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Nuove Indicazioni nazionali nella scuola: il parere reazione esperti

 

ministro Valditara 

Nuove Indicazioni nazionali e Linee guida? Il parere degli esperti

 

Il Ministro Valditara ha costituito una commissione con lo scopo di modificare le Indicazioni nazionali, tanto del primo quanto del secondo ciclo. La decisione ha sorpreso, anche perché accompagnata da una serie di rilievi critici che sono stati rivolti, soprattutto, alle Indicazioni del 2012, un testo largamente apprezzato dai docenti. Alcune interviste del Ministro hanno puntato il dito sulla "troppa roba" che appesantirebbe il testo, così come sulla “assurdità” di certi contenuti. A che serve, si è chiesto Valditara, proporre nell’insegnamento della storia lo studio dei dinosauri?

 


 

Il dito e la luna di Italo Fiorin Ω Dove sono i dinosauri? di Paolo Mazzoli Ω La fragilità del nostro sistema è evidente


Spazio aperto per commenti



 

Italo Fiorin

Orizzonti scuola Assunzione docenti, Italo Fiorin: La fragilità del nostro sistema è evidente, ogni ministro promette di risolvere il precariato ma non è così. 

 

Le dichiarazioni di Italo Fiorin durante il programma “Tutti in classe” su Rai Radio 1 offrono uno spaccato significativo della situazione attuale della scuola. Fiorin ha messo in evidenza l’incremento esponenziale del numero di docenti precari negli ultimi sette anni, sottolineando le fragilità del sistema educativo e le difficoltà nel trovare soluzioni efficaci. 

Fiorin ha evidenziato come, dal 2015 al 2022, il numero di docenti precari sia aumentato da circa 100.000 a quasi 235.000, con un incremento del 134%. Il dato, già di per sé impressionante, riflette una realtà complessa: ogni nuovo ministro dell’Istruzione ha promesso di ridurre il numero di precari, ma i risultati sono stati deludenti. La presenza di sette ministri in un arco di tempo così breve evidenzia la mancanza di continuità e di una visione strategica nel settore educativo.

“La fragilità del nostro sistema è evidente,” ha affermato Fiorin, sottolineando come ogni ministro abbia cercato di applicare la propria “ricetta magica” senza ottenere risultati concreti.

Un aspetto cruciale sollevato da Fiorin è la marginalità della scuola nel contesto delle politiche pubbliche. L’investimento economico necessario per stabilizzare i docenti precari è significativo, ma lo Stato continua a risparmiare, optando per contratti a tempo determinato che costano meno. L’approccio ha portato a una situazione di precarietà non solo per i docenti, ma anche per il personale ATA, che svolge ruoli fondamentali all’interno delle istituzioni scolastiche. Fiorin ha citato tre “cartellini rossi” dati al governo attuale: il primo per la condizione dei docenti precari, il secondo per il personale ATA e il terzo per la mancanza di riconoscimento degli scatti di anzianità. Tali segnali di allerta evidenziano una crisi profonda che richiede interventi urgenti e mirati.

Un tema particolarmente delicato è quello degli insegnanti di sostegno. Fiorin ha sottolineato che circa 103.000 dei 235.000 docenti precari sono specializzati nel sostegno, un settore che richiede particolare attenzione e competenza. La rotazione degli insegnanti di sostegno è un fenomeno preoccupante: il 60% degli studenti con disabilità cambia insegnante ogni anno, creando una situazione di instabilità che compromette il diritto all’istruzione di questi ragazzi.

“La situazione è insostenibile,” ha affermato Fiorin, evidenziando la necessità di un approccio più lungimirante nella pianificazione degli organici scolastici.

Fiorin ha suggerito che per affrontare le problematiche attuali, è fondamentale rivedere il meccanismo di determinazione dell’organico di diritto. Le scuole devono essere in grado di prevedere realisticamente il numero di insegnanti necessari, tenendo conto delle diverse situazioni e delle certificazioni degli studenti. L’approccio potrebbe contribuire a ridurre la precarietà e a garantire un’istruzione di qualità.

Inoltre, la questione dei concorsi per l’assunzione dei docenti è cruciale. Fiorin, nel corso del suo intervento, ha sottolineato l’importanza di una sistematicità nei concorsi, che devono essere espletati in modo efficace e tempestivo. Tuttavia, i dati mostrano una disparità allarmante tra il numero di posti disponibili e il numero di candidati, soprattutto nel Mezzogiorno.

 

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Il dito e la luna

in www.scuola7.it   Per gentile concessione dell'Autore

Il Ministro Valditara ha costituito una commissione con lo scopo di modificare le Indicazioni nazionali, tanto del primo quanto del secondo ciclo. La decisione ha sorpreso, anche perché accompagnata da una serie di rilievi critici che sono stati rivolti, soprattutto, alle Indicazioni del 2012, un testo largamente apprezzato dai docenti. Alcune interviste del Ministro hanno puntato il dito sulla ‘troppa roba’ che appesantirebbe il testo, così come sulla “assurdità” di certi contenuti. A che serve, si è chiesto Valditara, proporre nell’insegnamento della storia lo studio dei dinosauri?

 

Un bersaglio sbagliato

Sarebbe facile rispondere che l’autorevole dito accusatore è puntato su un bersaglio sbagliato. Le attuali Indicazioni non prevedono i pur simpatici dinosauri né in classe terza né mai, anche perché lo studio dei dinosauri non riguarda l’insegnamento della storia, che si occupa non delle specie animali ma delle vicende umane. Sbaglia, quindi, disciplina e quanto alla “troppa roba”, il Ministro sbaglia anche Indicazioni. Forse ha confuso le attuali con quelle varate nel 2004 dal Ministro Moratti, con centinaia e centinaia di obiettivi meticolosamente snocciolati, classe per classe, quasi fossero una guida didattica.

Ma non conviene dedicare molta attenzione a queste battute, che distolgono da quello che veramente è in gioco. Quello che disturba, forse, nelle attuali Indicazioni non è il carico nozionistico, ma la cornice culturale.

A coordinare la commissione è stata chiamata la coautrice di un volumetto titolato ‘Insegnare l’Italia’. Si tratta di un testo particolarmente critico nei confronti delle Indicazioni, viste come espressione di una cultura pedagogica progressista considerata fonte di tutti i mali della scuola.

 

“Papà a che serve la storia?”

Quale Italia si dovrà insegnare, che le Indicazioni tradiscono? Il loro peccato originale sarebbe di essere poco o forse per nulla preoccupate di impartire una educazione che renda consapevoli dell’identità nazionale e di essere, invece, troppo sensibili ad una visione mondiale dei problemi.

Per queste ragioni sul banco d’accusa viene messo soprattutto l’insegnamento della storia. “Papà, a che serve la storia?” chiedeva il piccolo figlio di Marc Bloch, come riporta il grande storico in Apologia della storia. Vale la pena ritornare a questa domanda.

Per le Indicazioni del 2012, “lo studio della storia, insieme alla memoria delle generazioni viventi, alla percezione del presente e alla visione del futuro, contribuisce a formare la coscienza storica dei cittadini e li motiva al senso di responsabilità”[1] promuovendo pensiero critico, conoscenze fondate su fonti attendibili, apertura alla considerazione dei punti di vista con i quali si leggono i fatti, che vanno vagliati con rigore.

 

Dal libro Cuore a Pinocchio

Per gli autori del volumetto ‘Insegnare l’Italia’, l’insegnamento della storia nella scuola del primo ciclo dovrebbe servire, forse, a suscitare amor patrio, a promuovere un’idea di italianità che scaturisce dalle magnifiche gesta di un passato finalizzato ad esaltarla. A questo scopo gli autori che vogliono ‘insegnare l’Italia’ reclutano non solo il libro Cuore, capace di suscitare autentici sentimenti di amor patrio, ma perfino Pinocchio, un burattino che finora è riuscito sempre a salvarsi da tutti gli intenti moraleggianti, facendosene beffe.

La storia qui interessa non in quanto disciplina scientifica, ma in quanto insegnamento utilizzabile a fini pedagogici: rafforzare l’identità italiana, esaltandone il processo storico che ha contribuito a renderci nazione. Le Indicazioni 2012 sono considerate poco patriottiche, eccessivamente aperte ad una visione globale delle vicende umane, troppo interessate a favorire la formazione di cittadini del mondo. Non è un caso che, insieme alle critiche rivolte all’insegnamento della storia, vi sono quelle rivolte all’idea di cittadinanza, che nelle Indicazioni 2012 è centrale.

Se le cose stanno così, allora non siamo di fronte ad una azione di aggiornamento del testo, come è stato fatto nel 2018 con il documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari, ma a una radicale riscrittura, a partire dal capitolo iniziale, quello che propone l’idea di scuola che ispira l’intero documento.

 

La formazione dell’uomo e del cittadino

La formazione dell’uomo e del cittadino è il compito perenne della scuola, ma richiede di essere sempre interpretato all’interno del contesto culturale nel quale si è chiamati a realizzarlo. Oggi non viviamo nell’Italia del libro Cuore, ma in un mondo globalizzato, in una società in continua e rapidissima trasformazione.

Scrivono le Indicazioni che, se “fino a tempi assai recenti la scuola ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea”[2], la situazione è radicalmente cambiata. Una cultura omogenea non esiste più, diventare cittadini significa attraversare un percorso formativo molto più complesso, nel quale riscoprire e valorizzare le molteplici appartenenze alle quali ciascuna persona partecipa, e da questa composita articolazione di identità può generarsi, attraverso l’educazione, una comunità più ricca e coesa.

 

Locale e globale

Oggi abitiamo una realtà nella quale locale e globale hanno assunto contorni nuovi, la nostra è una società multiculturale, l’interdipendenza tra ciò che è vicino e ciò che è lontano è continua. La cura dell’ambiente, la sicurezza dalle malattie, la prosperità economica, le conoscenze tecnologiche e il loro impatto…, tutto questo disegna un paesaggio culturale profondamente diverso dal passato, nel quale emerge con una consapevolezza più acuta che la nostra prima e fondamentale cittadinanza è quella umana. Apparteniamo al genere umano, condividiamo la casa comune che è questo nostro pianeta, siamo strettamente legati gli uni agli altri in una comunità di destino. Siamo, cioè, cittadini del mondo, o meglio, siamo chiamati a diventarlo.

 

Una cittadinanza a più dimensioni

Una considerazione della cittadinanza così allargata incontra ostacoli nelle tante spinte nazionalistiche e localistiche che, purtroppo, si sono largamente diffuse e minacciano la vita democratica. “Se il nazionalismo è la nuova forza organizzativa che sfida il globalismo, la nozione di appartenenza o non appartenenza a un gruppo sarà definita dalla cittadinanza ufficialmente riconosciuta, non dall’essere parte dell’umanità”[3].

Le Indicazioni 2012 richiedono di passare da un pensiero e da un sentire sbriciolato ad un pensiero e ad un sentire capaci di affrontare la complessità e chiariscono bene come l’educazione civica non possa essere interpretata in ristretti termini nazionalistici. Il tradizionale (e necessario) compito assegnato alla scuola di formare cittadini viene ripensato all’interno di un concetto di cittadinanza articolato a più dimensioni, che vanno tutte sinergicamente considerate. Si è cittadini della propria comunità locale, cittadini del proprio Paese, l’Italia, ma anche cittadini d’Europa e cittadini del mondo: “La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo”[4].

 

La multiculturalità come dato strutturale

La dimensione multiculturale interpella l’essere cittadini, ne diventa una componente, non solo una condizione esterna. In una realtà nella quale la presenza di persone con radici culturali diverse è ormai consolidata, la multiculturalità non è né un’eccezione né un’emergenza, ma un dato strutturale. La scuola a questo proposito ha un ruolo fondamentale, perché non solo ci sia una situazione di tolleranza o di pacifica convivenza, ma, “attraverso la conoscenza della nostra e delle altre culture, in un confronto che non eluda questioni quali le convinzioni religiose, i ruoli familiari, le differenze di genere”[5] si generi un autentico incontro, un reciproco arricchimento, una vera integrazione.

Senza il nuovo sguardo interculturale non sarebbe possibile comprendere i grandi problemi della condizione umana (degrado ambientale, caos climatico, crisi energetiche, distribuzione delle risorse naturali, situazione sanitaria, povertà e ricchezza, condizione femminile, condizione infantile, dialogo interreligioso, guerre e conflitti, informazioni e disinformazione…).

 

Le emergenze che interrogano la scuola

A livello globale, l’Agenda 2030 dell’ONU ha messo al centro dell’attenzione degli Stati e delle agenzie educative il tema della sostenibilità. Le migrazioni, l’avvento dei populismi, gli scontri tra culture diverse, hanno sollecitato Organismi come il Consiglio d’Europa a emanare importanti documenti sulla convivenza civile e democratica. Le vecchie e nuove emergenze ecologiche ed economiche planetarie (povertà, guerre locali, desertificazione, disastri ambientali…) interrogano la scuola sui temi della convivenza civile e democratica, del confronto interculturale e delle politiche di inclusione.

Scrivono le Indicazioni nazionali 2012: “L’elaborazione necessaria per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria”[6]. Tra gli effetti della globalizzazione vi è, nella sua problematicità, una interazione stretta e continua tra persone e popoli di diverse radici, storie, culture. Un punto di vista solo nazionale o eurocentrico non è adeguato a leggere la complessità della società planetaria del XXI secolo, come ben ricordano le Linee Guida per l’Educazione globale del Consiglio d’Europa (2008).

 

La cittadinanza come sfondo integratore

Nel documento Indicazioni nazionali e nuovi scenari, la cittadinanza è vista come: “vero sfondo integratore e punto di riferimento di tutte le discipline che concorrono a definire il curricolo. La cittadinanza riguarda tutte le grandi aree del sapere, sia per il contributo offerto dai singoli ambiti disciplinari sia, e ancora di più, per le molteplici connessioni che le discipline hanno tra di loro”[7].

Come la prospettiva interdisciplinare aiuta a cogliere la complessità della realtà, grazie alla collaborazione di punti di vista settoriali e specialistici, messi in dialogo tra loro, così la prospettiva interculturale aiuta a vedere i problemi dal punto di vista delle diverse culture e a cogliere l’interdipendenza stretta che ci lega come un’unica famiglia umana, come un’unica comunità di destino. Scoprirsi parte di questa grande comunità è la premessa per una consapevolezza più ricca del significato di cittadinanza.

Educazione civica ed educazione interculturale

Possiamo dire che in questa prospettiva l’educazione interculturale è una faccia essenziale dell’educazione civica, o, detto altrimenti, che non si può fare educazione civica che non sia anche educazione interculturale. L’educazione civica ha assunto progressivamente un significato molto ampio, ben diverso da quello espresso dalla celebre frase attribuita a Massimo D’Azeglio, comprensibile nel contesto storico risorgimentale: “Abbiamo fatto l’Italia. Dobbiamo fare gli italiani”, convinzione che ha ispirato per decenni il modo di intendere questo insegnamento, ancorandolo ad un luogo (l’Italia), ad una identità tutta da costruire (nazionale), sulla base di una lingua comune, di una storia comune, di una religione comune. Scrivono le Indicazioni 2012: “Oggi, invece, può porsi il compito più ampio di educare alla convivenza proprio attraverso la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali di ogni studente. La finalità è una cittadinanza che certo permane coesa e vincolata ai valori fondanti della tradizione nazionale, ma che può essere alimentata da una varietà di espressionied esperienze personali molto più ricca che in passato”[8].

 

Non è una questione di dinosauri

Il cambiamento non poteva essere più profondo: dal perseguire l’omogeneità al valorizzare le diversità, per una identità nazionale non uniforme, ma pluriforme.

La domanda è: questa idea di cittadinanza ha ancora legittimità? L’annunciata revisione delle Indicazioni sarà all’insegna della manutenzione e dell’aggiornamento del testo (come è stato nel 2012 rispetto alle Indicazioni del 2007 e nel 2018 rispetto alla versione del 2012), senza modificarne l’impianto culturale e pedagogico, o in discussione vengono messi valori fondanti?

Temiamo che i dinosauri, il libro Cuore, Pinocchio… siano il dito che nasconde la luna, il falso bersaglio. Temiamo che il viaggio nella direzione della scuola del futuro sia iniziato sbagliando verso, e ci riporti indietro, molto indietro nel tempo.

 


[1] MIUR, Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, in Annali della P.I., Numero speciale, Le Monnier, Firenze, 2012, p. 51.

[2] Ivi, p.10.

[3] F. M. Reimers, G. Barzanò, L. Fisichella, M. Lissoni, Cittadinanza globale e sviluppo sostenibile, Pearson, Milano-Torino, 2007, p. 21.

[4] MIUR, Indicazioni nazionali, cit. p. 11.

[5] Ivi, p. 10.

[6] Ivi, p. 12.

[7] MIUR, Indicazioni nazionali e nuovi scenari, 2018. Tale documento è stato redatto dal Comitato scientifico nazionale incaricato di rivedere e aggiornare periodicamente le Indicazioni 2012.

[8] Ivi, p. 10.

 

Dove sono i dinosauri?

Suggerimenti (non richiesti) per le nuove Indicazioni nazionali

La sola notizia del proposito di revisione delle Indicazioni nazionali ha scatenato molteplici discussioni, prima ancora che alcun atto formale sia stato ufficializzato e in assenza di informazioni praticamente su tutto.

Non sappiamo se la commissione che avrebbe nominato il Ministro sia effettivamente composta dai nove pedagogisti indicati nelle indiscrezioni della stampa e solo da loro. Non sappiamo quale mandato abbiano avuto, a parte il fatto che dovrà occuparsi delle Indicazioni del primo e del secondo ciclo, comprese le Linee guida per i tecnici e i professionali, un’impresa ciclopica. Non sappiamo se vi saranno sotto-commissioni e da chi sarebbero costituite. Soprattutto, non si ha idea di quali parti dei testi attualmente in vigore verrebbero revisionati o riscritti né se è prevista la collaborazione delle società scientifiche e delle associazioni professionali. Nulla.

 

Discutere sul nulla

Non c’è cosa più inutile, e avvilente, che discutere sul nulla. Purtroppo, i commenti e le prese di posizione sul proposito di revisione delle Indicazioni nazionali da parte del Ministro Valditara, così come le stesse repliche del Ministro, ne sono un esempio.

Eppure, su questa totale mancanza di informazioni attendibili, si è costruito un botta e risposta sui principi e i valori che dovranno caratterizzare le nuove Indicazioni: ci vuole più o meno identità nazionale; più o meno contenuti disciplinari; più o meno inclusione scolastica, ecc.

Il Ministro ha detto che occorre rafforzare l’insegnamento di arte e musica e che è assurdo che gli alunni di terza primaria studino i dinosauri (dove sono i dinosauri nelle attuali Indicazioni nazionali?). La Sottosegretaria Paola Frassinetti ha detto che non verranno toccate le materie scientifiche (perché?).

Alcuni storici reclamano la presenza di esperti di storia. E perché solo gli storici? Ecco allora che l’associazione di ricerca in didattica della matematica ha fatto la stessa richiesta e, poco dopo, si sono mossi gli esperti di didattica della lingua.

E, per completare la panoramica, i sindacati e il Ministro si sono accusati reciprocamente di avere una “visione proprietaria” della scuola.

 

Qualche considerazione di carattere generale

Accanto a queste prese di posizione sono uscite alcune considerazioni più distese e generali. Ne cito due: il lungo post di Franco Lorenzoni “Giù le mani dalla Indicazioni nazionali” e l’intervista di Reginaldo Palermo a Italo Fiorin per la Tecnica della Scuola intitolata: “Indicazioni nazionali: Valditara vuole cambiarle, forse in nome della identità italiana”.

Sia Lorenzoni che Fiorin si concentrano sul rischio di intaccare, se non stravolgere, l’impianto ideale e valoriale delle Indicazioni nazionali basato su principi della nostra Costituzione e su idee ritenute fondanti quali: intercultura, inclusione, persona, cittadinanza, comunità, mondialità.

È evidente che queste osservazioni sono molto rilevanti anche perché fanno capire quanto le Indicazioni nazionali, così come i vecchi programmi scolastici, siano documenti “calati nella storia”, espressione della cultura e dei valori prevalenti del periodo nel quale vengono emanate.

Da questo punto di vista è utile ricordare come, ad esempio, i programmi della scuola elementare del 1955 erano imperniati su un’idea del bambino “tutto intuizione, fantasia, sentimento” e sul principio che a “fondamento e coronamento” dei programmi doveva esserci “l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica”[1]. Dopo trent’anni queste due concezioni, del bambino e del ruolo della scuola, subiscono una trasformazione radicale con i programmi del 1985, pur emanati da una ministra democristiana, fondati sull’idea del “bambino della ragione” e sul pluralismo culturale. Fa quasi impressione oggi, nella sua radicale laicità, rileggere come veniva risolto in quel documento il rapporto tra scuola e religione “la scuola statale non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare”[2].

 

Un delicatissimo dispositivo culturale e normativo

Ma le Indicazioni nazionali non solo soltanto un documento di orientamento ideale e valoriale. Esse costituiscono infatti un delicatissimo e dettagliato insieme di criteri pedagogici, finalità e obiettivi per garantire l’uniformità del servizio scolastico nel nuovo (si fa per dire) contesto dell’autonomia scolastica.

Non dimentichiamo che il compito assegnato dalla legge alle Indicazioni nazionali è proprio quello di definire gli “obiettivi generali del processo formativo e gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni”[3].

Si potrebbe essere tentati di distinguere il contenuto delle indicazioni nazionali in due dimensioni separate: la dimensione culturale generale, sviluppata principalmente nella premessa (intitolata “Cultura, scuola, persona”) e quella tecnico-operativa, articolata nella sezione con i campi di esperienza della scuola dell’infanzia e in quella con i traguardi per lo sviluppo delle competenze e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna disciplina della scuola primaria e secondaria di primo grado.

Credo però che questa distinzione sarebbe molto fuorviante, se non altro perché anche la descrizione dei traguardi e degli obiettivi è intrisa di scelte culturali precise.

 

La necessità di guardare oltre i contenuti

Quando ad esempio leggiamo, nella sezione dedicata all’insegnamento dell’italiano, che “lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per la crescita della persona e per l’esercizio pieno della cittadinanza” oppure, nella sezione sulle scienze, che “la ricerca sperimentale, individuale e di gruppo, rafforza nei ragazzi la fiducia nelle proprie capacità di pensiero, la disponibilità a dare e ricevere aiuto, l’imparare dagli errori propri e altrui, l’apertura ad opinioni diverse e la capacità di argomentare le proprie” è evidente che siamo di fronte a qualcosa di ben più ampio di una declinazione operativa dei contenuti da trattare a scuola.

Lo stesso ragionamento vale anche per i traguardi indicati per ogni disciplina, non tanto perché vi si possano scorgere esplicitamente aspetti etico-valoriali, quanto perché costituiscono nel loro insieme la declinazione operativa del “profilo delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione”. E quest’ultimo, a sua volta, tratteggia i connotati del cittadino attivo e partecipe con una finalità chiara e coerente: realizzare il dettato costituzionale che impegna lo Stato a “rimuovere gli ostacoli” che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti alla vita pubblica.

Dunque, al di là dell’inquadramento generale espresso nella premessa, anche le sezioni del testo destinate alle Finalità, al Profilo dello studente, ai Traguardi e agli Obiettivi delle discipline costituiscono un “oggetto normativo e culturale” tutt’altro che neutro.

 

Le Indicazioni nazionali non sono un testo “neutro”

Non sono neutre le scelte pedagogiche (basate sull’idea di ambiente di apprendimento) e articolate nei sei principi metodologici descritti nell’introduzione alla scuola primaria:

1) Valorizzare l’esperienza e le conoscenze degli alunni;

2) Attuare interventi adeguati nei riguardi delle diversità;

3) Favorire l’esplorazione e la scoperta;

4) Incoraggiare l’apprendimento collaborativo;

5) Promuovere la consapevolezza del proprio modo di apprendere;

6) Realizzare attività didattiche in forma di laboratorio.

Non sono neutre le brevi introduzioni alle discipline che definiscono la loro funzione formativa.

Non sono neutri neanche gli obiettivi formativi dal momento che sottendono un modello di apprendimento nel quale alcune conoscenze e alcune abilità sono più importanti di altre.

Ad esempio in matematica diversi obiettivi di apprendimento riguardano la descrizione della realtà attraverso i numeri e la misura, mentre per il calcolo (che un tempo era la colonna portante della matematica scolastica) si sottolinea come sia più rilevante imparare a decidere quando convenga effettuare un calcolo a mente, o per scritto o, ancora, avvalendosi di una calcolatrice o di un foglio di calcolo, piuttosto che imparare a eseguire calcoli manualmente e senza errori a prescindere dallo scopo del calcolo stesso.

E, se proprio vogliamo parlare della storia, non è neutro indicare come competenza storica privilegiata l’uso delle fonti e delle rappresentazioni temporali e geografiche in contrapposizione alla tradizione del racconto storico fondato su personaggi e fatti storici atomizzati (Muzio Scevola, la Caduta dell’impero romano, ecc.).

Arriverei a dire, ma so che molti la pensano in modo diverso, che se la premessa fosse oggetto di un documento separato, il testo delle Indicazioni manterrebbe la sua consistenza culturale e valoriale. Basti pensare al forte ancoraggio con la Costituzione italiana e la Raccomandazione europea sulle competenze-chiave per l’apprendimento permanente presente nel capitolo sulle finalità generali e alle introduzioni alla scuola dell’infanzia e alla scuola del primo ciclo.

 

Cosa abbiamo imparato finora?

Bene, potremmo chiuderla qui e rimandare ogni considerazione a quando si saprà qualcosa di preciso.

Credo tuttavia che queste prime polemiche che si sono sviluppate intorno all’ipotesi di revisione delle Indicazioni nazionali rendano necessaria una riflessione più approfondita sulla natura di una norma molto particolare, che ancora molti chiamano “programmi scolastici”. E cioè tentare di rispondere alla domanda: cosa abbiamo imparato finora dalle Indicazioni nazionali?

Proverò allora a fare quello che i bravi giornalisti del Post chiamano un “ripassino”, una sintesi per aiutare a inquadrare il contesto in cui si muove una tematica d’attualità. Per motivi di spazio mi limiterò a quello che è successo con le ultime Indicazioni nazionali destinate alla scuola dell’infanzia, alla scuola primaria e alla secondaria di primo grado.

 

Analizziamo l’iter che ha portato alle attuali Indicazioni del primo ciclo

Partiamo dal dato storico, e giuridico, più rilevante: le attuali Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione sono il risultato di un processo durato cinque anni: dal 2007 al 2012.

Il documento attualmente in vigore[4] ha infatti passato il vaglio di due commissioni di esperti, nominate dal Ministro Fioroni e dal Ministro Profumo. Il primo aveva elaborato un documento avente carattere sperimentale, le Indicazioni per il curricolo del 2007[5], il secondo, dopo un lungo periodo di “collaudo” del “decreto Fioroni” nelle scuole, emanò il documento definitivo “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione” nel novembre del 2012 assumendo il documento precedente come documento di base. La supervisione di questo secondo testo fu affidata dal Ministro Profumo al Sottosegretario di Stato Marco Rossi-Doria.

Nel quinquennio 2007-2012 ha avuto un ruolo importante anche il Ministro Gelmini, che nel 2009 emanò il nuovo assetto ordinamentale della scuola dell’infanzia e del primo ciclo prevedendo “l’eventuale revisione delle Indicazioni nazionali”[6] e, nell’autunno del 2011, dispose la realizzazione di un monitoraggio nazionale sulle Indicazioni sperimentali del 2007 al quale parteciparono quasi diecimila scuole statali e paritarie[7].

 

La necessità di tempi distesi e di confronto

Si è dunque trattato di un vero e proprio processo evolutivo, analogo ai processi evolutivi naturali, nel quale un sistema si perfeziona nel tempo abbandonando tutto ciò che non serve e rafforzando le parti che hanno funzionato meglio.

In questo modo il testo attuale è stato condiviso con decine di società scientifiche e associazioni professionali ed è stato sottoposto a una consultazione nazionale che si è svolta nei mesi di giugno e luglio del 2012 cui hanno partecipato circa cinquemila istituzioni scolastiche[8]. La consultazione poneva venticinque domande precise, riferite ai punti più controversi del testo e produsse alcune importanti modifiche nel documento finale.

Successivamente all’emanazione delle Indicazioni nazionali del 2012 si sono svolti innumerevoli seminari formativi in quasi tutte le scuole pubbliche italiane anche grazie al coordinamento di un Comitato scientifico nazionale istituito allo scopo di “indirizzare, sostenere e valorizzare le iniziative di formazione e ricerca per aumentare l’efficacia dell’insegnamento in coerenza con le finalità e i traguardi previsti nelle Indicazioni nazionali 2012”.

Il Comitato, presieduto dal prof. Italo Fiorin, ha operato per sei anni concludendo il suo mandato con un documento intitolato “Indicazioni nazionali e nuovi scenari”[9] pubblicato dal Ministero nel febbraio del 2018.

 

I punti di forza delle Indicazioni nazionali 2012

Questa sintesi storica è utile per mettere a fuoco tre aspetti delle Indicazioni nazionali attualmente in vigore:

  • la forte continuità del percorso che ha portato all’attuale formulazione
  • la larghissima partecipazione di soggetti istituzionali e non
  • la meticolosità con la quale si sono calibrate le prescrizioni normative contenute nel documento.

Tutti e tre questi aspetti hanno contribuito a far emergere nel tempo alcuni importanti punti di forza che, in modo bipartisan, molti hanno riconosciuto. Cito solo i quattro più significativi:

  1. il richiamo, esplicito e fondante, alle competenze-chiave per l’apprendimento permanente stabilite dal Parlamento e dal Consiglio europeo;
  2. la formulazione sintetica del profilo delle competenze assunta come obiettivo generale dell’intero sistema scolastico pubblico;
  3. la definizione di traguardi prescrittivi come riferimento ineludibile per la costruzione di prove nazionali standardizzate (prove Invalsi);
  4. l’esplicitazione di nuclei tematici e obiettivi di apprendimento non prescrittivi ma ampiamente validati dalla comunità accademica e scolastica.

A questi punti di forza vorrei aggiungerne uno che solo apparentemente può sembrare secondario: la brevità complessiva e la cura linguistica del testo.

 

La sintesi a garanzia dell’autonomia scolastica

Il testo delle Indicazioni nazionali del 2012, pur inglobando in un unico documento tre segmenti del sistema scolastico (scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di primo grado) è contenuto in 75 pagine a stampa. Se si stampassero insieme i programmi scolastici pre-autonomia della scuola materna, della scuola elementare e della scuola media con la stessa formattazione delle Indicazioni nazionali si otterrebbe un documento di 125 pagine.

La brevità del testo non è un elemento accessorio ma è invece un requisito indispensabile se vogliamo che le Indicazioni nazionali siano effettivamente tali, cioè un documento di indirizzo che stabilisce finalità e obiettivi delle scuole autonome e non un repertorio degli argomenti da trattare a scuola. Per ottenere questo risultato è stato necessario un controllo rigorosissimo della lunghezza delle diverse parti del documento. Nell’ultima stesura il nucleo redazionale dovette lavorare quasi esclusivamente per riequilibrare il testo tagliando drasticamente tutto ciò che poteva sbilanciarlo. Ma già durante la stesura delle Indicazioni del 2007 la brevità del testo fu assunta come vincolo invalicabile. A questo proposito si ricordano ancora le energiche esternazioni del Ministro Fioroni che si scagliava contro le bozze troppo lunghe e le continue richieste di integrazioni. In uno degli incontri tecnici pare che abbia detto: “ora il testo è perfetto, basterà ridurlo del 50 percento”.

 

Meglio un adeguamento continuo

Da quanto detto fin qui si potrebbe pensare che io consideri perfette, e quindi non migliorabili, le attuali Indicazioni nazionali. Non lo penso affatto, anche perché il testo in vigore è nato come “seconda versione” di un testo precedente e implicava esplicitamente il suo “adeguamento continuo”[10].

C’è sicuramente da lavorare, ad esempio, sulla definizione di standard d’apprendimento per ciascuna disciplina, fatta eccezione per l’inglese che li ha già (livelli A1 e A2 del Quadro di riferimento europeo) e su alcune regolazioni che si sono rese necessarie negli ultimi anni in larga misura già chiaramente indicate nel documento di fine mandato del Comitato scientifico nazionale.

Ma se invece si riparte daccapo, se ci si lascia prendere dalla voglia di rifondare, ribaltare, riscrivere… magari spinti dal fastidio per specifici aspetti (siano essi l’identità nazionale o alcune aree disciplinari) si rischia di ottenere un oggetto certamente nuovo ma squilibrato e ingestibile. Destinato a sua volta a essere azzerato dal prossimo Ministro.


[1] DPR n. 503 del 14 giugno 1955. Premessa.

[2] DPR n. 104 del 12 febbraio 1985. Premessa.

[3] DPR n. 175 dell’8 marzo 1999. Articolo 8.

[4] DM n. 254 del 16 novembre 2012.

[5] DM del 31 luglio 2007.

[6] DPR n. 89 del 20 marzo 2009. Articolo 1, comma 4.

[7] Nota del 4 novembre 2011, pochi giorni prima della caduta del Governo Berlusconi IV.

[8] CM n. 49 del 31 maggio 2012.

[9] Indicazioni nazionali e nuovi scenari, 2018

[10] Si veda in proposito la lettera di accompagnamento del Ministro Profumo alle Indicazioni nazionali del 2012.



 

 

 

Roma, 8 maggio 2024

Caro Ministro, ha ragione.

Sulla scuola non può pesare nessuna visione ideologica e proprietaria.

La scuola è del Paese, del suo futuro e di quello delle generazioni che la attraversano.

Proprio perché condividiamo questa visione le chiediamo che quanto da Lei dichiarato si traduca in azione, evitando che scelte così importanti come la revisione delle Indicazioni Nazionali tengano fuori il mondo della scuola nella sua pluralità.

La commissione da lei nominata “composta da esperti di comprovata qualificazione scientifica e professionale con il compito di elaborare e formulare proposte volte alla revisione delle Indicazioni” è composta da soli docenti universitari di pedagogia. Per altro, senza rappresentare il pluralismo delle aree culturali della ricerca educativa. Non sono presenti esperti disciplinari. E soprattutto manca il mondo della scuola.

Non ci rassicura che lei abbia dichiarato che saranno coinvolti insegnanti, dirigenti, associazioni professionali in una fase successiva, una volta che la commissione da lei nominata ha già definito le prospettive di cambiamento delle I.N. e tracciato i percorsi.

Le Indicazioni Nazionali come lei saprà sono nate da un’altra storia.

Sono state elaborate da uomini e donne di scuola e dell’università, dopo un lungo percorso di riflessione, confronto. Ed è in forza di questo, Signor Ministro, che le I.N. continuano a restare un riferimento fondante capace di orientare il fare scuola, tracciandone obiettivi e traguardi di competenza nel quadro di finalità educative e scenari socioculturali fortemente attuali.

Le Indicazioni nazionali si cambiano quando risultano superate dalla storia. Perché rivederle ora?

Quali sarebbero i loro aspetti invecchiati?

E Perché non condividere con il mondo della scuola questa esigenza di cambiamento?

Non le nascondiamo signor Ministro che questo suo grande attivismo riformistico sulla scuola ci preoccupa.

Si stanno modificando le norme sulla valutazione del voto in condotta, sulla valutazione degli apprendimenti alla primaria, sono stati riformati gli istituti tecnici e professionali…

In un’organizzazione complessa come la scuola italiana le chiediamo quanto tutto questo potrà rispondere ai bisogni reali e alle priorità di qualificazione del sistema senza superare i limiti di sostenibilità del sistema stesso?

 

È questo, Signor Ministro, un aspetto per niente trascurabile per evitare quello che lei afferma: gli interventi sulla scuola non devono rispondere a logiche ideologiche e proprietarie.