Pinocchio vegetariano
Modeste considerazioni rileggendo i classici
Luciano Luciani
Atipico racconto fiabesco che risolve in una straripante invenzione fantastica complesse motivazioni sociali e pedagogiche, Le avventure di Pinocchio (1881-1883) del Collodi/Lorenzini non poteva evitare d’incontrare un topos ricorrente di quel genere letterario: ovvero, contenuti tra il magico e l’orrido e, tra questi, l’orrore degli orrori: l’antropofagia, un tabù dalle radici remotissime, sempre sospeso tra natura e cultura.
Il tema fa la sua apparizione nel momento in cui Pinocchio sfuggito al cane Alidoro, incaricato di seguirlo per conto dei carabinieri “dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo”. Si approssima, ma mal gliene incoglie, perché “si trovò rinchiuso dentro una grossa rete in mezzo a un brulichio di pesci d’ogni forma e grandezza”: il burattino è finito tra le grinfie del Pescatore, un personaggio “così brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde, era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù. Pareva un grosso ramarro ritto sui piedi di dietro”.
Pinocchio, catturato dal Pescatore Verde, rischia di finire fritto in padella, perché scambiato per un granchio. Il dialogo tra il Pescatore e Pinocchio sembra avvenire tra due sordi che parlano lingue diverse. Il primo non ascolta le ragioni del povero burattino a cui concede un’unica alternativa: “Desideri essere fritto in padella, oppure preferisci di esser cotto nel tegame con la salsa di pomidoro?” Il Pescatore, dopo averlo infarinato, sul punto di gettarlo nella padella bollente – “Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento” – viene, però, disturbato dall’arrivo di Alidoro, giunto nella grotta attirato da una fame antica sollecitata dall’odore di pesce fritto. Il cane, accorgendosi che l’amico è in pericolo - Pinocchio lo aveva salvato da morte certa strappandolo alle acque del mare quando pocanzi si era reso conto che il mastino non sapeva nuotare - lo afferra coi denti senza fargli male e lo porta in salvo, lontano dagli appetiti cannibalici del Pescatore Verde. Appena sfiorato, dunque, il tema antropofagico che, di solito, nelle fiabe e nelle favole viene appunto accennato, evocato, alluso e quasi mai - è proprio il caso di dirlo – “consumato”. Il cannibalismo in Pinocchio è, dunque solo adombrato, agitato come possibile, inquietante minaccia. Perché, di suo, Pinocchio è un essere completamente vegetale, mentre l’antropofagia, si sa, è l’uso, istintivo o tradizionale o anche pratica eccezionale, di cibarsi di carne umana. Pinocchio, invece, è un essere tutto di legno, una creatura totalmente vegetale. Per cui, quando il burattino, per andare a scuola, rivendica “un po’ di vestito… Geppetto, che era povero, e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un berrettino di midolla di pane.” Inoltre, Pinocchio non si nutre mai di carne. I Lettori attenti del testo collodiano ricorderanno che il burattino non riesce a cucinarsi nemmeno un uovo, individuato come l’unico cibo per tentare di placare i morsi di “una fame da lupi, una fame da tagliarsi con il coltello”: Pinocchio, dopo aver condotto una dettagliata rassegna, degna dell’Artusi (che avrebbe, però, pubblicato il suo celeberrimo La scienza in cucina solo una decina di anni più tardi), circa i modi per cucinare quell’ovetto, rompe il guscio e ecco che ne esce “un pulcino tutto allegro e complimentoso: il povero burattino rimase lì come incantato, con gli occhi fissi, e con la bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano» (capitolo 5).
Non c’è ciccia per Pinocchio. La sua colazione consiste in tre pere, di cui mangia anche le bucce e i torsoli, e all’osteria del Gambero Rosso, mentre il Gatto e la Volpe si abbuffano di ogni tipo di cibo, lui si accontenta di uno spicchio di noce e di un cantuccio di pane. Per non dire delle vecce, di cui si nutre “a strippapelle” in una sosta della ricerca del padre condotta sul dorso del servizievole Colombo. Le vecce: una leguminosa i cui semi sono ricercati dagli uccelli, specie dai piccioni, ma cibo antico anche dei poveri e poverissimi. Se n’è perduta memoria e ne è rimasta traccia solo nei proverbi di area toscano/fiorentina: “In tempo di carestia l’è bono il pan di veccia”. I nostri vecchi ricordano di averne mangiato assai negli anni affamati dell’ultimo conflitto.