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L'inquinamento invisibile

 

Hilia arborea

L'inquinamento invisibile

 

Valentina Vitali

 

Una cartaccia seminascosta nel sottobosco, un sacchetto di plastica che affiora dall’acqua di un lago, un versamento di petrolio o altre sostanze chimiche in oceano. Chiunque riconosce in questi esempi che c’è qualcosa che non va, un elemento inquinante che può creare danni in modo più o meno diretto anche alla specie umana e che quindi va eliminato. Se invece ci si ferma in un locale che tiene la musica alta, si è seduti su un impianto di risalita o si sta camminando di sera in una strada illuminata a giorno dai lampioni non si percepisce nulla di sbagliato, anzi. Eppure anche in questi casi si verifica un’alterazione dell’ambiente che causa danni temporanei o permanenti alle specie che vi si trovano. E se si fatica a contenere l’inquinamento chimico o da materiale plastico, che pur è facilmente riconoscibile, è pressoché impossibile attenuare gli effetti di agenti inquinanti di cui non ci si accorge, perché apparentemente non disturbano in modo diretto l’uomo oppure perché il loro effetto negativo si manifesta in tempi lunghi. Basta però osservare i comportamenti di molte specie o le loro caratteristiche fisiologiche per scoprire le conseguenze a volte inimmaginabili di questo inquinamento invisibile. Una ricerca in Francia (Troianowski et al.) ha ad esempio dimostrato che esemplari di Hyla arborea che vivevano vicini a strade molto frequentate, e quindi esposti al traffico veicolare, mostravano un aumento dell’ormone dello stress, che a sua volta causava immunodepressione e decolorazione del sacco vocale. La tonalità del sacco golare è una delle caratteristiche che vengono valutate dalla femmina per selezionare i partner migliori

Sialia mexicana    

quindi i maschi avevano un tasso riproduttivo ridotto a causa dell’inquinamento acustico. Non si tratta però di un caso isolato di danni alla fitness: coppie di Sialia mexicana che vivevano adiacenti ad una zona di estrazione di gas naturale hanno mostrato una riduzione del successo nella cova poiché, non potendo sentire l’arrivo di un predatore a causa del rumore ambientale, passavano la maggior parte del tempo a ipervigilare e risultavano distratte nella cura dei piccoli. In altre specie come pettirosso, merlo, cinciallegra, cinciarella e fringuello è stato osservato che le popolazioni urbane iniziano il proprio canto mattutino in modo anticipato per cercare di comunicare prima che il rumore urbano si faccia troppo invasivo e copra la loro voce; ovviamente estendere le ore di attività richiede più energie, a volte sottratte alla ricerca del cibo. Un'altra possibilità è cercare di farsi sentire sopra al disturbo acustico ambientale e questo significa urlare cioè alzare l’intensità del proprio canto (reazione naturale che anche una persona adotta se si trova in una stanza rumorosa, detto effetto Lombard) e abbandonare quelle frequenze che coincidono con tale disturbo di fondo, cioè quelle basse. Si ha quindi ancora uno spreco di energia e pure un impoverimento del repertorio canoro che fa apparire i maschi meno attraenti alle femmine, con ricadute sulla fitness di intere popolazioni. Gli uccelli non sono gli unici a soffrire l’inquinamento acustico. Durante il passaggio degli aerei i cervi smettono di bramire (segnale acustico fondamentale usato dalle femmine e dagli altri maschi per giudicare la qualità dei geni di un esemplare) e molti cetacei modificano le proprie rotte migratorie per evitare sonar, piattaforme di estrazione offshore e imbarcazioni (navi da crociera), esponendosi al rischio di spiaggiamenti. In generale, attività che emettono rumori oltre i 40-50 dB sono fonte di disturbo per gli animali; tra queste ci sono anche gli impianti di risalita in montagna, sia invernali che estivi, che superano quasi sempre i 60 dB. Non è da sottovalutare nemmeno l’impatto dell’inquinamento luminoso, che crea danni immediati soprattutto per alcune specie come le lucciole. Questi coleotteri sono bioluminescenti cioè in grado di emettere luce dal proprio addome: una proteina, la luciferina, reagisce con l’ossigeno e con l’ATP (acido adenosintrifosfato) in presenza del catalizzatore luciferasi e viene prodotta energia luminosa. Si tratta di una reazione estremamente efficiente dato che solo il 10% dell’energia è dispersa in calore (nelle lampadine a incandescenza viene perso il 90%) e per di più nell’addome c’è una parete a forma di parabola con dei microcristalli che riflette la luce ottenuta, potenziandola. Eppure questo fine sistema non può nulla contro la luce prodotta dai lampioni, dalle insegne luminose e dagli edifici che è tanto intensa da coprire quella delle lucciole. I danni ricadono ancora una volta sul successo riproduttivo che si basa su una comunicazione luminosa: i maschi volano emettendo segnali luminosi con ritmi e frequenze specie specifici e le femmine attere li osservano da terra e rispondo illuminandosi per farsi individuare dal partner scelto. Nonostante siano ciechi, persino i chirotteri sono danneggiati dall’illuminazione stradale: attratti dalle enormi masse di insetti che si addensano sotto i lampioni abbassano il livello di guardia e vengono catturati molto più facilmente dai rapaci notturni o dai gatti. I danni di questo tipo di inquinamento non sono però solo puntuali e localizzati in prossimità di sorgenti di luce; tutte le fonti di emissione dei centri abitati si sommano creando una cupola luminosa, detta skyglow, attorno alle città che si estende per vari chilometri (circa 20 km per una città di medie dimensioni), interessando anche aree prive di sorgenti e altezze considerevoli rispetto alla superficie terrestre. Sono così coinvolti gli uccelli migratori come rondini, rondoni, ardeidi e storni, che pure volano ad altitudini elevate, che risultano fortemente disorientati o attratti da queste luci, andando a schiantarsi contro grattacieli o edifici alti e luminosi.

Caretta caretta  

Esiste poi una forma di inquinamento ancora più inimmaginabile che riguarda l’olfatto. Quando il krill (crostacei di piccole dimensioni presenti in oceano) consuma il proprio cibo che consiste nel fitoplancton (diatomee) quest’ultimo, degradandosi, rilascia una sostanza che, elaborata da alcuni batteri, si trasforma in dimetilsolfuro, DMS; a questo composto si deve l’odore salmastro che caratterizza gli ambienti marini. Le specie che si nutrono di krill o alghe, come gli uccelli Procellariformi o le tartarughe Caretta caretta, hanno imparato che dove il DMS è concentrato troveranno cibo e quindi ingoiano tutto ciò che emana questo odore. Purtroppo un qualsiasi oggetto di plastica dopo una sola settimana in acqua inizia a ricoprirsi di alghe e altre sostanze organiche e quindi a profumare di DMS cioè di cibo; questa è la ragione per cui tali animali ingeriscono così tanta plastica, che ne causa spesso la morte. L’impatto che tantissime azioni antropiche, anche semplici e apparentemente innocue, hanno sulle specie animali (e vegetali) tende a far credere che non esistano rimedi ma non è affatto così: basterebbe ridurre il traffico veicolare, creare barriere fonoassorbenti (filari di alberi), garantire una manutenzione degli impianti sciistici, ridurre l’illuminazione urbana a quella davvero necessaria, preferire lampioni che si attivano con sensori di movimento e con coperture che dirigano il cono di luce dove serve, evitando dispersioni, o non abbandonare rifiuti.

E magari si potrebbe scoprire che in città meno rumorose, più verdi e da cui è possibile vedere le stelle anche la specie umana potrebbe vivere meglio.