Livio Ferrari
Massimo Pavarini
1. Il sistema della giustizia penale come solo dispensatore di sofferenza non è tollerabile. Neppure infliggere dolore all’autore di una strage è utile al miglioramento della società: al sangue delle vittime si aggiungerebbe unicamente una sofferenza in più: quella del pluriomicida condannato. Quanto, poi, possa essere giusto reagire al male con il male ci sembra una questione oggi priva di senso, stante che la pena retributiva rinvia all’idea di meritevolezza di pena improponibile in uno Stato laico.
2. Eppure nella cultura patibolare che da millenni ci ammorba, alla paura di essere vittime, collettivamente reagiamo invocando penalità come sofferenza nei confronti di chi giudichiamo pericoloso perché autore di un delitto. L’idea che al male si debba reagire con il male finisce così per non essere messa in discussione, quasi fosse una ovvietà. Mentre, con spirito critico, dovremmo interrogarci su cosa possiamo fare per limitare il delitto, perché il delitto è esso pure sofferenza, dolore, male.
3. Nella società moderna, la reazione al delitto è politicamente legittima solo se utile, cioè se capace di contrastare la criminalità e/o contenere la recidiva: cioè, se la reazione al delitto è effettivamente capace di prevenire futuri delitti.
4. Con l’avvento dell’era moderna, la società occidentale ha ritenuto che la pena privativa della libertà – cioè il carcere – avesse sia la virtù di minimizzare la sofferenza della reazione penale, sia la capacità di intimidire i potenziali violatori dal delinquere, nonché di educare i condannati a non recidivare. Il carcere fu salutato come fulgida invenzione del progresso dei tempi: una pena finalmente democratica, perché privativa di un bene da tutti gli uomini posseduto e apprezzato in uguale misura: la libertà personale; una pena misurabile con estrema precisione: da un secondo all’eternità; una pena economicamente virtuosa, perché finalizzata ad un progetto di inclusione sociale del condannato.
5. Le finalità di prevenzione non sono mai entrate in crisi: esse furono e rimangono a distanza di due secoli ancora condivisibili e meritevoli di essere tenacemente perseguite. Ad entrare in irrisolvibile crisi sono state invece le modalità punitive. Prima fra tutte, il carcere. Sul punto non merita insistere più di tanto: il fallimento carcerario è da tempo universalmente ed unanimemente riconosciuto. La pena carceraria aveva al suo apparire persuaso per la sua efficacia preventiva. Il tempo ci ha mostrato, senza ombra di dubbio, da vero galantuomo, che ci eravamo illusi: il carcere ha clamorosamente fallito ogni finalità preventiva della pena.
6. I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di tutti coloro che intendono il vero senza pregiudizi ideologici: il carcere non solo tradisce la sua mission preventiva, cioè non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali, cioè attenta alla dignità umana dei detenuti e delle loro famiglie.
7. L’aumento della popolazione carcerata rende evidente come la paura della punizione non sia un argomento capace di ridurre i reati: lo spettro della prigione non potrà mai fungere da inibitore delle condotte devianti - come peraltro non lo furono le sanguinarie pene di un tempo – per mille e buone ragioni: perché l’agire umano non sempre è governato dalla razionalità; perché la pena che deve seguire al delitto è una eventualità solo probabile, mai una certezza; ecc.
8. I detenuti risocializzati alla legalità, sono ovunque pochi e lo sono “nonostante” il carcere e non “in virtù” del carcere. La recidiva, in quasi tutto il mondo, supera il 70%. La stragrande maggioranza di chi oggi è in carcere non lo è per la prima volta e non lo sarà per l’ultima. Non esiste Paese al mondo che a questa regola faccia eccezione. E anche sotto questo profilo, esiste una ricca letteratura scientifica internazionale che non solo ci descrive il fenomeno, ma ci spiega anche perché il carcere – pure il migliore del mondo – non riuscirà mai ad educare alla legalità attraverso la sofferenza della privazione della libertà personale. L’esperienza oramai secolare delle conseguenze della detenzione ci insegna, al contrario, che la pena del carcere educa alla delinquenza e alla violenza.
9. La prigione, sempre ed ovunque, viola i diritti fondamentali e compromette gravemente la dignità umana dei condannati. Certo: non tutte le carceri sono uguali sotto il profilo del rispetto dei diritti dei detenuti ed è quindi giusto riconoscere che ci sono sistemi penitenziari migliori o peggiori di altri. Ma non esiste esempio storico di un carcere capace di limitare la sofferenza del condannato a quella sola che consegue alla privazione della libertà personale. La pretesa punitiva di farlo attraverso la privazione della libertà personale necessariamente comporta che altri fondamentali diritti vengano sistematicamente compromessi: dalla vita all’incolumità fisica; dall’affettività alla salute; dal lavoro all’istruzione; ecc. Il carcere, a ben intendere, sempre più ci appare come una pena pre-moderna, come una sofferenza più del corpo che dell’anima.
10. Il riformismo penitenziario può oggi giustificarsi solo in una strategia di riduzione del danno. Si può, se lo si vuole, limitare quantitativamente le pene detentive; si può, se lo si vuole, contenere la sofferenza del carcere. Ma questo, confessiamolo, poteva valere anche un tempo per le pene corporali e la tortura. Ma così operando non si converte il fallimento carcerario in successo. Anche il carcere migliore è nella sostanza inaccettabile. Se, in ossequio anche al riconoscimento di molte costituzioni democratiche moderne come quella italiana del 1947, la reazione al delitto deve essere rispettosa della dignità umana e perseguire finalità di inclusione sociale, il carcere – per quanto riformato – non sarà comunque una risposta soddisfacente al delitto, perché mai il carcere potrà effettivamente favorire l’inclusione sociale di chi ha commesso un delitto, perché mai il carcere potrà essere in assoluto rispettoso della dignità umana del condannato.
11. Per lungo tempo e da parte anche di forze progressiste si è coltivata la speranza che un carcere riformato potesse trasformarsi in un’occasione di investimento pedagogico e di aiuto per la maggioranza di chi impatta con il sistema penale, che è – sempre ed ovunque – in prevalenza appartenente ad un universo di soggetti deboli e marginali. Intenzione condivisibile e pure fondata sul riconoscimento veritiero della natura prevalentemente di classe della penalità carceraria. Sì, è vero, il carcere, fin dalle sue origini, è il luogo di contenzione coatta dei poveri. Come è vero che si finisce in carcere prevalentemente perché si è poveri.
Sia chiaro: che i poveri debbano essere aiutati ci convince, come politicamente ci soddisfa la missione di politiche di inclusione sociale dei marginali. Ma ciò non consente di confidare che la volontà di aiuto e di inclusione sociale possano soddisfarsi nell’allocazione sociale della sofferenza. Fin che rimaniamo all’interno della penalità, non possiamo che essere ancorati alla cultura patibolare del dare dolore intenzionalmente e del dolore come unica moneta per espiare la colpa. Qui si annida l’irrisolvibile paradosso di ogni riformismo penale.
12. Credere e praticare oggi una volontà abolizionista del carcere è irrealistico quanto nel passato lo fu invocare l’abolizione della tortura e della pena di morte. Nulla di sostanzialmente diverso: anche allora ai pochi che si schierarono contro, i più opposero scetticismo, accusando gli abolizionisti di imperdonabile ingenuità. Ma la storia ha dato ragione a questi ingenui: la società senza pena di morte è più sicura della società piena di forche; la giustizia penale senza tortura garantisce l’accertamento della verità di più e meglio della pratica delle confessioni estorte sotto tormento.
13. Liberarsi dalla necessità del carcere perché pena inutile e crudele non comporta affatto rinunciare a tutelare il bene pubblico della sicurezza dalla criminalità. Anzi: per il solo fatto di rinunciare al carcere si produce più sicurezza dal pericolo criminale, stante che il carcere è fattore criminogeno esso stesso. Una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza pena di morte.
Ma liberarsi dalla necessità del carcere comporta anche qualche cosa di più importante che ridurre le nostre insicurezze. Significa liberarsi della pratica che fa dei poveri i soli capri espiatori di una società fondata sulla disuguaglianza. Riflettete: è mai possibile che le carceri di tutto il mondo siano abitate al 90% solo ed unicamente da persone povere? Con ciò non vogliamo insinuare che la “detenzione sociale” sia il prodotto di una accentuata propensione a delinquere dei poveri. Le migliori ricerche scientifiche ci suggeriscono una diversa spiegazione: la pericolosità criminale è distribuita equamente in tutte le classi sociali, ma ad essere puniti e a finire in carcere sono prevalentemente coloro che godono di minore immunizzazione dal sistema penale, cioè coloro che sono economicamente, culturalmente e socialmente più deboli. E questa pratica di verticalizzazione sociale per mezzo della penalità, cioè attraverso il sistema penal-carcerario finalizzato alla produzione di maggiore differenziazione, confessiamolo, è sempre più intollerabile.
14. Per educare le persone alla legalità ed al rispetto delle regole è necessario che anche le regole siano rispettose delle persone. Questa ovvietà pedagogica è un punto d’appoggio sufficiente per rovesciare il sistema intero della penalità. Perché mai siamo tanto insensati e presuntuosi da presumere di educare al rispetto delle regole attraverso la rappresentazione ed esecuzione di un dolore? Eppure così è: tutto quanto concerne il sistema della giustizia che si fonda sulla penalità è pensato, costruito, agito e giustificato per rappresentare e dare dolore. Ricordiamo nuovamente: la pena è sofferenza inflitta intenzionalmente. Non è un errore o un costo collaterale non sempre evitabile di un’azione altrimenti positiva. Quando si invoca la legittima difesa per giustificare il sistema delle pene legali, si commette un grave errore: per invocare la legittima difesa è necessario che la minaccia al diritto mio e/o di altri sia attuale, mentre quanto la Stato castiga il colpevole, il diritto mio o di altri è già stato leso o messo in pericolo. Insomma: non si punisce per difenderci da una minaccia che ci incombe, perché oramai è troppo tardi, ma solo per dare ad altri dolore. Ma perché questo ostinato sadismo? E’ il permanere di un pregiudizio antico, quello che confida che “la pena valga comunque e sempre la pena” di essere inflitta, che il dolore sia cioè una specie di farmaco salvifico. Non tanto e non solo una medicina utile per il condannato, ma anche, se non soprattutto, per noi. Questa è la cultura patibolare da cui dobbiamo liberarci.
15. E’, pertanto, necessario ripensare completamente a come confrontarci alla “questione criminale”, immaginando una politica di sicurezza dal delitto che sia in grado di mettere in crisi il termine stesso “pena”, che evoca solo dolore e sofferenza, ridando invece dignità ai termini che usiamo per indicare gli obblighi e i doveri nelle relazioni sociali.
Più del 90% delle persone che sono oggi in carcere, potrebbero essere ben diversamente responsabilizzate e controllate in libertà: attraverso opportunità pedagogiche ed assistenziali, attraverso modalità lavorative e formative, attraverso risposte economiche, attraverso opportunità risarcitorie.
16. Anche se ciò manderà in crisi tanti operatori e addetti ai lavori, figli di una cultura carcerocentrica, è ormai evidente che le prigioni devono essere chiuse per far spazio ad altro che sia effettivamente rispettoso dei diritti anche delle persone che si sono rese responsabili di gravissimi delitti. E’ realistico supporre infatti che avremo ancora necessità di interventi segreganti nei confronti di alcuni, ma che pensiamo siano comunque pochi, pochissimi, se l’attuale sistema definisce pericoloso solo un detenuto su cento.
17. La risposta al delitto non può che essere un intervento volto ad educare ad una libertà consapevole attraverso la pratica della libertà. Questa deve essere la regola. Ripetiamo: nei limitati casi in cui questo non sia immediatamente possibile, solo eccezionalmente, si possono prevedere risposte di tipo custodiale nei confronti della criminalità più pericolosa, ma in quanto extrema ratio a precise condizioni:
a) la perdita della libertà deve realizzarsi all'interno di strutture che salvaguardino sempre e comunque la dignità delle persone e i loro diritti. I luoghi preposti per questo non posso essere le carceri che conosciamo: esse sono state pensate per l’afflizione e la punizione e non per favore l’inclusione sociale. Noi immaginiamo altro: altro nella fisicità delle costruzioni e nell’economia degli spazi, altro nella professionalità di chi è preposto al controllo, al dialogo e all’aiuto.
b) I tempi di questa permanenza in strutture segregative debbono comunque essere ridotti al minimo e cessare in presenza di un interesse serio, da parte del condannato, in favore di programmi di inclusione sociale in libertà.
18. Per superare la cultura della pena e del carcere e riportare le persone che hanno violato la legge alla legalità ed al rispetto delle regole è assolutamente necessario che anche le regole siano rispettose delle persone! Dalle persone non possiamo pretendere cose anche giuste ma in modo ingiusto!
19. L’istituto della mediazione deve entrare stabilmente nel sistema della giustizia penale, in modo da poter essere applicato nelle diverse fasi della vicenda giudiziaria ed esecutiva, a seconda delle disponibilità e possibilità.
20. La risposta alla criminalità attraverso la libertà deve coinvolgere tutti i soggetti sociali del territorio e non può più essere lasciata solo agli esperti.