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Robinson Crusoe, ovvero grandezze e miserie della globalizzazione di tre secoli fa

 

Robinson Crusoe

 

Robinson Crusoe, ovvero grandezze e miserie

 

della globalizzazione di tre secoli fa

 

Rimettiamo gli occhi sui classici

 

Luciano Luciani

  

Nel romanzo Vita e strane avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio, edito nel 1719 e destinato a diventare uno dei libri più famosi di tutte le letterature, Daniel Defoe (1660-1731), giornalista inglese e scrittore, uno dei padri del romanzo moderno, si basa su resoconti di veri naufragi che avevano coinvolto, in quegli anni, non pochi navigli e marittimi inglesi. In particolare fu l’avventura di un uomo di mare, Alexander Selkirk, rimasto abbandonato sull’isola Juan Fernandez al largo del Cile, ad attirare l’attenzione di Defoe, che si interessò soprattutto al risvolto psicologico della vicenda: un uomo costretto su un territorio sconosciuto e ostile, impegnato a sopravvivere e assolutamente solo nel dover decidere della propria esistenza.

Nel romanzo Alexander diventa Robinson, nato da una buona famiglia borghese, il quale, attratto dall’avventura e dal rischio, fugge di casa a diciotto anni, si imbarca e va per le rotte degli oceani e della vita. Nel corso di questi viaggi per mare cade prigioniero dei Mori. Liberatosi, si ferma temporaneamente in Brasile e si fa piantatore di canna da zucchero. Rimessosi in viaggio, naufraga e lo accoglie fortunosamente una piccola isola deserta alla foce dell’Orinoco. Robinson, l’unico sopravvissuto, si trova così solo con il suo coraggio, la sua industriosità, qualche relitto dell’imbarcazione affondata… e una Bibbia.

Uno degli scopi del romanzo è quello di dimostrare che un uomo può condurre la propria esistenza anche in un posto deserto e per niente predisposto alla presenza umana. Basta che abbia a disposizione alcuni attrezzi necessari per la sopravvivenza e, soprattutto, possieda la pragmatica ingegnosità, non priva di una punta - e anche qualcosa di più! - di cattiveria, tipica dei mercanti inglesi del XVII secolo, più avventurieri che commercianti.

E di tipo paternalista-colonialista è, poi, il rapporto che Robinson stabilisce con un indigeno fuggiasco ribattezzato Venerdì, salvato dalla furia antropofaga della sua tribù. Il cannibalismo, praticato allora delle popolazioni più primitive dei Caraibi, dell’Australia e della Melanesia, finisce per fare da elemento ricorrente e incombente sull’intera vicenda, nel corso della quale Robinson dimostra tutto il suo coraggio e il suo ingegno: coltiva granaglie, addomestica capre, con il fasciame della nave distrutta si costruisce un’abitazione decorosa e confortevole… Oltre a fabbricare utensili di terracotta, abiti e quant’altro, procurandosi tutto il necessario a una vita, se non comoda, certo operosa e, per forza di cose, onesta.

La salvezza – ma si può ancora chiamare così? – arriverà solo dopo ventotto anni: quando nella sua isola, divenuta ormai una popolosa colonia a causa di ulteriori naufragi e conseguenti naufraghi, arriveranno altri uomini occidentali per riportarlo a una discutibile “civiltà”. Ma l’idea animatrice del romanzo di Defoe - e che lo rende ancora attuale e leggibile - consiste nel racconto della lotta dell’uomo, solo nell’immensità della Natura, e nella “affascinante ricostruzione dei primi rudimenti della civiltà umana in un’isola deserta senz’altro testimonio che la propria coscienza, senz’altri alleati che la propria energia, destrezza, ingegnosità” (Centouno capolavori inglesi, Bompiani).