Perché gli alieni non possono atterrare a Lucca?
Vele laser, viaggi interstellari e paradosso di Fermi (1)
Andrea MACCHI
CNR, Istituto Nazionale di Ottica, Pisa
La fantascienza ha immaginato moltissime volte l‘arrivo sulla Terra di visitatori alieni, bellicosi o pacifici, simili a noi o del tutto diversi. Uno dei pochi limiti a questa capacità di immaginazione fu posto nel 1960 da Carlo Fruttero e Franco Lucentini, direttori della celebre collana Urania, con un'affermazione perentoria quanto una legge fisica: “un disco volante non può atterrare a Lucca”. Se il riferimento specifico origina dal fatto che, a quanto pare, la battuta venne pronunciata da Fruttero a un salone lucchese del fumetto, il significato generale è che un'ambientazione provinciale non sarebbe credibile per il genere fantascientifico. È divertente, per chi conosce le fiere rivalità tra le città toscane, che il “teorema lucchese” di Fruttero-Lucentini sia stato smentito da un grande fumettista pisano: nel primo film da regista di Gipi (Gian Alfonso Pacinotti), L’ultimo terrestre (2011) alieni pacifici atterranno nelle campagne intorno a Pisa portando un messaggio di solidarietà e speranza che gli uomini si scoprono incapaci e indegni di recepire. Purtroppo non si può parlare di occasione mancata per l’umanità, dato che in realtà nessun alieno è finora atterrato né a Pisa né altrove (al netto di visioni complottistiche e bufale più o meno ben costruite).
La questione se esista vita al di fuori della biosfera Terrestre non riguarda solo la fantascienza. Il premio Nobel per la Fisica 2019 attribuito a Michel Mayor e Didier Queloz per la “scoperta di un esopianeta orbitante attorno a una stella simile al Sole” è stato così commentato da David Gross (Nobel per la Fisica 2014 e presidente della prestigiosa Società Americana di Fisica): “la scoperta [...] incita alla ricerca di vita extraterrestre nell’universo”. Queste parole trovano eco nel titolo più o meno identicamente scelto dai principali quotidiani italiani: “premiati i cacciatori di mondi alieni”.
Ma quanto è probabile che sugli esopianeti (cioè pianeti al di fuori del sistema solare) esistano forme di vita più o meno evoluta? Al riguardo la scienza fornisce stime assai variabili, a seconda del modello adottato Non si può comunque escludere l’ipotesi che l’umanità sia la sola, fortunatissima vincitrice di un concorso cosmico: comprare un biglietto della lotteria per diventare ricchi non è ragionevole date le infime probabilità di successo, ma chi vince il primo premio può ritenerla (a posteriori) un'ottima idea! La nostra solitudine troverebbe giustificazione nel cosiddetto principio (o pregiudizio) antropico: l’Universo lo vediamo così com'è adesso proprio perché ha generato in qualche modo le condizioni per la nostra esistenza forse unica e irripetibile, quindi il nostro punto di vista è automaticamente privilegiato.
L’ipotesi opposta, che ritiene molto probabile la presenza di vita extraterrestre, ha il suo punto di forza nel grande numero di possibilità. Ad oggi stimiamo che l’Universo contenga tra cento e mille miliardi di Galassie di vario tipo e un numero totale di stelle compreso tra 10 miliardi di miliardi (1019) e 100 milioni di miliardi di miliardi (1026). La scoperta di vari esopianeti esterni al sistema solare ci fa pensare che l’esistenza di sistemi planetari sia un fatto comune nell’Universo, con almeno qualche milione di miliardi di pianeti simili alla Terra come dimensione e posizione rispetto a una stella simile al Sole e quindi in grado di ricevere energia sufficiente per una biosfera come quella terrestre.
Il ritenere probabile che esistano civiltà extraterrestri evolute al punto da rivelare la loro esistenza attraverso o l'invio di segnali in qualche forma o per “visite” dirette sulla Terra (almeno con sonde senza equipaggio) si scontra però con la mancanza di evidenza di tali manifestazioni. Questo contrasto è espresso dal cosiddetto Paradosso di Fermi: se l’Universo pullula di alieni, “dove sono tutti quanti?” L’affermazione è in realtà solo una battuta che Enrico Fermi fece nel 1950 in una conversazione a pranzo con altri illustri colleghi, ma è comprensibile che si tenda a valorizzare e salvare per i posteri qualunque cosa di ogni genere sia prodotta dalla mente di un grande scienziato (in breve: di Fermi non si butta via nulla!).
Per trovare una risposta al paradosso di Fermi e farsi un’idea di se e come sia possibile che visitatori alieni raggiungano un giorno la Terra, vogliamo valutare le prospettive più realistiche a breve termine (in senso relativo, anzi, relativistico) che abbiamo noi umani di esplorare il cosmo al di là dei limiti attuali, ovvero del sistema solare. Questo approccio è in linea con un altro pregiudizio antropico: una forma di vita evoluta deve essere piuttosto somigliante all’essere umano o comunque a forme esistenti sulla Terra e usare tecnologie simili a quelle terrestri, sia già da noi sviluppate che ritenute verosimili in futuro. Il pregiudizio può essere considerato ragionevole, dato che per quanto sappiamo le leggi della fisica sono le stesse in tutto l’universo e quindi ci riesce difficile immaginare una biologia non elementare che non abbia bisogno di acqua allo stato liquido e non sia basata sulla chimica del carbonio, o tecnologie che non abbiano le stesse limitazioni di principio della nostre. Nondimeno, ricordiamoci che di un pregiudizio si tratta e che allo stato attuale non conosciamo i limiti né della fisica né della nostra immaginazione.
Compiere un viaggio interstellare significa affrontare una distanza enormemente più grande delle dimensioni del sistema solare. La destinazione più vicina è Alpha Centauri, composto da due stelle simili al Sole e una nana rossa chiamata Proxima Centauri essendo delle tre la stella più vicina; attorno a Proxima orbita un pianeta di dimensioni simili alla Terra, scoperto nel 2016. Proxima si trova a una distanza di 4,24 anni-luce dal Sole, ovvero la luce della stella impiega poco più di quattro anni a raggiungerci viaggiando a circa 300.000 km/s (per confronto, la luce impiega circa un secondo a percorrere il tragitto Terra-Luna e otto minuti il tragitto Terra-Sole). Un viaggio verso Proxima Centauri che si compia in un tempo minore dell'arco di una vita umana richiede che si viaggi a velocità vicine a quelle della luce, la massima velocità raggiungibile in natura. Sfortunatamente le velocità sinora ottenute dai nostri veicoli spaziali sono molto, molto minori. La missione Apollo 11 nel Luglio 1969 portò i primi uomini sulla Luna dopo un viaggio di circa 4 giorni: una semplice proporzione indica che con questa velocità arriveremmo su Proxima in un milione e mezzo di anni. La sonda Voyager, primo oggetto costruito dall’uomo a uscire dal sistema solare, ha raggiunto la velocità di 62140 km/h con la quale raggiungerebbe Proxima in 74.000 anni.
L’estrema difficoltà nel raggiungere alte velocità è legata al peso dei veicoli spaziali, in particolare del sistema di propulsione e ancor più del propellente necessario. Chi ha vissuto gli anni ’80 ricorderà le dirette dei primi lanci dello Space Shuttle, nei quali la navicella con equipaggio e strumentazione era necessariamente montata sopra un ben più grande serbatoio di carburante, nonostante la destinazione fosse lo spazio “vicino”: ad esempio la Stazione Spaziale Internazionale orbita a soli 400 km dalla superficie terrestre. Nessuna tecnologia attuale può al momento ridurre il peso del combustibile ad una piccola frazione del peso del veicolo. Nella celebre serie fantascientifica Star Trek la nave spaziale Enterprise sfrutta un reattore a fusione nucleare, il processo che avviene nelle stelle generando grandi quantità di energia da quantità di materia estremamente ridotte. Controllare la fusione nucleare fornirebbe fornirebbe una soluzione sia per la propulsione spaziale che per il problema energetico mondiale (2), ma purtroppo la sua dimostrazione in laboratorio non è ancora avvenuta e comunque richiederànno macchinari di enormi dimensioni, non proponibili come parte di un motore.
Sulla superficie della Terra l’umanità viaggia da seimila anni senza motore né combustibile: la vela ha permesso di raggiungere tutte le terre emerse sul pianeta. L’idea di poter navigare a vela nello spazio esiste da oltre cinque secoli. Nei primi anni del ’600, Keplero (Johannes Kepler) osservò che la coda delle comete che attraversano il sistema solare punta sempre in direzione opposta al Sole, indipendentemente dal fatto che la cometa vi si stia avvicinando o allontanando. Keplero ne dedusse l'esistenza di un vento di origine solare, che immaginò legato all’azione della luce sul nucleo della cometa. (3) Nella Dissertatio cum Nuncio Sidereo (1610) Keplero, rivolgendosi a Galileo, scrive “Trovate navi e vele adatte ai venti celesti, e qualche intrepido sfiderà quel vuoto ...”; i navigatori coraggiosi non sono mai mancati nella storia! L’idea ricompare agli albori della letteratura fantascientifica: nel 1835 Jules Verne nel romanzo Dalla Terra alla Luna scrive “...un giorno avremo velocità molto più grandi ... delle quali probabilmente la luce o l’elettricità saranno gli agenti meccanici ... e viaggeremo verso la Luna, i pianeti, e le stelle”.
La prova che la luce esercita una pressione sugli oggetti ed è quindi in grado di spingerli come il vento fa con una vela arriva con gli esperimenti del fisico russo Piotr N. Lebedev (1899) che conferma le previsioni teoriche di due scienziati. Di questi, il più famoso è James C. Maxwell a cui si deve la teoria elettromagnetica della luce (1874) che costituisce una “grande unificazione” della Fisica mettendo in relazione i fenomeni elettrici, magnetici e luminosi; una delle predizioni della teoria è che la luce esercita su una superficie perfettamente riflettente una pressione proporzionale al doppio dell’intensità della luce (ovvero l’energia luminosa che arriva sulla superficie per unità di area e di tempo) divisa per la sua velocità (in formula: P=2I/c). Il meno famoso è il fiorentino Adolfo Bartoli, laureato a Pisa nel 1874, che due anni dopo (da professore all‘Istituto Tecnico di Arezzo) arriva indipendentemente allo stesso risultato di Maxwell basandosi sulle leggi della termodinamica. (4)
La formula di Maxwell e Bartoli può essere usata per valutare la pressione della luce solare sulla Terra. L’intensità della luce solare sulla superficie terrestre è poco più di un kilowatt per metro quadro: questo vuol dire che in un’ora di esposizione al sole su un metro quadro di tetto possiamo raccogliere un kilowattora di energia, ovvero una buona frazione del consumo energetico quotidiano di un’abitazione (come si può verificare da una bolletta elettrica, impropriamente detta bolletta della luce) il che ci dice che pannelli solari possono essere utili (purché abbastanza efficienti). La pressione corrispondente a tale notevole intensità è invece estremamente piccola essendo dell’ordine di un decimo di miliardesimo di atmosfera, ovvero della pressione esercitata dall’aria sopra le nostre teste e si focalizza la luce con una lente o uno specchio sferico si può concentrarla in un punto aumentando l’intensità di un fattore mille (il che può essere sufficiente per accendere un fuoco), ma la pressione corrispondente rimane difficilmente rivelabile.
Nonostante la pressione della luce del Sole sia debole, il suo grande vantaggio è di essere continua, ovvero di essere erogata senza interruzione alcuna. Questo può consentire a una vela spinta dalla luce solare di accumulare l’accelerazione ricevuta per tempi molto lunghi e raggiungere grandi velocità. La NASA e altre agenzie spaziali stanno sperimentando progetti di questo tipo per navigare nel sistema solare. Il nome inglese di questi velieri spaziali, light sail, è assai suggestivo in quanto può essere letto come “vela a luce” ma anche “vela leggera”: la scelta di materiali avanzati e l’assenza di propellente rendono infatti i velieri molto leggeri, requisito essenziale per acquisire maggiori velocità a parità di spinta. In sostanza, come espresso da molti poeti, è la leggerezza a farci volare!
Ma quanto può essere leggero un veliero spaziale? Questo dipende dalle finalità del viaggio: se ci accontentiamo di un veliero-sonda, che sia privo di un equipaggio umano ma in grado di raccogliere e inviare dati dalla destinazione alla Terra, grazie alle tecnologie attuali la strumentazione necessaria può essere contenuta in un microchip di circa un grammo. La vela deve essere altresì leggera e al tempo assai larga, per poter raccogliere quanta più luce possibile: in sintesi, deve essere sottilissima. A tal fine il materiale più promettente è il carbonio in forma di grafene (scoperta dalle numerose applicazioni, premiata col Nobel 2010 per la Fisica a Andrei Geim e Konstantin Novoselov). Per un siffatto veliero del peso totale di 10 grammi, due astrofisici hanno calcolato in 141 anni il tempo necessario a raggiungere Proxima sospinto dalla luce solare e venire poi frenato dalla luce delle stelle del sistema di Alpha Centauri. (5) Se in prospettiva questo tempo rappresenta un progresso enorme nelle possibilità di esplorazione dello spazio interstellare, rimane oltre la barriera temporale dell'arco di una vita umana.
L’idea per poter scendere sotto questa barriera si basa sul sostituire la luce solare con una luce più potente. Già P. Lebedev nel suo esperimento Lebedev utilizzò una lampada ad arco voltaico per ottenere una luce abbastanza intensa da rendere la pressione misurabile. In maniera analoga, oggi si pensa di accelerare la light sail sfruttando la sorgente di luce artificiale più intensa sviluppata dall’uomo, il laser. La luce laser ha caratteristiche che non si trovano in natura, quali l’estrema “purezza” del colore o la direzionalità, che permettono di concentrare l’energia luminosa sia nel tempo, producendo impulsi luminosi estremamente brevi, che nello spazio, focalizzandola in puntini o “macchie” assai più piccole che per la luce naturale. Questo rende oggi possibile produrre in laboratorio intensità luminose sino a 1024 kilowatt per metro quadro, ovvero un milione di miliardi di miliardi l’intensità della luce solare, corrispondenti a una pressione di 1013 (diecimila miliardi di) atmosfere, di gran lunga la pressione più grande realizzabile in un laboratorio.
Il laser inventato nel 1960 dall’americano Theodore H. Maiman fu inizialmente definito “una soluzione in cerca di un problema”. L’idea di usarlo per la propulsione di navi spaziali a vela fu avanzata pochi anni dopo ed è accreditata indipendentemente all‘ungherese György Marx (6) e all’americano Robert L. Forward, noto anche come scrittore di fantascienza (il suo romanzo Rocheworld descrive appunto un tale viaggio interstellare). All’epoca, la costruzione sulla Terra di un laser con le enormi dimensioni richieste era quasi puramente speculativa, essendo le caratteristiche richieste lontanissime dallo stato dell’arte. Ma nei quasi sessant’anni successivi all’invenzione di Maiman la tecnologia ha fatto enormi progressi nella costruzione di laser di grandi dimensioni. Oggi il laser più grande al mondo si trova presso il centro di ricerca National Ignition Facility. (7) (NIF) in California, occupa interamente un edificio la cui superficie è circa tre campi da calcio (anzi, da football) e concentra un'energia di circa mezzo kilowattora in impulsi della durata di pochi miliardesimi di secondo, ottenendo potenze oltre un milione di volte superiore ai dispositivi costruiti da Maiman. Questi progressi hanno contribuito al rilancio delli'dea di Marx e Forward nel 2016, annunciata dalla fondazione Breakthrough (8) del fisico e magnate russo-israeliano Yuri Milner, in una presentazione di grande clamore mediatico alla quale presenziarono due famosi (e visionari) fisici teorici quali Stephen Hawking e Freeman Dyson (tra i co-finanziatori dell'impresa è citato anche Marc Zuckerberg, patron di Facebook). Il progetto Starshot prevede la costruzione di un laser in grado di accelerare vele-sonda di 4X4 metri quadri fino a un quinto della velocità della luce, in modo da raggiungere Alpha Centauri in circa vent‘anni Da qui, la sonda invierebbe dati che richederebbero altri quattro anni per raggiungere la Terra.
Se nel progetto Starshot la vela-sonda è caratterizzata da piccole dimensioni e minimi costi (circa uno smartphone), il laser richiesto per accelerare la vela rappresenta un‘impresa gigantesca ed estremamente costosa. Questo sistema laser (costituito in realtà da migliaia di sistemi più piccoli, i cui fasci laser si sovrapporrebbero in sincronia per accelerare la vela) occuperebbe un ‘area di 1 km di diametro e per lanciare ogni sonda dovrebbe fornire un'energia di circa tre milioni di kilowattora in cento secondi. Al confronto, le dimensioni di NIF sono circa un millesimo del laser richiesto dal progetto Starshot e l’energia prodotta è meno di un milionesimo. Al di là di enormi e irrisolte sfide fisiche e tecnologiche nello sviluppo e l’uso di un simile laser, (9) la barriera dei costi è sostanziale: una stima estremamente ottimistica dei costi di costruzione è pari a 100 miliardi di dollari, ovvero dell‘ordine del costo dell'intero programma Apollo della NASA in valuta attuale (mentre il finanziamento iniziale della fondazione di Milner è di “soli” 100 milioni di dollari). Il confronto con la conquista della Luna è assai significativo, perché un’impresa simile necessiterebbe di vasto consenso sociale e politico, in un contesto assai diverso da quello della guerra fredda nel quale si sviluppò la competitiva corsa allo spazio.
Allo stato attuale possiamo almeno dire che il principio di accelerare oggetti ad alta velocità con la pressione della luce è stato verificato in laboratorio grazie ad una “miniaturizzazione” estrema del concetto, ovvero usando laser di durata ultrabreve (dell’ordine di 10 femtosecondi, cioè dieci milionesimi di milardesimi di secondo) con energia dell’ordine pochi Joule (un milionesimo dell’energia del laser NIF) come l’impianto di recente installazione all’Istituto Nazionale di Ottica del CNR di Pisa. (10) Questi tipi di laser sono basati su una tecnica premiata col Nobel per la Fisica 2018 a Donna Strickland e Gerard Mourou. Nonostante questi sistemi laser siano estremamente compatti (“da tavolo”), l’estrema concentrazione dell’energia luminosa nello spazio e nel tempo (in volumi delle dimensioni di un batterio) fa sì che le pressioni ottenute possano accelerare a oltre un quinto della velocità della luce delle “nano-vele” tipicamente di larghezza micrometrica (un milionesimo di metro) e di spessore nanometrico (un miliardesimo di metro). Le equazioni che descrivono il processo di accelerazione sono esattamente le stesse utilizzate per le vele spaziali nel progetto Starshot. Il fine di queste ricerche “miniaturizzate” non è solo di una dimostrazione di principio, ma è orientato alla realizzazione di acceleratori di materia più compatti ed economici di quelli esistenti. Una possibile e importante applicazione futura è l’adroterapia, ovvero la tecnica oncologica che utilizza fasci di ioni ad altra energia per distruggere con estrema precisione tumori annidati in profondità in organi vitali e quindi non operabili. Queste applicazioni sono ancora lontane e richiederanno verosimilmente alcuni decenni di studio e ricerca, un tempo comunque minore di quello prevedibile per il progetto Starshot, oltre che costi estremamente inferiori.
La dimostrazione “miniaturizzata” del principio della light sail ci incoraggia ad immaginare che in un qualche futuro il progetto verrà realizzato e persino che sia possibile ingrandire ulteriormente l'idea: viaggeremo un giorno su astrovelieri a luce laser? Scalare il concetto da nanovele di dieci grammi a navette spaziali di qualche tonnellata porta le barriere tecnologiche e finanziarie al di là del concepibile. L’energia necessaria ad accelerare un oggetto ad una velocità data è proporzionale alla sua massa, mentre i costi e le dimensioni di un sistema laser sono grossolanamente proporzionali all’energia prodotta. Si parlerebbe quindi di un sistema esteso su un'area di almeno 1.000km di diametro e con costi di 100 milioni di miliardi di dollari (circa mille volte il prodotto lordo annuale dell'economia mondiale) con un consumo istantaneo di energia probabilmente superiore alle capacità produttive mondiali.
Se anche fosse possibile superare queste enormi barriere, rimarrebbe un problema di fondo: la propulsione da un laser terrestre potrà permetterci di accelerare alle velocità necessarie ma non frenare una volta raggiunta la destinazione sognata! Questo a meno che a destinazione non sia operativo un laser analogo a quello usato per partire, che in maniera del tutto simmetrica sfrutti la pressione della luce per frenare la nostra vela; ovvero, un laser sviluppato e azionato da una civiltà aliena tecnologicamente sviluppata almeno quanto la nostra - alla data futura della missione! Se tale civiltà esistesse già oggi su Alpha Centauri o comunque nei “dintorni” del nostro Sole, avrebbe esattamente lo stesso problema di poter “frenare” se lanciasse i propri astrovelieri verso la Terra. Questo fornisce una possibile risposta al paradosso di Fermi, come già notato da G. Marx nel suo articolo del 1966: ipotetici alieni non possono visitarci (o invaderci!) per la nostra attuale incapacità tecnologica di offrir loro un laser “di frenata”. Le possibilità di visita sono quindi esattamente reciproche: raggiungere alieni abitanti intorno a una stella vicina richiede che questi dispongano della stessa tecnologia usata dai visitatori per mettersi in viaggio. A tal riguardo, è interessante notare che una ricerca in parte finanziata dalla fondazione Breakthrough ipotizza che anomali segnali extragalattici osservati nella regione delle onde radio (“fast radio bursts”) siano originati dai lanci di velieri laser da parte di civiltà extragalattiche (11) (ma studi più recenti favoriscono spiegazioni “naturali”). Anche se così fosse, a prescindere dalla distanza, questi velieri alieni non potrebbero atterrare. L’unica possibilità alternativa, come accennato in precedenza, sarebbe di sfruttare la luce stellare a destinazione per frenare, ma questo porterebbe nuovamente i tempi di viaggio a molte decine di anni. (12)
Il giorno in cui scoprissimo segnali di una civiltà aliena alla portata dei nostri astrovelieri, dovremmo comunicare con gli alieni in modo da stabilire i necessari “piani di navigazione”; ma come poter tradurre il linguaggio di una civiltà completamente estranea alla Terra? Nel racconto di fantascienza Omnilingue (1957) (13), Henry Beam Piper immagina la scoperta su Marte di una civiltà estinta, della quale si cerca di comprendere la scrittura cercandone una chiave, ovvero la descrizione di un oggetto il cui significato sia chiaro e universale. Alfine gli astronauti terrestri identificano tra le rovine marziane una tavola periodica degli elementi, strumento scientifico fondamentale che ci aspettiamo debba esistere in ogni civiltà evoluta in quanto esprime l’universalità delle leggi della matematica, della fisica e della chimica. Infatti, chiedersi se nell’Universo ci siano altri elementi oltre a quelli elencati nella tavola periodica (inclusi gli elementi ancora da scoprire) equivale a chiedersi se esistano altri numeri interi oltre a uno, due tre, ... (qualcuno può ritenerla una buona domanda!). Peraltro, sappiamo che l’origine del nome dei vari elementi nelle lingue terrestri ha radici nella loro provenienza o nel loro utilizzo e fornisce indicazioni storiche molto utili e interessanti, per cui la tavola periodica potrebbe davvero essere la chiave per interpretare un linguaggio alieno.
Tornando alla domanda di partenza e riassumendo la discussione, l’assenza di visitatori extraterrestri può essere giustificata con la nostra povertà tecnologica e finanziaria, tali che non possiamo offrire un laser “di frenata” ai velieri alieni. Questa conclusione un po’ desolata discende da un approccio il più possibile “realistico”, ovvero legato a tecnologie futuribili anche se non ancora realizzate e dal “ragionevole pregiudizio” che anche per alieni evoluti i vincoli imposti dalla fisica rendano i velieri a propulsione laser la sola strategia per i viaggi interstellari. Ovviamente l’immaginazione umana può liberamente andare oltre questa visione, spostando a piacere il bordo (forse non così netto) tra fantasia e scienza.
Un’idea che risiede su questo confine è quello di esseri umani che siano in grado di “smaterializzarsi”, convertendo la propria essenza in pura “informazione” che possa viaggiare alla velocità della luce purché qualcuno sia in grado di riceverla e interpretarla. Da quanto discusso possiamo forse ricavare una morale, come da certe fiabe. Abbiamo visto come la scienza può indicare delle opzioni (per quanto remote) per viaggiare verso le stelle e sviluppare la comunicazione con civiltà aliene, creando le condizioni per un incontro. Ma secondo le idee proposte, la possibilità di questo incontro dipende in ultima analisi dalla volontà di due civiltà di accogliersi a vicenda. Oggi esploriamo questo scenario in modo puramente speculativo, ma in futuro un eventuale degrado dell’ambiente terrestre potrebbe farlo diventare l’unica possibilità di sopravvivenza della specie umana. Un’umanità migrante nello spazio dovrebbe allora sperare nell’interesse e nella benevolenza di un’altra specie, ovvero che paure e diffidenze verso il diverso non siano universali; una specie che non costruisca muri o meglio mura, dato che da Lucca siamo partiti e qui forse gli alieni vorrebbero arrivare (con buona pace di Fruttero e Lucentini). Nell’attesa, questa morale può forse aiutarci a convivere sulla Terra, dove ogni essere umano è un migrante o potrebbe diventarlo.
Note
1 - Questo articolo è basato su alcune conferenze divulgative, tra cui quella presentata al CNR di Pisa il 18 ottobre 2019 col titolo “Strumenti alieni: laser e tavola periodica” e visibile su YouTube (https://youtu.be/9OWkbaxJosE). Parte della discussione è stata pubblicata in precedenza nell ‘articolo “Vele laser, viaggi interstellari e civiltà extraterrestri“, Sapere n.3 (2020) pp. 30-35.
2 - Si veda ad esempio A. Macchi, “Il difficile cammino della fusione nucleare controllata“, Sapere n.5 (2014) pp. 16-21
3 - In questo articolo ci riferiamo ci riferiamo genericamente a un “vento” associato alla pressione della luce, che è alla base dell ‘idea delle vele spaziali. Nella letteratura specializzata ci si riferisce tradizionalmente al “vento solare” come al flusso delle particelle emesse dal Sole, che non viene sfruttato per la navigazione nel sistema solare.
4 - A margine è (tristemente) curioso osservare che alla data di oggi la pagina in inglese di Wikipedia dedicata a Bartoli (https://en.wikipedia.org/wiki/Adolfo_Bartoli) lo presenta come co-scopritore della pressione della luce (nota più in generale come pressione di radiazione), mentre la pagina italiana (https://it.wikipedia.org/wiki/Adolfo_Bartoli_(fisico)) dà scarso rilievo a questo merito; nemo propheta in patria.
5 - R. Heller & Michael Hippke, “Deceleration of High-velocity Interstellar Photon Sails into Bound Orbits at α Centauri“,
The Astrophysical Journal Letters, vol. 835, Febbraio 2017, pp. L32-L38.
6 - G. Marx, “Interstellar vehicle propelled by laser beam”, Nature, vol. 211, Luglio 1966, pp.22-23.
7 - Pagina web (in Inglese) su NIF: http://lasers.llnl.gov . NIF è dedicata a studi di fusione nucleare; in coerenza con queste finalità, il suo ambiente interno è stato usato per rappresentare la sala macchine dell ‘Enterprise nel film “Into Darkness” (2012) della serie Star Trek.
8 - Pagina web (in Inglese) della fondazione Breakthrough: http://www.breakthroughinitatives.org. Discussioni del progetto in Italiano e a livello divulgativo possono essere trovate su Le Scienze, nell ‘articolo del 3 maggio 2017 “Verso Alfa Centauri (quasi) alla velocità della Luce“ di Ann Finkbeiner e nella traduzione dell ‘articolo su Nature del 1 febbraio 2017 di Gabriel Popkin, “Che cosa serve per raggiungere le stelle“. Si possono anche vedere gli articoli online su National Geographic del 14 aprile 2016 “Missione Alfa Centauri: funzionerà?“ e di Sapere del 14 aprile 2016
“Stephen Hawking e Mark Zuckerberg pronti a ... esplorare lo spazio“.
9 - H. Milchberg, “Challenges abound for propelling interstellar probes“, Physics Today, 26 Aprile 2016.
10 - Pagina web del laboratorio di laser intensi del CNR/INO: http://ilil.ino.cnr.it
11 - M. Lingam & A. Loeb, “Fast Radio Bursts from Extragalactic Light Sails”, The Astrophysical Journal Letters 837, L23, 2017
12 - In verità esiste un ‘ingegnosa, anche se praticamente irrealizzabile proposta di R. L. Forward per poter usare il laser di propulsione per un viaggio di andata e ritorno: l ‘idea, che prevederebbe la realizzazione di una lente orbitante di 1000km di diametro e di complesse vele di 100km di diametro, è descritta nell ‘articolo “Roundtrip interstellar travel using laser-pushed lightsails“, Journal of Spacecraft vol. 21 (1984) pp.187-195: per una descrizione sommaria si veda A. Macchi, Sapere, cit.
13 - H. Beam Piper, “Omnilingue” in: Antologia Scolastica, a cura di Isaac Asimov (Biblioteca di Urania, Mondadori, 1972). Testo originale di “Omnilingual”: www.gutenberg.org/files/19445/19445-h/19445-h.htm.
Note foto
(NF1) Crediti immagine di sfondo: foto di Georges Jansoone, da Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/File:Lucca.city_walls01.jpg), rilasciata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported.
(NF2) Il lancio di uno Space Shuttle con l ‘enorme serbatoio di carburante (mostrato nella foto a destra prima di essere assemblato) che sarà abbandonato prima dell ‘entrata in orbita. Fonti: NASA Media Archive.
(NF3) Il piccolo chip (denominato StarChip) del peso di circa 1 g che contiene la strumentazione necessaria a una sonda in viaggio verso Alpha Centauri. © Breakthrough Starshot.
(NF4) Illustrazioni artistiche del progetto Starshot: a sinistra, una vela spinta da un fascio laser proveniente dalla Terra; a destra, il sistema per la produzione del fascio, distribuito su un ‘area di circa 1kmq. © Breakthrough Starshot.
(NF5) Una vignetta per prendersi gioco del “Pregiudizio Antropico”: l ‘istruttore degli astronauti alieni afferma “... in base ad ogni possibile prova, sul pianeta Terra che stiamo per visitare non ci aspettiamo alcuna forma di vita; per tacere d ‘altro, vi è troppo ossigeno” (da: Franco Bandini, “Il mistero dei dischi volanti”; Giunti & Nardini, 1971; Mursia, 2016)