Morin, la vita nell'opera
Alfonso Maurizio Iacono 5 Settembre 2023
Edgar Morin ha 102 anni. Nel 2015 scrisse questo libro, L’avventura del metodo. Come la vita ha nutrito l’opera, che ora esce in traduzione italiana a cura di Francesco Bellusci, per Raffaello Cortina Editore (Milano 2023, pp. 152). È uno splendido intreccio tra le vicende autobiografiche, familiari, politiche, culturali che lo hanno attraversato nella sua lunga vita, e le riflessioni teoriche e critiche che lo hanno portato a costruire il metodo, il suo metodo, dentro l’orizzonte della complessità. I due grandi temi che aleggiano in quest’opera sono quelli più tradizionalmente filosofici, e non poteva essere altrimenti: la verità e la ragione. Solo che verità e ragione sono qui sottoposti a una riflessione teorica e storica che le trasforma e le distanzia dal senso comune moderno. L’impulso alla verità deriva a Edgar Morin da un’esperienza tragica: la morte della madre quand’era bambino e il fatto che gli fu nascosta a lungo dal padre e dai familiari con la buona intenzione di non farlo soffrire. Al posto della madre, la zia Corinne. Il risultato fu disastroso. Morin divenne adolescente a dieci anni e nichilista. E poi il suo oscillare tra il dubbio e il bisogno di una fede.
Qui si dipana, negli anni ’30, il contrastato rapporto con il movimento comunista e con lo stalinismo. “Il mio scetticismo mi faceva resistere facilmente ai fanatismi; per quel che concerne la salvezza della società, ero sensibile agli argomenti contrari. Bisogna riformare o rivoluzionare? La riforma mi sembrava più pacifica e umana ma insufficiente, la rivoluzione più radicalmente trasformatrice, ma pericolosa”. A quell’epoca si sentiva del tutto immunizzato dallo stalinismo, ma la questione non era così semplice. Il dramma politico-esistenziale si trascinerà dal 1948, quando Tito verrà scomunicato dal Cominform, al 1956, l’anno dell’Ungheria e dei carri armati sovietici. “Fu intaccato il mito del proletariato-messia storico della società senza classi”, scrive Morin. Fondando la rivista Arguments con Kotas Axelos, egli si era prefissato di ‘superare’ Marx salvaguardando quel che gli sembrava indispensabile. “Marx divenne per me una stella in una nuova costellazione interculturale” (p. 26).
Da questa congerie di esperienze prende forma il Metodo. Dapprima come un autoesame individuale sulla verità, l’errore, l’illusione, pubblicando Autocritica, poi come Metodo, dove il problema verrà posto in termini antropologici e epistemologici. Perché siamo ciechi di fronte alla realtà empirica? Cosa non funziona nel paradigma della modernità che ha inizio con Descartes e con il suo, appunto, Discorso sul metodo? Separazione tra soggetto e oggetto, separazione tra saperi, distacco dell’osservatore, assolutezza della ragione, dunque delirio della ragione, tutti questi aspetti del paradigma moderno della conoscenza diventano oggetto della conoscenza stessa.
“Nel momento dello sviluppo della civiltà tecnica, economica, capitalistica, intellettuale dell’Occidente europeo, Descartes ha formulato la massima chiave disgiuntiva separando il mondo del pensiero, assegnato alla filosofia, dal mondo della materia, assegnato alla scienza. Ha concepito animali come pure macchine, prive di sensibilità, senz’anima, e formulato il principio dell’umanesimo sovrannaturale che fa dell’uomo il ‘dominatore e possessore della natura’”. Un’idea che va contro ogni concezione ecologica del mondo.
Morin affronta la questione del Metodo ponendosi come problema quella della conoscenza della conoscenza. “La conoscenza è inseparabile dalla volontà di conoscenza della conoscenza”. Prima di incontrare le teorie di Schrödinger, von Foerster, Atlan, Maturana e Varela, Morin acquisisce due nozioni base del concetto di complessità da un grande storico che fu suo maestro, Georges Lefebvre. “La prima è che le decisioni e le azioni spesso non approdano ai risultati sperati, e possono anche approdare al loro contrario (ecologia dell’azione). La seconda è che la storia che studia il passato deve anch’essa essere storicizzata nel suo tempo, perché proietta inconsciamente sul suo oggetto i problemi e le esperienze della propria epoca (osservazione dell’osservatore)” (p. 17). Dunque l’idea dell’inclusione dell’osservatore nel contesto di osservazione non proviene in Morin dalla tradizione epistemologica legata alle scienze naturali, bensì a quella legata alle scienze storiche, già presente in Vico, Hegel, Marx, Droysen, ma in un contesto in cui il vecchio e classico dualismo tra scienze della natura e scienze storico-sociali non ha più senso.
In Morin la ricerca della verità e la lotta contro l’errore si legano ad una passione per la vita che diviene, nello stesso tempo, riflessione sulla conoscenza. Vi è in lui come un afflato che vuole abbracciare tutto ma nella consapevolezza che ciò è un processo inarrivabile e inarrestabile. È uno dei segreti della complessità, quello per cui ogni conoscenza incrementa la conoscenza mentre cerca se stessa. È uno dei segreti della vita che cerca la sua poesia anche se spesso riesce a esprimere soltanto la prosa. Hegel e Merleau-Ponty hanno parlato della prosa del mondo, ma come trovare la poesia? Durante il Covid, quando tutto era fermo e stavamo chiusi in casa, a un certo punto, cessavano la paura, la noia e il senso di solitudine ed emergeva silenziosamente la poesia della vita, proprio nel bel mezzo della prosa prodotta dal virus. Ci si accorgeva all’improvviso che il cielo era diventato più cielo e il lontano abbaiare dei cani ci faceva intuire che un’altra vita era possibile, più lenta, più compatibile con l’ambiente, più pulita, più dolce.
Non lo si poteva confessare perché la paura di cadere nella retorica era quasi più forte di quella del virus, eppure i colori erano più colorati, gli odori più odorosi e i suoni avevano la meglio sui rumori. Era il momento di pensare alla cooperazione, alle relazioni, alla solidarietà piuttosto che alla competition. Ma poi tutto è tornato come prima. Da dove si deve partire per desiderare un’altra vita e sognare un altro mondo possibile? Dal realismo della prosa? Certo, la poesia della vita non può essere una fuga dalla sua prosa, ma neanche deve negarsi di fronte a quest’ultima. Edgar Morin non dice queste cose perché ha scritto prima del Covid, ma è su questo sentiero quando, richiamandosi a Hölderlin e al suo “Poeticamente l’uomo abita questa terra”, scrive: “Più importante della felicità e condizionante ogni felicità è la qualità poetica della vita che appare e fiorisce in ogni comunione, in ogni fraternizzazione, in ogni amore, in ogni gioia, in ogni stato di meraviglia, in ogni creatività, in ogni dono, in ogni gioco, e che trova il suo compimento supremo nell’estasi.
La prosa della vita si riferisce soprattutto a ciò che è solo obbligo e costrizione, talvolta crudele necessità di sopravvivenza” (p. 78). Vi è dunque una sorta di misticismo laico che cerca di scrutare oltre l’orizzonte dato, verso il futuro. Sul piano etico Morin sta dalla parte di Montaigne piuttosto che da quella di Descartes: i barbari sembrano a noi strani tanto quanto noi sembriamo a loro. Egli inoltre recupera il tema del gioco di Huizinga e di Caillois, il senso di ciò che non è utile. Tra il gioco e la poesia della vita vi è una relazione piuttosto importante. Morin non lo dice, ma questa relazione riguarda l’essere bambini e l’esserlo stati (ma anche l’essere e l’essere stati cuccioli); è l’intreccio di quelle azioni complesse che fanno emergere la memoria, l’imitazione, la creatività. È il ritorno della finzione come pratica di verità, se per finzione intendiamo un dare forma all’immaginazione in modo esibito come in scena, in un contesto in cui tutti siamo consapevoli che di finzione si tratta e dunque stiamo dalla parte della verità. Solo quando non ci accorgiamo della finzione subiamo l’inganno, quello stesso inganno che provoca l’orrore di Morin sin da quando, bambino, gli fu nascosta la morte della madre.
In questo libro sono evocati molti amici, alcuni dei quali sono italiani: Mauro Ceruti, Gianluca Bocchi, Sergio Manghi, Giuseppe Gembillo, Annamaria Anselmo. Negli anni ’80 tutti loro, insieme ad altri, cercarono (cercammo) di introdurre i temi della complessità e dell’ecologia (mentale e ambientale), dell’inclusione dell’osservatore nel contesto dell’osservazione, dell’autoorganizzazione biologica e sociale e Morin fu un punto di riferimento importante per un’idea di cambiamento epistemologico e di rinnovamento etico che cercava di superare gli errori del passato, ma anche la perdita di alternativa futura che il neoliberismo stava imponendo. Tuttavia la prosa del mondo, a cominciare dalla guerra, sta di nuovo cercando di allontanare la poesia della vita, ma Edgar Morin ci insegna che a questa, nonostante tutto, non bisogna mai rinunciare; fa parte dell’avventura del metodo.