Muri, frontiere e confini
Alfonso Maurizio Jacono
Per gentile concessione de “La città di Fedora”
Oggi ricorre la caduta del muro di Berlino. A proposito di muro, mi richiamo spesso a una storia assai nota e lo voglio fare ancora qui. Quando Robinson Crusoe, la più pura e straordinaria espressione letteraria e mitologica del self made man moderno, ma anche il più diretto rappresentante del modo individualistico, padronale e coloniale, di rapportarsi all’altro, scopre, mentre è solo nell’isola, un’orma, si sconvolge e viene preso dalla paura. Allora comincia a rafforzare il muro. Eppure, quando secoli prima, un filosofo arabo della Spagna del XII secolo, Ibn Tufayl, raccontò una storia analoga, il Robinson di allora, scoprendo che nell’isola c’era qualcuno, invece di impaurirsi e innalzare le proprie difese, fu preso dalla gioia di sapere che non era più solo. Di più. Quando Robinson incontra Venerdì, impone la sua lingua, l’inglese, gli dà il nome per cui lo conosciamo (qual era il suo vero nome? Qual era la sua lingua materna?) e di sé dice non che si chiama Robinson, ma Master, cioè padrone.
Il muro di Berlino è caduto, ma un altro resta o si ha intenzione di innalzarlo, materialmente e metaforicamente. La recinzione metallica che separa l’Ungheria dalla Serbia e dalla Croazia tesa a respingere gli immigrati, il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico, ma anche la barriera invisibile e concreta che nel porto di Catania teneva ferme le due navi cariche di migranti ad alcuni dei quali è stato negato lo sbarco ed indicati dal ministro dell’interno come “carico residuale”. Il modo più efficace di respingere esseri umani è quello di usare un linguaggio disumanizzante. Non persone, aveva scritto Alessandro dal Lago, ma cose. Se degli esseri umani diventano un “carico” significa che sono casse da trasportare o da lasciare in deposito. Se ad essi togliamo il nome, il viso, la storia personale, tutto ciò facilita la crudeltà e il cinismo che si presentano sotto le spoglie del dover essere, della fermezza e della necessaria freddezza. Era per questo che Günther Anders difese la fiction americana su Auschwitz che tutti criticavano. In essa si narrava di persone e delle loro atroci sofferenze, anche se erano interpretazioni di attori. Proprio per ciò colpirono di più l’opinione pubblica tedesca e la costrinsero a interrogarsi più fortemente di quanto avessero fatto prima. I numeri, i numeri di morti, restano numeri. Non corrispondono a persone e non suscitano empatia. I numeri non riescono a uscire dalle recinzioni. Per questo è importante la memoria di ogni singolo caduto o ucciso. E ciò che non accade per i morti annegati nel Mediterraneo. Non hanno un nome e se restano vivi diventano un “carico”.
La parola muro ha due plurali: muri e mura.
Proprio così.
Muri ha a che fare con il muro di casa (muri portanti, ecc.); mura con le costruzioni che circondano le città o i territori allo scopo di difesa. Ammiriamo quelle delle città antiche e medievali. Sono mura che assicurano passaggi e che permettono, grazie al loro delimitare lo spazio, la relazione tra l’interno e l’esterno. Un tempo erano frontiere, mezzi di divisione, strumenti di separazione. Il biologo Stephen Jay Gould, ripreso dal sociologo Richard Sennett, distingueva tra frontiere e confini. Le prime si chiudono e chiudono, le seconde si aprono e aprono. In una cellula vi sono le pareti che trattengono internamente e somigliano alle frontiere e le membrane, che invece sono, nello stesso tempo, resistenti e porose, simili ai confini. “Io cerco di capire – scrive Sennett – come potremmo rendere i nostri confini urbani più porosi, così da favorire i contatti tra persone, anziché ostacolarli”. Pensare che la connessione globale di per sé abbatta le mura è un’illusione. Siamo connessi ma, paradossalmente, continuiamo a restare isolati con (e come) Robinson. Dovremmo avere soltanto confini porosi che aiutano l’interfaccia e la comunicazione e invece, nello stesso tempo, proprio perché abbiamo perso il senso del limite, necessario per andare oltre, erigiamo frontiere e innalziamo mura per non vedere donne, uomini, bambini morti in mare.
I confini si aprono, le frontiere si chiudono. Oggi, con il ritorno della guerra in Europa, stiamo ritornando alla chiusura delle frontiere. Già la pandemia ha trasformato i confini in frontiere dentro di noi. Ora la guerra sta esportando questa trasformazione anche fuori di noi. Ma in fondo, nelle acque del mare Mediterraneo, in mezzo ai morti annegati, tra cui donne incinte e bambini innocenti, le frontiere c’erano già e si opponevano cinicamente e disumanamente ai confini che univano l’Europa. Sì, perché i confini sono la vita; permettono l’osmosi, lo scambio, la comunicazione tra cellule, piante, animali, esseri umani; le frontiere sono i muri che tornano ad alzarsi non solo nel mondo esterno ma anche nel mondo interno, quello che abbiamo dentro, la caverna in cui introiettiamo la violenza del fuori. I confini danno conto della complessità della vita, della storia, della società, le frontiere ci fanno tornare alla semplificazione, non quella necessaria per comprendere e ordinare il mondo, e che non va scambiata con il mondo, ma quella che si confonde con il mondo e con la realtà e, ciò facendo, diventa realtà. Il dualismo amico-nemico diventa un gioco mortale e si ossifica. Nemico diventa chiunque non la pensa come te. Il confine è già frontiera e la frontiera è a sua volta barriera. La differenza si trasforma in estraneità e ostilità. La differenza è ciò che permette a un confine di essere non un luogo della separatezza (tra interno e esterno, tra primo piano e sfondo, tra apparenza e realtà, tra mente e corpo) ma della comunicazione. La frontiera perde la differenza e impone la condizione di alterità, di estraneità, di non familiarità, saldando così in modo sclerotico un’identità collettiva, che si autodetermina grazie alla distinzione, alla separazione, alla messa fuori del confine dell’altro, dell’estraneo, del non familiare (si potrebbe specificare: del mostro, del pazzo, del malato, del selvaggio, del primitivo, del barbaro, dello schiavo, della strega, dell’isterica, della prostituta, della zingara, dell’ebreo, del negro, del senzatetto, del drogato, del criminale, del transessuale, del nemico – e l’elenco potrebbe ancora continuare). Il bisogno di sicurezza diventa prigione aggressiva e il senso critico della ragione si affievolisce. Nel dualismo amico-nemico i confini diventano dunque frontiere e i diaframmi si trasformano in muri. Ritorna allora l’antisemitismo che scopriamo essere mai sopito, ma che anzi si risveglia e che va combattuto e respinto senza se e senza ma. Delle vecchie mura si stanno pericolosamente rialzando. Non sono quelle antiche e medievali, ma quelle fasciste e razziste. Sono le mura che diventano muri, non di casa, bensì dell’anima e della mente. Non deve succedere che tornino ad essere i muri portanti del male e dell’odio. Dobbiamo impedire che si rialzino ancora o che se ne alzino di nuovi.
I confini stanno dalla parte della pace, le frontiere da quella della guerra. Ciò che distingue il senso metodico e razionale della pace è porsi come scopo quello di riportare le frontiere allo stato di confini, lottare perché ciò torni ad essere. Questo fu a mio parere il senso della Resistenza italiana e della Costituzione, in particolare dell’articolo 11, fatta da uomini e donne, ideologie e partiti che non erano più divisi fra loro da frontiere, bensì da confini attraverso cui poterono comunicare e, nella differenze, raggiungere uno scopo comune e cioè la formazione di uno stato democratico.
Oggi come ieri prendere partito significa stare dalla parte dei confini e cioè stare dalla parte della vita e della pace e respingere la tentazione delle frontiere, rifiutare cioè di stare dalla parte della morte e della guerra.
Bibliografia
G. Anders, Dopo Holocaust 1979, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
G. Battiston e G. Marcon, Cooperazione, in La sinistra che verrà, Minimufax, Roma 2018.
A. M. Iacono, Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di Defoe, Turgot e Adam Smith, ETS, Pisa 2003.
A. M. Iacono, Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale e le merci, ETS, Pisa 2018.
R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano 2012.
Tra gli ultimi scritti di Maurizio Alfonso Iacono ricordiamo:
Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale, le merci, Edizioni ETS, Pisa 2018.
The Bourgeois and the Savage (trad. it Il borghese e il selvaggio), Palgrave Macmillan US, New York 2020.
Socrate a cavallo di un bastone, Manifestolibri, Roma 2022.
Per approfondire le diverse tematiche trattate da Maurizio Alfonso Iacono:
https://www.doppiozero.com/che-ci-fa-socrate-cavallo-di-un-bastone
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003280853
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003277710