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Le rape e la rivoluzione

Le rape e la rivoluzione

di Luciano Luciani


 

 

Brassica Campestris

Davvero difficile spiegare perché da sempre un’aura di rusticale opacità avvolga la rapa. Ovvero la Brassica campestris, pianta della importante famiglia delle Brassicacee che allinea sulle nostre tavole non pochi ortaggi imprescindibili per una gustosa e sana alimentazione: cavolfiori, cavoli, ravanelli, rape… Ed è su quest’ultima umile e generosa figlia dei campi, coltivata da millenni per le sue radici carnose e largamente impiegata nella nutrizione umana e animale, che si è esercitata la fantasia, spesso malevola, degli uomini. Sarà che la rapa nasce dalla terra e nella terra, saranno le sue forme sgraziate e grottesche o che nel corso dei secoli si è andata connotando come cibo per gente povera e bestie, tant’è che la rapa ha visto crescere attorno a sé una fama di ottusità e dabbenaggine che non accenna a estinguersi. Ancora ai nostri giorni, infatti, annoveriamo il diffusissimo epiteto “testa di rapa” che non è certo percepito come un complimento e non si dimentichi, poi, il modo di dire “cavare il sangue da una rapa” per sottolineare l’inutilità a impegnarsi in una relazione con una persona ritenuta inadeguata o in un’attività destinate, l’una e l’altra, a rimanere improduttive, sprecando tempo e fatica. La nostra Brassica campestris, insomma, ha sofferto e soffre di una reputazione tanto bassa e volgare quanto immeritata, ennesima manifestazione dell’ingratitudine degli uomini. 

 

 

Rape rivoluzionarie

Eppure chi l’avrebbe mai detto che la rapa, così misconosciuta e dimessa, sarebbe stata la protagonista indiscussa di profonde, decisive vicende di trasformazione degli assetti economici e sociali dell’Inghilterra del Settecento? Stiamo parlando della rivoluzione agricola inglese, entrata nei libri di Storia, quella grande, quella con la S maiuscola, che a partire dagli anni venti del XVIII secolo aumentò in maniera cospicua la redditività dei terreni agricoli delle Isole Britanniche, migliorando radicalmente le condizioni di vita dei suoi lavoratori dei campi.

Alla testa di quest’opera di poderoso cambiamento di abitudini e pratiche, costumi e consumi consolidati da secoli, troviamo il visconte Charles Townshend (1674–1738), uomo politico inglese artefice di una carriera che lo aveva portato a ricoprire i più importanti incarichi previsti dal cursus honorum anglosassone. Assurto ai vertici del potere, all’ascesa di re Giorgio II (1683-1760) che gli antepose il corrotto whig sir Robert Walpole, il nostro aristocratico preferì uscire di scena per dedicarsi toto corde al rinnovamento agrario.

Forte della sua autorevolezza e dei suoi copiosi beni, il Townshend dette esecuzione a “nuovi sistemi di bonifica, aratura, semina, concimatura, allevamento e foraggiamento del bestiame, di costruzioni stradali, di riedificazione di cascinali  e di cento altri operati, tutti richiedenti l’uso di capitale” (Trevelyan). Un progetto davvero complesso il suo, in cui si rivelò strategica una pratica agricola già inaugurata dai contadini dei Paesi Bassi: la rotazione dei campi secondo quattro colture, frumento, orzo, trifoglio e rapa. Un metodo che manteneva il terreno perennemente in buone condizioni ed evitava di lasciare la terra incolta. Importantissimo il ruolo della rapa che contribuiva ad alimentare il bestiame nei mesi invernali, garantendo e incrementando la quantità di carne, latte, letame, concime fondamentale per i campi, a disposizione del popolo rurale.

Fu tale l’entusiasmo del ricco visconte per gli indubbi benefici derivanti dalla coltura della rapa che se ne fece per anni banditore così appassionato da meritargli il soprannome di “Turnip Townshend”, “Townshend della rapa” con cui erano soliti sbeffeggiarlo gli scrittori satirici inglesi suoi contemporanei. Intanto, però, la fertilità dei campi inglesi aumentava e la loro capacità produttiva anche: i lavoratori delle campagne mangiavano di più e meglio e si avviava quell’aumento demografico che, a detta degli storici, sarebbe stato uno degli elementi decisivi di quella rivoluzione industriale che alla fine del XVIII secolo pose le basi del mondo contemporaneo.

 

La rapa in cucina. La brovade.

Simbolo di una cucina semplice e sincera, la rapa non ha mai goduto di particolari simpatie da parte degli addetti al complesso lavoro di elaborare cibi e ammannire pietanze. Oddio, un certo Nicolas de Bonnefons, agronomo e cameriere addirittura di Luigi XIV, che ha utilizzato anche la rapa a sostegno di certe sue categoriche convinzioni – “La minestra di cavoli deve essere tutta di cavoli, quella di porri di porro e quella di rape di rapa” – ci fornisce, indirettamente, la notizia che la modesta brassica campestris avrebbe addirittura varcato le soglie delle cucine del Re Sole… Ma non è il suo ambiente, invece indissolubilmente legato a paesaggi campestri un po’ desolati, immersi nelle brume invernali. Scenari che poco attengono al mondo mediterraneo e rimandano piuttosto a panorami propri del nord e centro Europa. E proprio da quelle aree continentali, attraverso la porta del Friuli, sarebbe giunta in Italia la brovade cibo squisitamente (è proprio il caso di dirlo!) regionale, degno contorno a piatti più impegnativi, in genere di carne di maiale.

La brovade si prepara solo in Friuli e si fa così: si prendono le rape bianche e violacee, si puliscono e si mettono in contenitori di legno a strati alternati con le vinacce che hanno già iniziato la fermentazione acetosa.

Si chiude il recipiente con un coperchio e un peso sopra e si lascia macerare per 2 mesi. Dopo questo tempo si grattugiano e si conservano in sacchetti di plastica o in barattoli di latta. Una ricetta? Eccola:

 

Rape acide col musetto

(Brovade cul muset)


Ingredienti per 4 persone

1 kg. di brovade – 1 cipolla – 2 spicchi d’aglio – salvia – prezzemolo – olio o lardo – brodo q. b.

Fai rosolare nell’olio la cipolla a fettine sottili, unisci un trito di aglio e prezzemolo, la brovade e una foglia o due di salvia. Lascia cuocere a fuoco bassissimo per un’oretta e, se occorre, bagna ogni tanto con il brodo caldo.

Si serve con il musetto (salame tipico friulano), con il cotechino o con carne di maiale cotta in qualsiasi modo.

Per il vino orientatevi su un buon rosso come l’Amarone Veronese o il molisano Carrese.