Cercare vere risposte a vere domande
Maria Arcà, Paolo Mazzoli
Perché un elastico si allunga?
Consideriamo per un momento questa breve domanda. E poniamocene subito anche un’altra: a che livello scolastico è giusto cercare una risposta?
Nella scuola dell’infanzia, nella scuola primaria, nella scuola secondaria o nell’università? Proviamo a scorrere tutte queste possibilità.
Nella scuola dell’infanzia
Tutti gli specialisti parlano di “età dei mille perché” (fra i tre e i sei anni) e danno consigli su come reagire quando si è bombardati da domande del tipo:
Papà, perché sogniamo? Oppure:
Maestra, perché la carta bagnata diventa morbida e si rompe subito?
Possiamo addirittura considerare questo livello di età come il periodo in cui il bambino ha un rapporto con il mondo reale più stretto e coinvolgente, dal punto di vista cognitivo, nel senso che sono gli anni in cui vengono messi in forma i modelli base della sua conoscenza del mondo. L’età dei perché rappresenta probabilmente la facciata esterna di un periodo critico per la mente del bambino, nel quale si stabiliscono fondamentali categorie di pensiero che costituiranno il supporto delle sue conoscenze future. Le proposte di guardare insieme, di fare insieme, di dare parole alle proprie opinioni rappresentano tentativi di capire “a misura” di chi pone le domande, spesso ben lontani dalle spiegazioni saccenti e strutturate che forse qualche adulto sarebbe interessato a dare.
D’altronde si tratta pur sempre della scuola dei piccoli, che non scrivono e non leggono, e hanno da poco imparato a parlare (attenzione però, che significa “imparare a parlare”?); ma è bene ricordare che spesso le domande dei bambini nascondono malamente il loro desiderio di dare, per primi, una risposta che li interessa.
Nella scuola primaria
La preparazione degli insegnanti è ormai affidata alle università, eppure spesso si pensa che sia troppo dispersivo passare il tempo a occuparsi di domande così rozze e puerili. Ci si sente già in una scuola “preparatoria”, dove bisogna dare quei “rudimenti” che permettono al bambino di accostarsi alle discipline scientifiche in modo serio e rigoroso. Ma quali sono questi rudimenti? Le parti del fiore, il ciclo dell’acqua, il problema dell’inquinamento, gli apparati del corpo umano, la classificazione degli animali ecc. Certo, con lo studio di questi argomenti i bambini imparano una quantità di parole della scienza che danno loro l’impressione, e forse più che a loro ai loro genitori e ai loro insegnanti, di fare scienza a scuola. Ma il bambino continua a chiedersi: perché un elastico si allunga? E comincia a farsi l’idea che la scuola non sia fatta per aiutare a trovare questo tipo di risposte.
Per una persona che sia interessata a problemi di cultura e che abbia una preparazione universitaria in qualche disciplina scientifica, le scienze che si fanno nella scuola primaria appaiono, in qualche modo, “false”. Se infatti si considerano le scienze come una importante struttura culturale che, in vario modo e a vari livelli, dà risposte alle più svariate domande di conoscenza dell’uomo, non si riesce a capire a che tipo di domande rispondono le varie litanie di parole e nomenclature che riempiono le pagine dei diversi sussidiari.
È paradossale ma non è affatto raro che un genitore geologo si incanti a sentire sua figlia ripetere l’ordine delle ere geologiche: archeozoico, paleozoico, mesozoico, cenozoico e quaternario, chiedendosi cosa mai ci sarà dietro a quelle parole nella testa di una bambina di 10 anni. Contemporaneamente, i grandi problemi di base delle scienze non sembrano essere affatto pertinenti all’istruzione scolastica elementare; e si arriva così a pensare che parlare veramente di scienze potrebbe confondere il bambino che sta diligentemente imparando “tante cose che gli saranno utili quando andrà alle scuole superiori”.
Nella scuola secondaria di 1° grado
Qui le prime grosse contraddizioni cominciano ad emergere. A questo livello di scuola ci sono insegnanti che hanno una preparazione culturale specifica nelle scienze sperimentali. Alcuni di loro sono quei padri e quelle madri di cui si parlava poco fa. E allora, che fare? Studiare scienze sui libri è deprimente, si ha proprio la sensazione di bluffare coi bambini, facendo loro imparare cose che appaiono sempre o troppo schematiche, o troppo astratte, quando non sembrano scorrette o del tutto superate. E poi resta il problema: l’elastico, perché si allunga? Qualche insegnante tenta di dare alle sue lezioni un’impostazione sperimentale, osservando in classe cose che succedono realmente. Ma non si può certo parlare di elastici, perché o sembra troppo “semplice”, o sembra troppo “difficile”. Inoltre i ragazzi ormai sono grandi e fin troppo scolarizzati e le due ore settimanali a disposizione sono troppo poche.
Nella scuola secondaria di 2° grado
Dal momento che la scuola superiore non è obbligatoria, alcuni ragazzi non affronteranno mai questi problemi a scuola. Per gli altri, la fisica che studieranno non avrà nulla a che vedere con gli elastici. Così come non avrà nulla a che vedere con milioni di altri “fatti normali” sui quali ogni giorno ci si potrebbe interrogare. Troveranno sui libri una materia completamente formalizzata, divisa secondo i capitoli classici della fisica, organizzata secondo leggi, principi, teoremi e formule, corredata da vari esercizietti a fine capitolo.
Anche nei diversi tipi di scuole superiori l’insegnamento dovrebbe avere alla base l’osservazione di una realtà complessa di cui la fisica presenta un’interpretazione “formalizzata e generalizzata” costruita nel tempo dagli uomini. La relazione tra fatti e interpretazioni dovrebbe essere padroneggiata dai giovani che cercano di capire come è fatto il mondo e come il mondo è stato capito da coloro che hanno costruito la società e la cultura in cui dovranno vivere.
Arriviamo all’università
Le centinaia di matricole che iniziano il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dovrebbero avere l’opportunità di costruirsi una cultura scientifica veramente padroneggiata per poterla insegnare in tutti i suoi aspetti. Ma le ore a disposizione della didattica delle scienze sono veramente pochissime, quelle per le attività di laboratorio sono ancora di meno.
Ecco allora che neppure all’università il ragazzo saprà trovare una risposta alla domanda: perché un elastico s’allunga?
Se pensiamo poi che qualsiasi domanda inerente al campo delle scienze sperimentali potrebbe portare alle stesse considerazioni fatte a proposito degli elastici, c’è da interrogarsi sul senso dell’insegnamento delle scienze a qualsiasi livello di scuola preuniversitaria; mentre, per quanto riguarda l’università, c’è da chiedersi come sia possibile che i ragazzi si accostino ad un corso di laurea, che ha come obiettivo il saper insegnare, avendo alle spalle soltanto quattro formulette mal digerite, di cui si ignora il contesto nel quale hanno senso, e che non riescono a dire nulla di significativo su come è fatto il mondo. Questo non risponde certo a delle sensate esigenze di formazione.
Probabilmente vi è qualcosa di sbagliato nell’ impostazione generale dei curricoli scolastici. Non si può accettare l’idea che i bambini piccoli, e i ragazzi che hanno le loro domande di conoscenza, restino totalmente frustrati e insoddisfatti e che, contemporaneamente, si proponga loro di imparare delle cose “perché poi sono importanti per andare avanti nella scuola”. Perché se servono solo per andare avanti nella scuola ma restano totalmente sconnesse dai problemi di interpretazione del reale, vanno con coraggio riviste e, se è il caso, semplificate, pensando che ogni corretta terminologia può essere acquisita solo quando siano stati sviluppati i problemi concettuali che ci sono sotto.
Dovremmo in qualche modo cercare vere risposte a vere domande, a cominciare dalla scuola dell’infanzia. Se non vogliamo parlare di elastici, parliamo di patate, di muffa, di rane, delle gocce della pioggia, o di quello che si vuole. Cerchiamo però di costruire conoscenze sapendo a cosa si riferiscono e cosa vorrebbero spiegare, in modo che un bambino di qualsiasi età possa dire fra sé e sé, vedendo un elastico di quelli che si usano per assicurare le valigie sul portabagagli della macchina: “Io su questo so un sacco di cose perché ci abbiamo lavorato in classe”.
Ragionare e parlare sulle cose
Per molti aspetti l’insegnamento delle scienze sembra ideale per azzardare delle sperimentazioni che possono essere condotte in gruppo o dal singolo insegnante. Si tratta, infatti, di un’area disciplinare i cui traguardi per lo sviluppo di competenze sono delineati nelle Indicazioni Nazionali senza rigide imposizioni di contenuti. Inoltre, le discipline scientifiche sperimentali sono senz’altro quelle in cui (sia nella scuola dell’infanzia che nella scuola primaria) gli insegnanti si considerano meno preparati; e si tratta di discipline che non impongono un’acquisizione strumentale obbligatoria (quale quella del leggere e dello scrivere per la lingua) ma che costituiscono una parte essenziale del patrimonio culturale umano. Lavorando sulle scienze in classe si può seguire da vicino la crescita di conoscenza dei bambini e la loro capacità generale di inquadrare problemi per cercare modi di capirli e risolverli.
Ovviamente ogni docente ha i suoi modi di insegnare ma è chiaro che se si vuole cambiare – in meglio – la propria didattica bisogna provare a modificare intenzionalmente qualcosa, tenendo il più possibile sotto controllo l’“area sperimentale” del proprio lavoro per vedere cosa succede.
Dunque si può pensare di ritagliare una parte del tempo scolastico (possono bastare 2 o 3 ore alla settimana, distribuite però in modi diversi a seconda dell’argomento o dell’interesse dei bambini) e creare, nell’arco del tempo, uno o più momenti che sotto l’etichetta di “educazione scientifica”, diventino l’ora in cui si può ragionare e parlare su cose senza l’assillo di una rigida sequenza di obiettivi da raggiungere. Sarebbe auspicabile una sperimentazione didattica vera e propria su alcuni argomenti di scienze e, perché le proposte possano dare qualche frutto, bisognerebbe che gli insegnanti dedicassero un po’ di tempo a ragionare sulle esperienze prima di proporle in classe, magari discutendole con i colleghi e cercando di esplicitare le proprie opinioni e le proprie perplessità. Solo così si arriva ad elaborare una rete di concetti e di relazioni tra concetti con cui si può lavorare coi bambini, avendo in mente come indirizzare e guidare il lavoro.
Cos’è una situazione di apprendimento?
Il maestro o la maestra sta parlando. Non sta parlando da solo ma con i suoi alunni, almeno apparentemente. Può parlare di un argomento qualsiasi: di quando va messo l’accento sulle vocali o degli antichi Egizi, delle regole di un nuovo gioco o della sottrazione in colonna. È ovvio che vuole farsi capire, e infatti intervalla il suo discorso con domande e piccoli esempi. La maestra (pensiamo che sia una maestra, così il discorso vale anche per la scuola dell’infanzia, che di maestri ne ha davvero pochi) vuole comunicare qualcosa che “serve” ai bambini.
I bambini dovrebbero impossessarsi del modo di ragionare o di vedere le cose che viene loro prospettato dall’insegnante, e servirsene poi per fare qualcos’altro, o per capire altre cose simili. Tutti conveniamo che, se dobbiamo utilizzare una spiegazione che ci viene data da qualcuno per applicarla ad altri contesti o addirittura per agire in un certo modo, abbiamo assoluto bisogno di “farla nostra” e di capire pienamente il senso che può avere per noi.
Ora in classe la maestra parla, fa vedere cose (fotografie, oggetti, cartine geografiche, ecc.), ogni tanto fa domande e qualcuno risponde. Se la risposta è pienamente soddisfacente va avanti, altrimenti cerca di spiegarsi meglio. Noi crediamo che questa tipica situazione, che continuamente gli insegnanti creano in classe, costituisca una pessima situazione d’apprendimento. Crediamo che ben pochi bambini possano davvero appropriarsi di un discorso che procede in questo modo, e abbiamo il sospetto che quei 3 o 4 bambini sui quali la maestra si appoggia per andare avanti siano
quelli che in qualche modo “il gioco già lo sanno”.
Nell’insegnamento delle scienze, ma per tutte le aree culturali il problema è analogo, l’impostazione metodologica ha una importanza enorme. L’educazione scientifica può essere un aggancio per riflettere sull’efficacia della propria didattica, a partire dal quale possiamo rivedere e rianalizzare tutto il nostro fare scuola.
Lo scopo dell’insegnare scienze, a rigor di termini, dovrebbe essere quello di spiegare il mondo ai bambini ma, dato il pochissimo tempo a disposizione, le scienze tutte intere non potremo mai insegnarle, e neanche potremo dare ai ragazzi un quadro completo di “conoscenze di base”. Ricordiamo tuttavia, con molta semplicità, alcune condizioni indispensabili per costruire in classe una valida situazione d’apprendimento, cioè un contesto che abbia un’efficacia maggiore della situazione in cui l’insegnante parla (o legge) e interloquisce debolmente con alcuni bambini.
Per nostra esperienza, riteniamo infatti necessario:
- predisporre uno “scenario” di lavoro in cui i bambini devono operare,
- saper disporre fisicamente i bambini in relazione agli argomenti da svolgere,
- saper gestire una conversazione,
- saper rispettare i tempi di attesa.
Lo scenario
Se apriamo sul pavimento dell’aula un grande foglio bianco o colorato e ci poniamo sopra un peperone, un mucchietto di fagioli, una noce di cocco e una bustina di semi di basilico, e chiediamo semplicemente: “Che cos’è?”, anzitutto i bambini parlano. Quasi tutti e quasi sempre. Non c’è bisogno di “rompere il ghiaccio”, perché il ghiaccio c’è solo nella comunicazione interpersonale. Non può esserci del ghiaccio tra i bambini e un peperone da guardare, da tagliare, da aprire e da descrivere a parole. Il bambino non parla specificamente al maestro ma a tutti, e soprattutto non sa cosa deve dire, ma può solo dire quello che gli viene da dire intorno a qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. L’insegnante non può sapere dove porterà la discussione, ma può essere abbastanza sicuro che, così, non verrà progressivamente abbandonato dai bambini fino a perdere il senso di quello che sta dicendo. Si voleva parlare di semi e si scopre che per quasi nessuno i fagioli sono semi. Si voleva parlare di frutti e si scopre che nessuno pensa che il peperone sia un frutto, e tanto meno che il cocco sia un seme. Qualcuno chiede di alzarsi e di aprire un fagiolo per vedere se dentro c’è il seme. Lo apre e dice: “Ma non c’è il seme, c’è la piantina!”. Altri bambini alzano la mano e vogliono dire la loro. Ecco cos’è lo scenario.
La disposizione dei bambini
Tutti i bambini devono poter vedere, alzarsi per toccare e parlarsi. La configurazione ideale è quella del “cerchio” di bambini (o di un quadrato) in cui tutti possano stare seduti e parlarsi tranquillamente. Con i bambini piccoli si può fare un cerchio facendo sedere i bambini per terra; nelle classi successive occorrerà far sedere i ragazzi sulle sedie o sulle panche. La disposizione fisica dei bambini richiama anche una loro disposizione mentale. Il momento del “cerchio delle discussioni” deve essere presentato fin dall’inizio come un momento tutt’altro che “facile” e “rilassante”. È il momento in cui imparare a parlare in tanti, riuscendo ad ascoltarsi e a rispondersi. È un obiettivo ambiziosissimo, ma anche veramente importante per la crescita culturale dei bambini.
L’insegnante dispone al centro qualcosa e fa una breve domanda. A questo punto iniziano i discorsi dei bambini. Sarà difficilissimo abituarli a parlare. Si dovranno utilizzare gli espedienti più bizzarri, un falso microfono che si passa tra compagni, una pallina che si lancia a qualcuno per invitarlo a parlare.
Il ruolo dell’insegnante
C’è una cosa che tutti gli insegnanti dovrebbero fare e che vale più di mille discorsi: registrare una loro giornata di lavoro in classe e poi riascoltarsi. Quello che colpisce non è tanto il tono della voce, sempre squillante e talvolta un po’ ridicolo, o l’intensità, che il più delle volte è sistematicamente doppia di quella dei bambini; colpisce invece quanto il maestro parla. Parla sempre tanto, seguendo dei fili di ragionamento suoi, che a malapena lui stesso riesce a riconoscere quando si riascolta.
Se il bambino sta per parlare, lui immancabilmente “lo aiuta” finendo la frase. I suoi lunghi discorsi sono intervallati da un’infinità di: “Bravo”, “Adesso no, poi lo dici”, “Sì, ma questo non c’entra”, “Scommetto che Valentina lo sa”, “Ecco, era proprio quello che volevo sapere”, “Sì, però c’è una cosa ancora più importante di questa” [...]
È molto difficile trovare una normale conversazione su qualche cosa in cui l’insegnante, invece, chiede spiegazioni, ripete quello che ha detto un bambino e domanda se ha capito bene quello che il bambino ha detto, argomenta con qualcuno su quello che si sta dicendo, chiedendo agli altri di dire la loro. Riascoltando una registrazione ci si accorge che tante mezze parole e tanti mezzi interventi non sono stati nemmeno sentiti, ma quello che è più grave è che traspare quasi sempre un affanno da parte del maestro a dire “bene” o “non bene” o “spiega meglio”, a convalidare o a screditare le opinioni dei bambini invece di capire quello che dicono, dimostrando di interessarsi solo al valore delle risposte (variamente estorte) e non seriamente all’argomento.
Il ruolo di un insegnante che vuole lavorare sulle scienze dovrebbe essere principalmente quello di:
a) sollecitatore di problemi (provocatore)
b) controllore di coerenza (una specie di interlocutore un po’ tonto e pedante che prende sempre alla lettera i discorsi, li fa a pezzetti e controlla se filano o se ci sono delle contraddizioni; e questo indipendentemente dalla giustezza del contenuto).
Ecco un esempio, tra insegnante e bambini:
Ins: Chi fa più forza, Luca che deve reggere un sacco di patate o il banco che regge due bambini seduti sopra? (Provocatore).
Sara: Luca, non lo vedi che suda?
Luca: No, il banco, perché regge di più.
Debora: Il banco non fa forza, Luca.
Sara: Luca deve fare sempre più forza, il banco deve fare sempre la stessa forza.
Ins: Se Luca deve fare sempre più forza vuol dire che allora le patate pesano sempre di più? (Controllore di coerenza).
Sara: No. Ma per Luca sì, perché si stanca.
Luca: Ma la forza non la fanno solo le cose che si stancano.
Mass: Mio padre non si stanca mai.
Sara: Dipende, se deve spingere la macchina….
Luca: La metti in discesa, così va da sola.
Ins: Ma allora, così, tuo padre non la spinge affatto. Grazie che non si stanca.
Se le discussioni diventano lunghe si possono interrompere e poi riattivare dopo una breve pausa, senza spegnere l’interesse dei discorsi. È chiaro che oltre a sollecitare problemi e a controllare coerenze, l’insegnante deve svolgere una funzione di guida sistematica ed intenzionale.
Più che fare una lezione, si lavorerà in classe per proporre, accanto a quelle dei bambini, nuove coerenze che possono dar conto meglio dei fatti che si sono studiati. Non è vero che in questo modo l’insegnante “non insegna”, o si limita a fornire ai bambini semplici opportunità di crescita cognitiva, al contrario egli spinge continuamente verso una costruzione di conoscenze che partono dal capire dei bambini e si arricchiscono e si sviluppano diventando nuovi “capire” dei bambini stessi.
Il senso dell’attesa
Chi ha fretta è meglio che cambi mestiere. Purtroppo il difetto più comune tra gli educatori è proprio quello di avere fretta, di voler arrivare ad una risposta, ad una conclusione.
Ci sono molti “livelli di attesa” che giocano un ruolo importante nelle dinamiche scolastiche. In tutti i casi si dovrebbe arrivare a considerare l’attesa non come un prezzo da pagare per arrivare a qualcosa, ma come un fine dell’intervento educativo. Quando l’insegnante pone un problema e aspetta, è molto probabile che i bambini stiano ragionando e parlando per costruirsi, ciascuno secondo i suoi personali stili di conoscenza, una loro soluzione del problema.
Nel momento dell’attesa è in atto uno sforzo creativo da parte dei bambini. Questo sforzo richiede i suoi tempi, per di più molto diversi da bambino a bambino. Possiamo mettere in evidenza alcune modalità dell’attesa nell’insegnamento scolastico: l’attesa domanda/risposta, l’attesa del concetto centrale, l’attesa della maturazione a lungo termine.
C’è il tempo di attesa dell’insegnante quando pone una domanda: il tempo di attesa è giusto quando il bambino sente che l’insegnante sta attendendo e che è disposto ad attendere.
I bambini, in genere, sanno benissimo quanto tempo hanno a disposizione per rispondere, e questo è deleterio. Perché dopo due o tre secondi di tempo smettono di pensare alla risposta, tanto non hanno più altro tempo. La cosa più bella sarebbe dare ai bambini l’impressione che l’attesa è piacevole per l’insegnante. In questo modo sarebbero spinti a non lanciare sempre risposte fulminee ma ad attendere, loro stessi, un po’ di tempo per controllarne il senso.
Vi è poi quella che potremmo chiamare l’attesa del “concetto centrale”. L’insegnante ha in testa un ordine concettuale nel quale un concetto (o un’idea, una regola, un collegamento) è centrale e fondamentale. La discussione dei bambini invece ha le sue strade concettuali e sembra non arrivare mai al punto centrale. Attendere in questo caso è addirittura un segno di intelligenza e di freschezza mentale. L’insegnante è disposto a prendere in esame altre strutture concettuali e se ne interessa, proprio perché non le aveva previste a priori. I bambini sono portati a sviluppare il discorso senza salti, sempre sotto la spinta delle “provocazioni” e dei “controlli di coerenza” di cui si è parlato prima. I cosiddetti concetti centrali arriveranno, e se non arriveranno vuol dire che in quella situazione non c’era proprio la possibilità di farli uscire. Ma nel frattempo si sono trovate altre cose e si sono evidenziati altri problemi ugualmente importanti.
Per ultimo ci sono le attese “lunghe”, che si riferiscono a veri e stabili cambiamenti dei bambini. Secondo noi, gli insegnanti non hanno un’eccessiva fiducia nel cambiamento, nella crescita a lungo termine del bambino. Crediamo, invece, che molte preoccupazioni e molte ansie potrebbero essere superate confidando nei tempi lunghi. Pensiamo che la didattica scolastica usuale sia una didattica frettolosa e pessimista. Nel senso che tende a ottenere il massimo dai bambini nel breve tempo, non confidando del benefico effetto che il passare del tempo può avere anche sul piano strettamente cognitivo. Avere il senso dell’attesa per tempi lunghi non vuol dire soltanto sperare che ciò che non siamo riusciti a fare in classe prima o poi venga fuori col tempo, ma significa soprattutto avere il coraggio e la saggezza di lavorare con insistenza su quei contenuti di base che magari danno poca soddisfazione nell’immediato, ma che speriamo possano favorire uno sviluppo più ricco e duraturo della cultura dei bambini. Chi ha questo atteggiamento non si preoccupa troppo se su un certo argomento non si arriva a concludere niente di preciso, ma resta in attesa appunto di vederne dei riscontri più indiretti e profondi.
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Da Arcà M., Mazzoli P., Chi vince al tiro alla fune? Collana RicercAzione Libri Rossi, Vol. 17, Roma, Edizioni MCE, 2020