolamentata, all’impegno di alcuni pescatori nel moderare l’intensità delle proprie catture consegue solo un beneficio per gli altri, cui rimangono più risorse a disposizione. Questa situazione non ha mai incentivato a conservare le risorse ittiche, semmai ha stimolato la crescita delle flotte pescherecce (45).

Secondo un rapporto della Banca Mondiale, da decenni il pescato nei mari si mantiene costante nonostante l’impiego di flotte pescherecce sempre più potenti e modernamente attrezzate. Come mostra il grafico, mentre si impiega un numero crescente di pescherecci diminuisce il pescato riferito ad una singola unità. Ciò avviene nonostante i progressi tecnologici che portano ad avere attrezzature sempre più efficienti (46 fig. 2).

Questa “overcapacity” delle flotte pescherecce, come è chiamata in inglese, è causa di un’attività di pesca inefficiente sia sul piano produttivo che economico (46). Secondo questo rapporto della Banca Mondiale, dando modo agli stocks ittici di ricostituirsi, si potrebbero pescare le stesse quantità con un consumo energetico dimezzato (46).

Per ricostituire gli stocks ittici talune aree possono essere interdette alla pesca, temporaneamente o stagionalmente, per offrire protezione almeno durante il periodo riproduttivo ed ai piccoli appena nati (47). Talvolta l’interdizione alla pesca è permanente, come nel caso dei santuari.

Le sospensioni della pesca hanno dato risultati positivi, ad es. nella ricostituzione degli stocks di aringhe nell’Atlantico Settentrionale e nel Pacifico Nord Orientale. Non è garantito che questa tecnica dia risultati sempre e presto, come evidenziato dal recupero molto lento della popolazione di merluzzo precedentemente menzionata (47).

A livello internazionale, c’è un consenso emergente sull’efficacia della gestione della pesca basata su diritti, come ad es. le quote (45).

 

Una parte del pescato è rigettata in mare dai pescherecci. Secondo un documento della FAO, tra il 1992 ed il 2003 nel mondo si scartavano annualmente 7,3 milioni di tonnellate di prodotti ittici (48>Overview of results). I motivi di questi scarti sono molteplici. Ad es. in certi casi è considerato antieconomico congelare prodotti con un basso valore di mercato, oppure c’è difficoltà a conservare o lavorare tutto ciò che è stato pescato. I pesci possono anche essere rigettati in mare per restrizioni legali riguardo alla taglia, o alla specie di ciò che è stato pescato (48>Summary of the reasons for discard).

Gli scarti sono considerati negativi dal punto di vista etico, biologico ed economico, si pone pertanto il problema di ridurli e di trovare un modo di utilizzarli. Il documento analizza l’impatto ecologico di tali scarti e le diverse strategie usate per ridurli (48>what is the discard problem?). L’entità degli scarti è variabile secondo il tipo di pesca (48>Discards in selected fisheries).

Un video mostra il funzionamento di un attrezzo che permette alle testuggini marine di non rimanere intrappolate nelle reti dei pescatori (49). Negli USA ad es., l’adozione di questo attrezzo ha ridotto notevolmente il numero di testuggini che accidentalmente rimanevano intrappolate nelle reti, con conseguente annegamento (50 pag. 31).

Un ampio documento della Regione Toscana fornisce alcune informazioni sulla pesca e sullo stato di sfruttamento di alcune specie (51 da p. 91). In Toscana, come altrove, il problema degli scarti di pesca è abbastanza importante. Reti di maglia poco selettiva fanno sì che ad es. siano catturati individui giovanili di triglia e nasello; questi saranno rigettati in acqua senza aver avuto la possibilità di riprodursi (51 pag. 122).

L’uso di reti con maglia più larga può evitare questi problemi, ma chiaramente non è applicabile se si pescano specie ittiche che rimangono di piccola taglia anche allo stadio adulto. In tal caso la maniera più efficiente di ridurre gli scarti di pesca consiste nell’evitare la pesca nei periodi e nelle aree in cui si concentrano gli individui giovanili dei quali si vuole evitare la cattura. All’uopo, è importante conoscere le aree dove crescono i piccoli, nonché la loro biologia.

 

Su due siti troviamo vari links che indicano specie ittiche dei nostri mari sottoposte ad una pesca più sostenibile, talvolta si tratta di pesci meno noti e meno costosi. I siti forniscono anche ricette sulla loro preparazione (52 / 53>www.chepescipigliare.eu >Cosa puoi fare>zoom>Italy>Slowfish Guide al pesce sostenibile>Mangiamoli giusti; Lisca della spesa).

Un ente certificatore che rilascia un marchio su prodotti ittici provenienti da operazioni di pesca sostenibile produce animazioni ed altro materiale educativo per le scuole (54>Playroom, fun & games).

Un ampio documento della FAO, dedicato alla pesca ed all’acquacultura nel mondo (55), riporta dati su produzioni (pag. 3), occupazione (pag. 10), flotte pescherecce (pag. 11), stocks ittici supersfruttati (pag. 11-12), utilizzazione del prodotto (pag. 13-14), aspetti economici e legali.

Due immagini aiutano a comprendere almeno una parte della terminologia usata nel mondo della pesca (47>Shared Jurisdiction / 47>Chart depicting various high seas stocks).

Un sito propone spiegazioni ed animazioni sui metodi di pesca e di allevamento dei pesci, nonché sulle relative conseguenze per l’ambiente; i links sono sotto i titoli “How We Fish” / “How We Farm Fish” (56). Un breve documento è dedicato ad una gestione sostenibile dell’acquacultura (57).

 

L’acquacultura

L’acquacultura, tra il 1980 ed il 2010, è cresciuta al ritmo annuo dell’8,8% raggiungendo una produzione di 60 milioni annui di tonnellate (55).

L’impatto dell’acquacultura sull’ambiente è diverso secondo le tecniche usate.

Un terzo della produzione globale proviene da allevamenti che utilizzano risorse naturalmente presenti nell’ambiente, come alghe e plankton, quindi senza fornire ai pesci alimentazione supplementare.

Un esempio di ciò è dato dall’allevamento di pesci nelle risaie (55 Box 2). Secondo tale documento della FAO, questa forma di agricoltura integrata, che fornisce prodotti ittici in aggiunta al riso, permette di consumare il 68% di pesticidi in meno. Infatti, talune specie ittiche comprendono nella loro dieta anche taluni parassiti del riso, diminuendo l’intensità dei problemi fitosanitari a carico di quest’ultimo. Certi pesci erbivori riducono la presenza di erbe indesiderate nelle risaie, mentre il consumo di concimi è ridotto del 24%, ancora grazie alla loro presenza (55).

Talune specie ittiche possono nutrirsi anche di larve di zanzara, contribuendo a ridurre ad es. la diffusione della malaria, mentre altre esercitano il controllo biologico dei molluschi portatori della bilharziosi (58).

Il tipo di allevamento sopramenzionato è abbastanza diffuso ad esempio in Cina.

In altri paesi l’acquacultura funziona su basi concettualmente molto diverse. Qui i pesci sono allevati in impianti intensivi e nutriti con mangimi ad alto costo ed elevato tenore proteico (59). Mangimi prodotti con farine di pesci considerati economicamente poco pregiati si somministrano a specie ittiche di valore commerciale elevato. Per produrre 1 kg di pesce si utilizzano così mediamente vari kg di “pesci foraggio”, realizzando una trasformazione in cui chiaramente si consumano molte più proteine di quante se ne producono (59).

Il Cile è, assieme alla Norvegia, tra i maggiori produttori mondiali di salmoni d’allevamento, come mostra il grafico 2 (60). Secondo uno studio condotto in Cile, mediamente per ricavare il mangime necessario a produrre 1 kg di salmone occorrono 8,5 kg di pesce, ad esempio sardine ed acciughe. Notoriamente, queste ultime sono specie ittiche di basso costo, anche se hanno un valore alimentare non inferiore a quello del salmone, che ha invece un prezzo assai più elevato. I grafici 10 e 11 mostrano le quantità crescenti di risorse utilizzate per allevare salmoni in questo paese dove, secondo gli autori, la salmonicoltura è in crescita, come anche la domanda mondiale di salmoni. Questa situazione aumenterà ulteriormente l’intensità della pesca delle specie ittiche- foraggio, peraltro già super sfruttate, per ricavare sempre più mangime. Secondo gli autori ciò può contribuire a minacciare la sostenibilità della pesca nel Pacifico Meridionale (60).

Sembra inoltre interessante ricordare che i pesci predatori sono esposti al fenomeno della biomagnificazione delle sostanze inquinanti che avviene ai livelli trofici più alti della catena alimentare (61 / 62 fig. 13).

 

Sitografia


1) A. Mc Michael et al. (2007); Food, livestock production, energy, climate change, and health. http://www.gci.org.uk/Documents/mcmichael_etal_meat_heat.pdf

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