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Le erbe alimentari, tra passato e presente
Alimurgia  

Le erbe alimentari, tra passato e presente

 

Raffaello Corsi

 

L’utilizzo delle piante spontanee nell’alimentazione umana risale alla notte dei tempi e fino alla prima metà del XX^ secolo ha rappresentato, soprattutto per le popolazioni delle zone agresti che si trovavano spesso in condizioni di indigenza, una fonte di cibo di facile reperibilità al quale ricorrere, a costo zero, per integrare la dieta e riempire almeno un po’ lo stomaco: si parlava per questo di “fitoalimurgia”. Il termine fu coniato nel 1767 dal medico e naturalista fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti,[1] nella sua opera “Alimurgia o sia Modo di rendere meno gravi le carestie” dove l’etimo “alimurgia” deriva dalla fusione delle parole latine “alimenta urgentia”, ovvero placare la fame in caso di necessità con le piante (da cui il prefisso “fito”).

 

La più recente diffusione dell’uso delle piante in cucina - ed in particolare la riscoperta delle erbe spontanee dei prati e dei campi - ha portato ad una nuova, in conoscenza delle loro proprietà e delle sostanze e principi attivi in esse contenuti. Oggi – almeno nei paesi più ricchi - non si parla più di fitoalimurgia, ma sempre più spesso di "nutraceutica" (anche questa una parola dovuta alla contrazione di due termini “nutrizione” e “farmaceutica”) intendendo con ciò una vera e propria disciplina scientifica che, avvalendosi di apporti dalla biochimica, dalla biologia molecolare , dalla medicina, tende a indagare sempre più i rapporti tra componenti e principi attivi contenuti negli alimenti di cui ci nutriamo e gli effetti sulla nostra salute: in pratica cercare di curarsi e mantenere lo stato di benessere attraverso l'alimentazione.[2]

 

Una farmacia in pentola….

 

In effetti gli studi degli ultimi anni sulla biochimica, la genetica molecolare e la ricerca dei principi attivi delle piante medicinali e alimentari, hanno dimostrato che molte delle specie botaniche che più comunemente vengono utilizzate in cucina contengono sostanze in grado di stimolare specifiche funzioni fisiologiche (ad esempio la digestione), piuttosto che interagire a diversi livelli del metabolismo: sono perciò da ritenere a tutti gli effetti delle piante medicinali. L’elenco di queste erbe sarebbe piuttosto lungo e qui ci limitiamo sinteticamente solo ad alcuni casi:

Il tarassaco è una vera erba medicinale che si può consumare lessata   Cicoria di campo (Cichorium intybus)   Il crespigno o cicerbita (Sonchus asper)

1)     Erbe tra le più consumate in cottura, come il tarassaco (Taraxacum officinale)[3], la cicoria selvatica (Cichorium intybus) e il crespigno o cicerbita (Sonchus asper), oltre a contenere principi amari in grado di stimolare la digestione (es. la lattopicrina del tarassaco o la intibina della cicoria), da alcuni studi scientifici sembrano possedere attività epatoprotettrici ed ipocolesterolemizzanti, riducendo i radicali liberi e lo stress ossidativo a livello del fegato e stimolando al contempo la produzione di lipoproteine ad alta densità (HDL). [4]

2)       Molte piante selvatiche (ad esempio le Crucifere come la rucola, i crescioni o i rafani) sono ricche di vitamine, come ad esempio la vitamina C. la vitamina A, la vitamina E ed alcune vitamine del gruppo B; è tuttavia bene precisare che - come accade per ogni alimento - una consistente parte di esse si degrada con la cottura. Alcune contengono inoltre quantità significative di polifenoli ed altre sostanze (come i flavonoidi) con funzione antiossidante[5] e sono una fonte apprezzabile di sali minerali quali calcio, potassio, ferro (anche se in quest’ultimo caso bisogna dire che si tratta di ferro non-eme, con bassa biodisponibilità, che diviene assorbibile nel duodeno solo dopo essere stato convertito in ione ferroso Fe+2 grazie alla vitamina C).

3)       Le Erbe selvatiche, come del resto la frutta, la verdura ed i cereali in generale, contengono sostanze polisaccaridiche a lunga catena che vanno sotto il generico nome di “fibre alimentari” e che non vengono demolite dagli enzimi digestivi. Tali sostanze, come ad esempio le mucillagini, di cui sono ricche, ad esempio, la piantaggine (Plantago lanceolata), la malva (Malva sylvestris) e la borragine (Borago officinalis), svolgono un’azione antinfiammatoria ed emolliente sulle mucose (anche intestinali), favorendo il transito intestinale e regolarizzando l’evacuazione. Nell’ambito delle sostanze classificabili tra le “fibre” si è ultimamente posta attenzione all’inulina, un polisaccaride del β-D-fruttosio (fruttosano) che le piante usano come riserva energetica, soprattutto nelle radici e nei tuberi, e della quale sono ricche piante come il Topinambour, la già citata cicoria selvatica, la barba di becco comune (Tragopogon porrifolius) o l’asparago selvatico (Asparagus acutifolius). Recenti studi hanno dimostrato che negli animali da allevamento, in particolare nei ruminanti, l’inulina si comporta da “prebiotico” migliorando il microbiota intestinale dell’animale: in pratica aumenta il livello di batteri “buoni”, come il Lattobacilli e i Bifidobacteria, a scapito di batteri “cattivi”, ovvero la micropopolazione patogena di Escherichia coli, Streptococcus faecalis, Salmonella enterica, Clostridium perfringens.[6]  

  

La borragine (Borago officinalis) è una pianta commestibile, ma da consumare con attenzione per la presenza di alcaloidi pirrolizidinici  

…ma con un po’ di attenzione

 

Proprio come la maggior parte dei farmaci, che uniscono gli effetti terapeutici e curativi ad alcuni effetti collaterali e indesiderati, così anche nell’uso delle piante per l’alimentazione è necessario prestare alcune attenzioni.

Quando oltre cinquanta anni fa (dagli anni ’60 -’70 del secolo scorso) ci si cominciò a rendere conto che il bestiame che pascolava certe piante subiva a lungo andare gravi danni al fegato, addirittura con esito letale, ci si pose il problema di quali sostanze assunte delle erbe mangiate provocassero tali problemi epatici.

Gli studi condussero ad individuare una famiglia di sostanze – gli alcaloidi pirrolizidinici (AP) – presenti in piante appartenenti a famiglie e generi diversi, ma in particolare nelle Borraginacee, in alcune Composite; sono ad esempio ricche di AP Borraginacee come Symphytum officinale, Echium sp., Cynoglossum officinale, Heliotropium europaeum e la stessa borragine (Borago officinalis), ma anche Composite quali il genere Senecio (Senecio sp.), Eupatorium cannabinum, Tussilago farfara, Petasites officinale: tutte piante che, fino a pochi decenni fa, venivano comunemente e tranquillamente utilizzate in preparati erboristici, tisane, tinture, ecc.[7] e che oggi non vengono più usate o impiegate con molta più attenzione. Ad oggi sono stati identificati circa 660 AP diversi, distribuiti in circa 6000 piante diverse (si ritiene che il 3% delle piante con fiore contenga alcaloidi pirrolizidinici)[8]

Studi clinici hanno dimostrato come alcuni AP, quali la lasiocarpina, la sinfitina, o anche la senecionina, possono a lungo andare essere epatotossici, indurre la sindrome vaso-occlusiva (VOS) a carico dei capillari dei sinusoidi epatici e portali, con ipertensione portale e stimolare carcinogenesi epatica [9] [10].

Non è da escludere che la presenza di questi alcaloidi si configuri come una risposta evolutiva di queste piante a difesa dagli attacchi degli insetti fitofagi; fatto sta che la presenza degli AP, contenuti anche in quantità superiori nelle sommità fiorite, possono creare qualche potenziale problema anche al miele che le api producono utilizzando nettare e polline di queste specie botaniche[11] e possono contaminare anche le tisane e altri preparati erboristici[12] (anche se è bene precisare che l’ordine di grandezza di tali contaminazioni è in genere di entità piuttosto bassa: si parla di contaminazioni medie di 6,7μg/kg per il miele e una mediana di 422 ng/g di tisana secca).

Comunque sia il CONTAM, il gruppo di esperti scientifici sui contaminanti nella catena alimentare dell’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, “ha concluso che gli alcaloidi pirrolizidinici 1,2-insaturi possono agire da cancerogeni genotossici negli esseri umani. Ha inoltre rilevato che sussiste una possibile preoccupazione per la salute dei bambini che consumano grandi quantità di miele” e che “sussiste una possibile preoccupazione per la salute umana connessa all’esposizione a tali sostanze, in particolare per chi, tra la popolazione in generale ma soprattutto tra le fasce più giovani, fa un consumo ingente e frequente di tè e infusioni a base di erbe”.   

Ha inoltre fissato “un nuovo punto di riferimento di 237 μg/kg di peso corporeo al giorno per valutare i rischi cancerogeni posti dagli alcaloidi pirrolizidinici[13]

Si tratta tutto sommato di un rischio abbastanza contenuto per chi consuma sporadicamente erbe lessate, il cui contenuto medio di AP è generalmente dell’ordine di pochi μg/kg, se non addirittura dei ng/kg; di fronte a piante contenenti anche piccoli dosaggi di AP è comunque consigliabile sempre il consumo in cottura,  gettando via dopo la lessatura delle erbe l’acqua di ebollizione, per eliminare ulteriormente le sostanze che sono passate in soluzione. È mia personalissima opinione che - pur con la consapevolezza che per sottrarsi ad ogni rischio si dovrebbe evitare completamente di assumere gli AP con l’alimentazione - con un po’ di attenzione e moderazione si possa anche non dover rinunciare ad un piatto di tortelli emiliani alle erbette o di tordelli maremmani con ripieno di borragine, spinaci e ricotta.

 

 

schema di un emicriptofita  

Come si riconoscono le erbette spontanee?

 

L’uso e la conoscenza delle erbe da cucinare venivano in passato tramandati da generazione a generazione soprattutto tra gli abitanti delle zone rurali; un vecchio detto del Lungomonte Pisano, semplificando molto, sosteneva che "l'erba che guarda per in su è tutta erba di Gesù", intendendo con ciò affermare che quasi tutte le piante che hanno le foglie principali originate direttamente a livello del terreno, con la pagina fogliare superiore rivolta verso l’alto (“guardando per in su”) fossero più o meno commestibili.

Botanicamente ci si riferisce alle piante emicriptofite[14], ma, ovviamente si tratta di una grossolana semplificazione. Se da un lato è vero che molte piante appartenenti alla famiglia delle Asteracee o Composite (ed in particolare le Liguliflorae) hanno portamento a rosetta basale (con habitus di emicriptofita) e sono anche ottime commestibili, non mancano tuttavia le eccezioni di erbe con scapo fogliare che si diparte dal suolo e che invece contengono sostanze tossiche o addirittura velenose. È perciò consigliabile non generalizzare, ma porre una grande attenzione nella raccolta e, ovviamente, una necessaria e puntuale conoscenza botanica delle specie raccolte

Si tenga oltretutto conto che la raccolta delle erbe alimentari si deve effettuare quando la pianta non ha il fiore (che è il principale elemento di riconoscimento e classificazione delle specie vegetali) e perciò la distinzione tra specie diverse diventa più ardua. Conviene cominciare raccogliendo quelle 7-8 specie eduli più comuni, possibilmente in terreni incolti e incontaminati da agenti inquinanti e magari con l’accompagnamento di un esperto; da lì si parte per poi costruire pian piano, in modo autonomo e personale, la conoscenza del proprio “giardino vegetale spontaneo”.  

 

Note

[1] Giovanni Targioni Tozzetti (Firenze 1712-1783), fu una importante personalità della cultura toscana del ‘700. Medico e naturalista-botanico, accademico della Crusca, divenne custode del Giardino dei Semplici succedendo al suo maestro Pier Antonio Micheli. Nei tre anni, dal 1742 al 1745, su incarico del Consiglio di Reggenza del Granducato di Toscana e dall’Accademia dei Georgofili, percorse in lungo e in largo ogni angolo della Toscana riportando le sue osservazioni naturalistiche e sugli usi e abitudini delle popolazioni rurali nella sua monumentale opera “Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali e gli antichi monumenti di essa.”

Profondo conoscitore delle campagne e molto attento ai bisogni della gente, descrisse nel libro Alimurgia (De Alimenta urgentia) il modo in cui gli abitanti delle zone agresti riuscivano trarre sostentamento alimentare, anche attraverso il consumo di erbe spontanee, durante i periodi di carestia dovuti a varie cause (ad esempio, calamità naturali, epidemie e pestilenze, periodi di guerra, ecc,) che impedivano la coltivazione dei campi e il raccolto.

 

[2] L’idea di attribuire all’alimentazione un ruolo fondamentale nel nostro essere non è nuova. Nel 1850, nella pubblicazione La scienza e la rivoluzione (in cui richiama il testo del fisiologo Jacob Moleschott La scienza dell’alimentazione) il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach afferma “Mensch ist, was er isst” (“L’uomo è ciò che mangia”) Feuerbach, comunque, con quella frase non si riferiva tanto al mantenere la salute con l’alimentazione quanto piuttosto al fatto che nei gruppi sociali umani l’alimentazione ed il cibo hanno un ruolo fondamentale per mantenere l’identità socioculturale collettiva e una coesione tra i membri delle comunità.

 

[3] Ung-Kyu Choi et all – “Hypolipidemic and Antioxidant Effects of Dandelion (Taraxacum officinale) Root and Leaf on Cholesterol-Fed Rabbits” - Int. J. Mol. Sci. 2010, 11(1), 67-78; 

 

[4] Khan, R.A.  – “Protective effects of Sonchus asper (L.) Hill, (Asteraceae) against CCl4-induced oxidative stress in the thyroid tissue of rats”.  BMC Complement Altern Med 12, 181 (2012). https://doi.org/10.1186/1472-6882-12-181

[5] Ranfa A., Maurizi A., Romano B. & Bodesmo M. (2013): “The importance of traditional uses and nutraceutical aspects of some edible wild plants in human nutrition: the case of Umbria (central Italy)”.  Plant Biosystems - An International Journal Dealing with all Aspects of Plant Biology: Official Journal of the Società Botanica Italiana, DOI:10.1080/11263504.2013.770805

To link to this article: http://dx.doi.org/10.1080/11263504.2013.770805

 

[6] Mauro Antongiovanni  –“Microbiota intestinale: l’importante ruolo dell’inulina” – In Georgofili INFO (Notiziario di informazione a cura dell'Accademia dei Georgofili) – 11 settembre 2019

 

[7] Firenzuoli F., Gori L. e Neri D. – “Fitoterapia clinica: opportunità e problematiche” – Annali Istituto Superiore di Sanità (2005); 41(1):27-33

 

[8] L. W. Smith and C. C. J. Culvenor, “Plant Sources of Hepatotoxic Pyrrolizidine Alkaloids” -  in Journal of Natural Products, vol. 44, n. 2, 1981, pp. 129-152, DOI:10.1021/np50014a001.

 

[9] Karl-Heinz Merz, Dieter Schrenk, “Interim relative potency factors for the toxicological risk assessment of pyrrolizidine alkaloids in food and herbal medicines”, in Toxicology Letters, 2016

 

[10] Yeong M.L., et al., “Hepatic veno-occlusive disease associated with comfrey ingestion”, in Journal of Gastroenterology and Hepatology, vol. 5, n. 2, 1990, pp. 211-214, DOI:10.1111/j.1440-1746.1990.tb01827.x, PMID 2103401.

 

[11] Christina Kast et Al. (2014) “Analysis of Swiss honeys for pyrrolizidine alkaloids. Análisis de alcaloides de pirrolizidina en mieles suizas” - Journal of Apicultural Research, 53:1, 75-83, DOI: 10.3896/IBRA.1.53.1.07

 

[12] Hans Reinhard & Otmar Zoller (2021) “Pyrrolizidine alkaloids in tea, herbal tea and iced tea beverages– survey and transfer rates” - Food Additives & Contaminants: Part A, 38:11, 1914-1933, DOI: 10.1080/19440049.2021.1941302

 

[13] REGOLAMENTO (UE) 2020/2040 DELLA COMMISSIONE dell'11 dicembre 2020 – in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea – L 420/1 del 14.12.2020

 

[14] Nel Sistema di classificazione di Raunkiaer, che si basa sulla forma biologica delle piante, ovvero sul modo con cui le piante riescono a proteggere le proprie gemme per superare la stagione avversa invernale, vengono definite “emicriptofite” quelle specie botaniche perenni con gemme a livello del suolo e con portamento “a rosetta”, ovvero protette dagli apparati aerei ormai morti o ricoperti dalla neve. (Cappelletti C. – “Trattato di Botanica”, Volume II , Terza Edizione – UTET, 1976, pagg. 803-807)