Anche la scuola ha l’orologio fermo
Mimma Liber
Faccio seguito al mio articolo, comparso su questa rivista, dal titolo “Eran le cinque della sera … sull’orologio fermo” 1, per raccogliere l’invito di Papa Francesco a farci carico di una vera e propria rivoluzione culturale per affrontare le sfide poste dalla crisi ecologica: sfide che coinvolgono non solo l’ambito naturale, ma anche quello economico, sociale e quello dei valori.
Ma - riflettevo in chiusura – è pronta la società laica a rimettere in discussione i modelli di sviluppo, di crescita economica, di organizzazione sociale e gli stili di vita che ci hanno condotto fin qui? Non è troppo tardi?
Tento ora di superare il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà, e aggiungo: quale potrebbe essere il volano di una nuova antropologia che dovrebbe avere i caratteri di un vero e proprio cambiamento di paradigma?
Se questa è una sfida formativa, la scuola è senz’altro il soggetto che deve farsene carico. Non mi nascondo la portata di questo compito, che riassumo nelle parole dell’antropologa Ida Magli “L’educatore si trova oggi nella situazione di insegnare ciò che nessuno sapeva ieri e di prepararsi ad insegnare ciò che nessuno sa ancora, ma che molti dovranno sapere domani”
Parlo di sfida perché purtroppo la scuola non è abituata a tracciare orizzonti, presa com’è dallo sforzo di trasmettere conoscenze analitiche all’interno dei perimetri disciplinari. Eppure oggi è indispensabile rintracciare cornici di senso per ridisegnare gli intrecci profondi fra le diverse aree di conoscenza e di esperienza: oggi è il momento della sintesi e della ricerca di significato, poiché affrontare la globalità implica assumere l’ottica della complessità.
Dice Edgar Morin: “c’è una inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave fra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra.”
È necessario quindi che l’azione della scuola punti a una “testa ben fatta” piuttosto che a una testa ben piena.
In questa prospettiva, l’organizzazione del curricolo deve aprirsi alla didattica per progetti, che promuove, meglio di altre, un apprendimento attivo a partire da un compito di realtà. Il progetto mette al centro un problema da analizzare e da affrontare, lo articola poi col contributo di conoscenze e di competenze relative a più discipline, finché, facendole convergere in funzione di una analisi completa dei dati, si delineino possibili risposte risolutive. I saperi così superano la rigida successione imposta dai canali disciplinari, e concorrono a ricostruire lo spessore di una realtà complessa, aperta e problematica.
L’apertura alla interdisciplinarità è dunque la condizione necessaria perchè la scuola possa affrontare con successo le nuove sfide formative. Ma questo richiede una politica di aggiornamento del corpo docente che l’istituzione non ha finora voluto fare. O meglio, che ha fatto marginalmente nelle direzioni più disparate, senza toccare il nocciolo dei processi di insegnamento-apprendimento. Da qui il mio pessimismo della ragione.
Eppure l’ottimismo della volontà, indispensabile patrimonio di chi lavora in prospettiva formativa, mi suggerisce importanti spunti tematici da esplorare in classe per affrontare il tema della custodia della terra, a partire dalla ricerca delle ragioni storiche, etiche e culturali che sostengono questo impegno in nome dell’Uomo, etsi Deus non daretur.
Anzitutto l’urgenza posta da una realtà inequivocabile e ormai ineludibile: lo sfruttamento delle risorse del pianeta è a livello di allarme: la terra, la nostra casa, è a rischio di collasso e comincia a presentarci il conto. Perchè? All’origine del problema c’è la centralità delle leggi fisiche della termodinamica e dell’entropia in particolare, che nei corsi di fisica sono per lo più sviluppati per i loro aspetti contenutistici, ma quasi mai per la portata che hanno nella storia dell’uomo. La termodinamica regola, infatti, le trasformazioni di energia e di materia, che sono alla base sia dell’Universo nella sua evoluzione, sia della storia degli esseri viventi. Essi, infatti, vanno man mano conquistando e sfruttando nicchie ecologiche per assicurarsi la sopravvivenza, e la conoscenza dei vincoli e delle opportunità offerti dall’ambiente fisico che li ospita è determinante per capire quale potrà essere la loro scena futura.
Molte e diversificate sono, infatti, le dinamiche che si intrecciano al reperimento delle risorse per la sopravvivenza: lo sfruttamento dell’energia, reso sempre più ricco e articolato dalla tecnologia, comporta il decollo di un nuovo sistema organizzativo. Si inventano nuovi sistemi di aggregazione, si individuano nuovi obiettivi: tutto questo incide profondamente sugli stili di vita e sui valori di riferimento che li accompagnano, fino a delineare man mano un vero e proprio modo di intendere il mondo e le relazioni sociali. Ad ogni stadio di sviluppo la società si ristruttura per far fronte all’aumento di complessità dell’organizzazione sociale, politica ed economica e minimizzare o controllare i rischi di disordine che la possono mettere in crisi. Parallelamente e inevitabilmente cresce il flusso entropico, aumenta cioè la velocità con cui l’energia si degrada, e si prepara così il terreno ad un futuro momento di crisi energetica: da qui, un nuovo spartiacque entropico.
Si intuisce, anche da questa breve sintesi, che la ricerca delle numerose cause e concause che concorrono a delineare i pericolosi squilibri che hanno segnato la storia dell’uomo nel suo habitat richiede il contributo di più discipline, umanistiche e tecnico scientifiche. L’importanza dell’inevitabile intreccio delle diverse dimensioni dello sviluppo umano è ben riassunta anche da Snow, nel suo celebre testo Le due culture: “Non conoscere il 2^ principio della termodinamica è come non aver mai letto un’opera di Shakespeare”. Un percorso più articolato su questi temi compare già nel libro di Rifkin: Entropia, Mondadori, 1989, che potrebbe essere una buona guida per i corsi di fisica, qualora volessero allargare lo sguardo ai problemi sociali e culturali connessi alla struttura del mondo fisico.
Un secondo tema chiave è quello che, partendo, dai problemi legati alla globalizzazione- quali lo squilibrio povertà - ricchezza, i grandi esodi di massa eil confronto/scontro fra le diverse culture - mette in primo piano il problema dell’identità.
Morin definisce questa nostra epoca come una “nuova preistoria”: la specie umana, infatti, dopo il suo primo apparire nel continente africano, ha dato luogo alla prima preistoria migrando pian piano e insediandosi sul pianeta, dove ha costruito poi civiltà diverse, differenziandosi e contendendosi le risorse. Ora il processo si sta invertendo: la globalizzazione rimescola i popoli, fa circolare le culture, le oppone anche in modo drammatico, rimette in gioco il pianeta come habitat di tutti; una nuova preistoria si affaccia per invitare l’Homo sapiens sapiens a riconoscersi uno, una specie vivente sfidata a sopravvivere nel riconoscimento di una comune identità terrestre.
Si tratta di riscoprire la Terra - Patria, ossia dilatare la nostra coscienza fino alle dimensioni planetarie. Per intraprendere questo cammino, occorre tornare sui nostri passi.
Chi siamo, chi siamo stati e cosa vogliamo diventare?
Ancora prima di sentirci eventuali figli di un Dio, siamo tutti, inequivocabilmente, figli della Terra, che ci ha plasmato attraverso un lungo processo evolutivo, sorprendentemente accompagnato e sostenuto dall’evoluzione culturale.
In più, forse unici fra gli esseri viventi, siamo capaci di meta-cognizione, ossia della capacità di pensarci, di ripensare il nostro stesso pensiero: che cosa dobbiamo e possiamo cambiare nel nostro modo di vivere questo drammatico presente e soprattutto il nostro incerto futuro?
Analizzando le categorie di pensiero abituali, sulle quali è ancora fondato il pensiero occidentale, E. Morin osserva che esse sono stampate sul paradigma cartesiano degli opposti: esso disgiunge il soggetto e l’oggetto, ciascuno con la propria sfera: da una parte la filosofia e la ricerca riflessiva; dall’altra la scienza e la ricerca oggettiva. Questa dissociazione attraversa l’universo da una parte all’altra: Io/ Altro, Soggetto/Oggetto, Anima/Corpo, Spirito/Materia, Finalità/Causalità, Sentimento/Ragione, Libertà/Determinismo, Esistenza/Essenza ...
Questo paradigma determina una doppia visione del mondo, di fatto uno sdoppiamento dello stesso mondo: da una parte un mondo di oggetti sottoposti a osservazioni, sperimentazioni, manipolazioni; dall’altra un mondo di soggetti che si pongono problemi di esistenza, di comunicazione, di coscienza, di destino. Così un paradigma può nello stesso tempo chiarire e accecare, rivelare e occultare. È nel suo seno che si trova annidato un problema centrale del gioco della verità e dell’errore.
Se leggiamo il reale col paradigma della complessità, invece, rinforza Rifkin, il dualismo degli opposti diventa il dialogo dei complementari. Essere significa essere per l’altro, e attraverso l’altro, per se stesso. Un individuo non ha un territorio sovrano interiore, ma è completamente e sempre sul confine; guardando dentro di sé guarda “negli occhi dell’altro e con gli occhi dell’altro”. In questo senso ciascuno di noi è l’incarnazione di quella parte dell’esperienza che l’altro ha avuto con noi e che abbiamo assorbito in noi stessi: le relazioni ci formano e determinano ciò che siamo. La nostra identità e coscienza individuali si formano attraverso l’unicità della nostra esperienza con infiniti altri: non esiste un semplice “io” autonomo, ma soltanto un’unica costellazione di numerosi “noi”. Noi siamo una “esperienza incarnata”.
Si apre così, accanto alla sfida dell’entropia, anche la sfida dell’empatia.
Anche per questo secondo tema, un percorso più ricco e articolato in prospettiva storica si può trovare nel recente libro di J. Rifkin “La civiltà dell’empatia” Mondadori 2010. In esso la storia, la filosofia, l’antropologia, la sociologia e l’etica concorrono ad arricchire il quadro di una nuova visione dell’uomo, e ne scandiscono le tappe evolutive mentre si trasformano e si ricostruiscono i modelli di convivenza.
Da una visione puramente naturalistica possiamo dunque ricavare una identità di specie per un nuovo umanesimo scientifico: saremo capaci di trovare le risorse necessarie nella nostra natura e nella nostra cultura? E, soprattutto, saprà la scuola aggiornare il proprio orologio su un futuro che è già oggi?
1 Mimma Liber Eran le cinque della sera … le cinque della sera … sull’orologio fermo