A proposito di guerra e pace
Luciano Luciani
Ancora guerra. E, come avvenne per i Balcani negli anni Novanta, sul portone di casa, o quasi. Una vicenda terribile questo conflitto armato tra gli eserciti della Federazione Russa e dell’Ucraina, che, negli ambienti più pensosi e avvertiti dell’opinione pubblica italiana, europea, internazionale, non poteva non sollecitare più d’una riflessione sulla natura della guerra, sulla sua presunta ineluttabilità, sui modi per evitarla. Nel corso dei secoli, infatti, una pluralità di voci, ora religiose ora laiche, ne ha stigmatizzato la brutalità, la ferocia, il suo luttuoso potere di scatenare le peggiori energie presenti nel cuore umano: in proposito il mondo classico ci ha lasciato non poche citazioni capaci di riassumere, icasticamente, l’assurda tragedia della guerra. Alcuni esempi? Si va dal prudente precetto pitagorico Non attizzare il fuoco con la spada, al più celebre e disincantato Se vis pacem, para bellum (Se vuoi la pace, prepara la guerra) fino all’espressione tacitiana Ubi solitudinem faciunt pacem appellant (Quando fanno un deserto, lo chiamano pace) che demistifica ogni grottesco mascheramento propagandistico delle più abbiette aggressioni e dei massacri più spietati. In tempi relativamente recenti, Voltaire nel suo Candido, 1757, chiama la guerra “eroica macelleria” e nel Dizionario filosofico di sette anni più tardi la definisce “riassunto di tutti i flagelli e tutti i crimini”. Immanuel Kant nel suo Progetto di pace perpetua, 1795, si pone e pone ai Lettori il problema della eliminazione della guerra, il “grande cimitero del genere umano”. Le sue cause il filosofo tedesco le individua - modernamente - nell’anarchia dei rapporti internazionali, il cui superamento dovrebbe essere affidato alla istituzione di un’associazione legale tra gli Stati: un’anticipazione di quel pacifismo giuridico che avrebbe faticosamente visto la luce solo nel secolo successivo. L’ idea “razionale di una comunità perpetua pacifica… di tutti i popoli della terra, che possano venire tra loro in rapporti effettivi” non è tanto un principio etico-filantropico, quanto un principio giuridico. Il perfezionamento di un potere comune al di sopra degli Stati, capace di tutelare tutti i popoli e tutti i cittadini è stata anche la posizione di Norberto Bobbio nella vicenda della guerra del Golfo, 1991, quando il filosofo torinese prese le distanze da un pacifismo da lui definito “sentimentale” o anche “estremista”, inadeguato in quanto incapace di comprendere le ragioni profonde dei conflitti: esso gli appare “non critico, tardivo perché si muove sempre dopo la crisi che sfocia nel conflitto”. Per Bobbio, infatti, non si tratta di condannare le guerre, bisogna impedirle. La sua proposta si muove su un piano diverso rispetto a quello della non violenza, giudicata troppo radicale ed estremista, e punta alla formazione di un potere comune al di sopra degli Stati, con la forza e l’autorevolezza di giudicare le loro controversie Per Bobbio tale sopra-organismo è l’Onu. Al pacifismo “sentimentale” viene lasciato, invece, solo un ruolo di sensibilizzazione, di propaganda in favore della pace, al più un compito blandamente educativo.
E in effetti le mobilitazioni per la pace sono sempre risultate sconfitte sul piano politico pratico. D’altra parte, il pacifismo è una dottrina storicamente giovanissima e le figure e i sodalizi che si battono a partire dal presupposto che “la pace è un valore assolutamente positivo”, lo fanno sempre al di fuori degli schieramenti consolidati e delle teorie politiche tradizionali. Sorto alla fine dell’Ottocento, interno alla cosiddetta età dell’imperialismo, la nascita del movimento per la pace è, emblematicamente, contrassegnata da una sconfitta: la Grande Guerra, infatti, vede battuti sia il pacifismo cattolico, sia quello socialista, sia quello borghese. Fu, comunque, quell’evento disastroso, il primo conflitto mondiale, che permise a un movimento di opinione, modesto quantitativamente e percorso da non poche contraddizioni, di entrare a pieno titolo tra i soggetti politici del XX secolo, anche se poi, fra le due guerre, l’idea pacifista non avrà molti diritti di cittadinanza in un mondo di ideologie semplificate e semplificatrici.
Solo dopo Hiroshima e l’olocausto nucleare dell’agosto 1945, il pacifismo comincerà a far breccia nel bagaglio intellettuale ed emozionale dei singoli e dei gruppi che fino a quel momento a esso avevano sempre guardato con sussiego, condiscendenza o addirittura con sospetto: l’incubo atomico, infatti, cambierà le regole stesse della guerra e priverà di senso tutti i modi consueti di considerare i conflitti. Sino a oggi, sino alla recentissima dichiarazione del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, che, evocando le armi nucleari, il vero incubo che aleggia sopra questo conflitto, le ha escluse, bontà sua, dal panorama bellico della guerra in atto. Una malcelata minaccia, la sua, che suona come una bestemmia, della quale, speriamo, prima o poi qualcuno gli chieda il conto.