Infezioni Correlate all’Assistenza
Abstract
Il PNCAR 2022-2025 approvato in Conferenza Stato-Regioni nella seduta del Novembre 2022 si pone l’obiettivo di fornire al Paese le linee strategiche e le indicazioni operative per affrontare l’emergenza dell’antibiotico resistenza (AMR) nei prossimi anni, seguendo un approccio multidisciplinare ed una visione one health.
Questo articolo si propone di fornire al lettore una relativamente semplice chiave di lettura del fenomeno ICA (infezioni connesse alle pratiche di assistenza), tanto complesso e preoccupante, che si sta sviluppando intorno alle nostre attività dall’inizio del nuovo millennio.
Il rischio di contrarre infezioni correlate all’assistenza, infatti, può essere ridotto al minimo “semplicemente” adottando con regolarità comportamenti igienicamente corretti ed esercitando uno strenuo controllo sulle azioni individuali suggerite nei programmi di prevenzione primaria: mantenersi in buona salute (implementando sani stili di vita e vaccinandosi) corrisponde ad una minore probabilità di ammalarsi. Controllare attentamente l’igiene del proprio ambiente di vita e delle proprie azioni (mantenendo le mani nude e pulite), corrisponde ad una minore probabilità di ammalarsi. Ammalarsi di meno, corrisponde ad un minor bisogno di utilizzare farmaci, non solo antibiotici e, di conseguenza ad un minor rischio di modificare il proprio microbiota, ovvero quell’organo simbionte e commensale che contribuisce a tante e fondamentali nostre funzioni vitali, tra cui la competenza immunologica.
Cosa si intende con la definizione di ICA?
A livello “globale” le Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA) rappresentano l’evento avverso più frequente e la complicanza più grave dell’assistenza sanitaria; sono riconosciute dall’OMS tra le maggiori minacce attuali e future per la salute pubblica a causa del loro impressionante impatto epidemiologico ed economico.
Il fenomeno delle ICA è sempre correlato ad un altro, altrettanto preoccupante, che è quello dell’antimicrobico resistenza (AMR).
Le conseguenze che le ICA e l’AMR hanno sulla salute pubblica possono e devono essere contenute con azioni di prevenzione e controllo e devono rappresentare una vera priorità per tutti i sistemi sanitari del mondo a tutti i livelli di assistenza, a partire dai programmi di formazione ed informazione.
Le ICA sono infezioni acquisite in corso di pratiche di cura e di assistenza; sono infezioni non manifeste clinicamente, ne´ in incubazione, al momento dell’inizio del percorso di cura o dell’ingresso nella struttura sanitaria; sono infezioni che insorgono, durante una degenza, almeno 48 ore dopo l’accesso in struttura oppure a seguito della dimissione, entro 30 giorni. Il fatto che tali infezioni possano svilupparsi anche a seguito di trattamenti in corso a livello domiciliare (ad esempio antibioticoterapie), ha obbligato le agenzie internazionali a dismettere la definizione “infezioni ospedaliere”, sostituendola preferenzialmente con “infezioni correlate alle pratiche assistenziali” (health care acquired infection), ovvero patologie che si manifestano durante il percorso diagnostico-terapeutico di un paziente in qualunque setting assistenziale.
Secondo OMS le ICA provocano in Europa, ogni anno 16 milioni di giornate aggiuntive di degenza, 37.000 decessi attribuibili e 110.000 decessi per i quali l’infezione rappresenta una concausa. I costi vengono stimati in 7 miliardi di euro circa, includendo solo quelli diretti (es. trattamenti clinici aggiuntivi, risarcimento di sinistri sanitari).
Secondo ECDC l’impatto sulla salute della resistenza antimicrobica è paragonabile a quello dell’influenza, della TBC e dell’ HIV/AIDS messi insieme. Il consumo di antibiotici, in Italia, purtroppo, riusulta leggermente superiore alla media europea (vedi tabelle da rapporto annuale Ecdc 2011), ancorchè ultimamente si stia riducendo.
Come possono essere contratte le ICA?
Le ICA sono sostanzialmente infezioni sostenute, nel maggior numero dei casi, da microorganismi (m.o.) trasmissibili per via interumana. Questo significa che, un individuo ammalato o portatore di un m.o. “modificato” (ad esempio germi multiresistenti agli antibiotici) può “comunicare” il m.o. ad un altro individuo, secondo modalità oggi ben note: il contatto (diretto o indiretto), i droplet e la via aerea.
- Il contatto: intendiamo con il termine “contatto”, l’azione del toccare un oggetto, una superficie, una persona, direttamente con le mani o indirettamente con un altro oggetto. Tutti sappiamo che mani o oggetti “sporchi”, appoggiati ad altri oggetti, “sporcano” anche quelli. Per evitare di sporcare o contaminare qualsiasi cosa, dunque, dobbiamo essere certi che gli oggetti con cui tocchiamo non siano “sporchi”, ovvero nel caso di specie, contaminati dalla presenza di m.o.. Questa enunciazione può apparire ovvia, ma la pratica quotidiana ci mette in evidenza quanto invece non lo sia: a differenza dello sporco comune, visibile su mani ed oggetti, i m.o. non si vedono nè forniscono alcun indizio della presenza di sè. Due esempi giusto per capirci meglio:
1) il bagno, lo sappiamo tutti, è un posto molto rischioso. I m.o. che popolano l’intestino (il microbiota intestinale è composto da miliardi di m.o. e pesa qualche chilo) sono strutture biologiche che dovrebbero non essere trasportate in altre postazioni corporee umane. Infatti, i m.o. del microbiota intestinale, quando non patogeni, sono simbionti/commensali dell’uomo e quindi non procurano danno nè malattia; anzi, aiutano in tantissime funzioni digestive, immunitarie, di sostegno. Un uomo, privato del proprio microbiota, infatti, morirebbe immediatamente. L’importante è che quei m.o. rimangano rigorosamente contenuti nell’ambiente intestinale. Tutti abbiamo esperienza delle malattie, più o meno impegnative, che vengono causate dal trasferimento di germi intestinali comuni in sedi diverse da quelle previste dalla natura: ad esempio le cistiti provocate dal passaggio di germi intestinali in vescica. Qualora una persona che ha usato il bagno si lavi le mani con superficialità (vedi in coda volantino OMS riguardante il modo corretto di lavarle per evitare che rimangano aree non pulite), essa produrrà, con i suoi comportamenti in successione, sicura contaminazione dell’ambiente con cui avrà contatto: rubinetti del lavandino, asciugamani, maniglie delle porte e tutto il resto che toccherà, fino a 7/8 contatti a seguire. La letteratura, infatti, ci attesta che la carica iniziale raccolta con le mani, può essere depositata in quantitativi utili per consentire la contaminazione di altri oggetti, per una decina di volte prima di esaurirsi. I m.o. depositati sugli oggetti toccati dalle mani mal lavate (che però alla vista appariranno perfettamente pulite) potranno sopravvivere (a seconda di specie e tipologia) anche per molte ore nell’ambiente esterno all’uomo. Una persona o un oggetto che toccassero le superfici contaminate entro quelle ore, si contaminerebbero di conseguenza. Qualora quella persona portasse poi quei germi alla bocca senza essersi lavata accuratamente le mani, quindi, assumerebbe germi intestinali altrui. Se poi quei germi fossero trasportati in organi suscettibili o ferite di soggetti indeboliti da malattie o da condizioni preesistenti, allora quel contatto potrebbe rappresentare l’origine di una infezione. E se tutto quanto raccontato dovesse succedere ai danni di una persona ricoverata in ospedale o altre strutture, o assistita al proprio domicilio in presenza di una malattia debilitante, tale infezione verrebbe classificata come ICA. E’ molto frequente che la situazione descritta possa accadere; è molto meno frequente che simili situazioni possano produrre ICA. Questo perché i m.o. del microbiota, spesso, anche se trasmessi da una persona ad un’altra, non producono danno evidente: essi entrano nell’intestino altrui e, da allora cominciano, se sopravvivono, a far parte della flora intestinale di questo secondo individuo. Producono malattia invece se, come già descritto, gli stessi m.o. vengono trasportati in ambienti non idonei alla loro presenza (vescica, ferite, sangue, ecc.), se sono rappresentati da m.o. patogeni (salmonelle, shigelle, virus epatite A, Poliovirus, ecc.), se, in grandi quantità e, magari portatori di geni che codificano per la resistenza a talune classi di antibiotici, vengono trasferiti in pazienti già molto malati ed immunocompromessi (grandi anziani, pazienti oncologici in immunoterapia, bambini prematuri, ecc.).
2) pulire ambienti ed oggetti è un’azione comune, abitualmente eseguita in modo automatico. Pulire non significa solo togliere lo sporco evidente o la polvere, ma anche eliminare le possibili contaminazioni degli oggetti, già descritte all’esempio al punto precedente. Per pulire, ripeteva un “vecchio” luminare, ci vuole prima di tutto “olio di gomiti” e poi, solo “sul pulito”, bisogna passare il sanificante. Per pulire, bisogna utilizzare strumenti puliti. Immaginiamo infatti di voler spolverare il tavolo della cucina (su cui poi si consumerà il pasto) utilizzando un panno già usato per eliminare una macchia sul pavimento o sul lavandino del bagno (quello toccato dalla persona con le mani non ben lavate di cui all’esempio precedente). In questo caso sarà possibile trasportare sulla tavola un germe raccolto nel bagno, nonostante la tavola possa apparire perfettamente lucida e, magari, profumata! Le corrette sanificazioni quindi, si compongono di: lavaggio accurato con sapone (la schiuma, infatti, aiuta nella rimozione dello sporco e nella estrazione dello stesso dalle parti della superficie difficilmente raggiungibili), risciacquo e infine sanificazione. I prodotti di uso comune, idonei alla sanificazione di superfici resistenti e possibilmente contaminate, sono i derivati del cloro (varichina ad una concentrazione abbastanza alta -1000parti per milione) e l’alcool al 70% minimo. I prodotti citati non possono essere utilizzati direttamente sullo sporco evidenziabile, in quanto producono la ossidazione/disidratazione della parte superficiale dello stesso, non riuscendo ad arrivare in profondità nel materiale. In questi casi quindi, si mantiene il potenziale contaminante sulla superficie sporca, nonostante si sia convinti di averla disinfettata.
- I droplet: i droplet sono le goccioline che vengono emesse dalla nostra bocca e dal naso tutte le volte che parliamo, cantiamo, tossiamo, starnutiamo. Sono goccioline molto più grosse (diametro >5micron) di quelle contenute nel vapore e, di conseguenza, esse tendono a non rimanere sospese nell’aria, ma a depositarsi rapidamente, subendo l’effetto della forza di gravità. I droplet emessi continuamente dalle persone possono contenere m.o. patogeni o potenzialmente tali, qualora le persone che parlano siano ammalate o contaminate da m.o. multiresistenti. Abbiamo imparato, in pandemia Covid 19, che l’unico modo per evitare le contaminazioni dirette in questi casi è: dotare l’emettitore di un blocco alle emissioni (mascherina); quando non è possibile intervenire sull’emettitore, dotare il potenziale ricevitore di un altro blocco (mascherina e visiera); curare la sanificazione degli ambienti su cui il droplet si appoggia. Infatti i droplet, che abbiamo detto, si depositano velocemente e, essendo gocce contaminate da m.o., quando si appoggiano su una superficie si asciugano e rilasciano il m.o. sulla stessa superficie che, di conseguenza, diventa contaminata e si comporta nei modi descritti al capitolo dedicato al “contatto”. E’ importante in questi casi ricordare che le distanze di sicurezza (un metro e mezzo tra persone) proteggono soltanto dalla contaminazione diretta. Infatti, nel caso in cui una persona infetta si trattenga nelle vicinanze di una superficie in utilizzo anche da parte di altri (es: una scrivania, un telefono, un panino, ecc.), il deposito dei droplet produrrà una contaminazione importante di tutti gli oggetti che troverà, entro un metro e mezzo, davanti ed al di sotto della propria bocca. Quando la persona infetta si sarà spostata, quindi, tutto quel materiale rimarrà contaminato e la persona che, successivamente, in assenza dell’infetto, toccherà quella scrivania, parlerà a quel telefono o mangerà quel panino, sarà esposta al rischio di contaminarsi e/o ammalarsi in funzione a quanti germi avrà raccolto ed assunto o a quanto sarà forte (immunocompetente) lei stessa. Come descritto nel capitolo precedente, quindi, sarà sempre necessario che: le persone che si sentono ammalate (es: tosse, raffreddore, influenza -malattie queste che si trasmettono per droplet e contatto-) imparino i comportamenti idonei a proteggere anche gli altri (es mascherina negli ambienti pubblici); che tutti impariamo a lavarci le mani dopo ogni contatto a rischio e, soprattutto, prima di portare cose o alimenti alla bocca (sigarette, bottigliette dell’acqua o alimenti); che gli oggetti a rischio vengano sempre lavati e poi sanificati con la massima attenzione.
- La via aerea: in questo caso diventa indispensabile isolare le persone ammalate e, per gli addetti all’assistenza, indossare correttamente i dispositivi di protezione individuale (maschere facciali ffp2 o 3 senza valvole) in quanto i m.o. si trovano dispersi nell’aria dell’ambiente in cui è presente il paziente. Per fortuna, per quanto riguarda le nostre esperienze comuni, le malattie che si trasmettono per via aerea sono pochissime (tubercolosi, varicella, morbillo) e, di solito, in ambiente ospedaliero, vengono gestite in camere di isolamento aereo; a casa, i famigliari care givers, vengono identificati tra persone che hanno avuto la malattia o sono stati vaccinati (nel caso del morbillo vale anche il vaccino “post esposizione”).
Le antibioticoresistenze (AMR)
L’antibioticoresistenza è un fenomeno, abbiamo detto, strettamente correlato a quello relativo alle ICA. Il cattivo o inopportuno utilizzo degli antibiotici ha fatto sì che i batteri e gli altri m.o. unicellulari (lieviti, funghi) abbiano trovato il modo di identificare modelli idonei alla propria sopravvivenza in ambienti ostili. Sappiamo tutti che l’antibiotico è lo strumento idoneo a gestire le infezioni batteriche, non quelle virali; dovremmo aver imparato ormai che gli antibiotici non servono per curare le malattie virali, che non vanno usati per fare cicli di profilassi (se non alcune, pochissime, a gestione specialistica), che non sono farmaci da banco. Tutti sappiamo che un antibiotico usato in “empirica” (non guidato da un antibiogramma), in genere “a largo spettro”, oltre a colpire (efficacemente, ormai, solo nei casi fortunati) il germe voluto, uccide anche tantissime altre specie batteriche presenti nel microbiota dell’individuo che li assume. Siamo tutti consapevoli che, ogni volta in cui nel microbiota eliminiamo parte degli individui nelle colonie autoctone, creiamo posti liberi per essere occupati da altri m.o., non necessariamente della stessa specie e non necessariamente utili altrettanto di quanto fossero quelli presenti in condizioni normali; cerchiamo tutti, infatti, di associare l’antibiotico ai fermenti lattici, per cercare di arginare i danni. Non tutti abbiamo ancora introiettato il concetto in base al quale, però, il fermento lattico non risolve il problema prodotto dall’antibiotico né che l’equilibrio tra le specie, all’interno del microbiota, alla sospensione dell’antibiotico, non si recupera facilmente né velocemente. Anzi, talvolta, nelle persone più fragili, non si recupera per niente e talune sostituzioni non vengono mai rimpiazzate da altri nuovi individui appartenenti alle specie originali. NON SOLO. Durante l’assunzione di un antibiotico (ma anche di alcuni altri farmaci insospettabili) si creano condizioni ambientali ostili alla sopravvivenza dei germi sensibili alla molecola in uso. Buona parte degli individui suscettibili, quindi, muoiono. Ma, come sempre succede in natura, tanto più tra le specie più semplici, anche negli ambienti peggiori, alcuni individui riescono a sopravvivere. In taluni di questi casi gli individui che sopravvivono risultano dotati di “mutazioni” nel loro codice genetico, che consentono di far fronte all’insulto esterno. I “figli” di questi mutanti, dunque, risulteranno in gran parte, anch’essi, forniti della caratteristica che aveva permesso al genitore di sopravvivere alla presenza del farmaco antibiotico. Quando le nuove generazioni fornite di antibioticoresistenza diventano molto rappresentate a livello del microbiota dell’individuo che le ospita (magari a seguito dell’utilizzo frequente, malgestito e ripetuto di quella classe di antibiotico), allora, al momento del vero bisogno, quell’antibiotico non riuscirà più ad eliminare quegli stessi germi contro i quali era sempre e da sempre, in precedenza, risultato efficace. Pensiamo ad esempio alla problematica gestione di una infezione della vescica (cistite) procurata a seguito del trasferimento di un germe antibioticoresistente proveniente dall’intestino di quella stessa persona che, fino a poco tempo prima aveva curato con noncuranza e facilmente, lo stesso tipo di infezione utilizzando antibiotici che fino ad allora erano riusciti ad uccidere germi della stessa specie, ma non dotati di antibioticoresistenza. La Natura ha tante risorse, molte di più di quelle che ci illudiamo di saper governare. Fin dalla scoperta degli antibiotici e, conseguentemente, dal momento dell’inizio della loro diffusione, gli scienziati si sono accorti che bastavano pochi anni di “spreco” nei modi non opportuni per invalidare la funzionalità di una molecola. In meno di 100 anni siamo dunque riusciti a perdere la penicillina, la streptomicina, e poi tutti gli altri antibiotici di nuova generazione. Fino ad arrivare, attualmente, a situazioni di panresistenza: germi resistenti a tutti i tipi di antibiotico. In questi casi, se gli ammalati non sono forti, ma sono grandi vecchi, affetti da altre malattie importanti, grandi ustionati, neonati immaturi, ecc. la medicina si ritrova privata degli strumenti necessari per curarli.
La relazione tra ICA, AMR e gli ospedali o i luoghi di cura
Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di rappresentare separatamente il come ed il perché di una buona fetta di “eventi avversi” in campo medico. Infatti abbiamo raccontato l’origine della antibioticoresistenza in un capitolo, il modello di trasmissione delle infezioni o semplicemente dei m.o. da una persona ad un’altra o da un distretto corporeo normalmente abitato da quei m.o. ad un altro normalmente sterile o habitat di altri, diversi, m.o. in un altro capitolo. Non è difficile, a questo punto, mettere insieme i due passaggi e contestualizzarne i risultati. Gli ospedali e tutti i luoghi in cui vengono accolti ammalati o “fragili”, sono posti affollati da soggetti umani individualmente caratterizzati dal rischio di subire effetti negativi derivati da una possibile contaminazione da parte di m.o. altrui o propri, dotati di antibioticoresistenza o giunti in sedi non tipiche per i m.o. di interesse a causa di accessi a distretti normalmente non raggiungibili. Ad esempio: gli interventi chirurgici, che prevedono il taglio della cute ed il raggiungimento di aree corporee normalmente chiuse (peritoneo, pleura, ventre muscolare, ecc.). L’introduzione di cateteri o altri strumenti che mantengono un tramite da “fuori a dentro” distretti normalmente chiusi o sterili (cateteri vescicali o cateteri endovascolari, ecc.). Gli ospedali e le altre strutture dedicate ai “fragili” sono anche posti in cui proprio i “fragili” e gli ammalati, gli infetti o i colonizzati (sono definiti colonizzati quei soggetti che hanno elementi del proprio microbiota sostituiti da omologhi dotati di antibioticoresistenza), sono collocati nello stesso ambiente e lì rimangono a lungo. In questi casi, in questi luoghi, di fronte a queste persone, non è difficile pensare che ogni svista o errore in cui cada un operatore, un famigliare o il paziente stesso, relativamente alla corretta attenzione alle regole enunciate al capitolo “Come possono essere contratte le ICA?” può produrre un danno. Avevamo tanto sperato che la pandemia da Covid-19 avesse insegnato a coprire il naso e la bocca quando si è raffreddati, a lavare le mani continuamente, a non mettere in bocca oggetti potenzialmente contaminati, ed invece, appena finita la crisi, ci troviamo ancora a vedere persone (talvolta anche sanitari, purtroppo) che non lavano le mani mai, neppure quando escono dal bagno o da una camera di degenza, che starnutiscono e tossiscono liberamente davanti agli interlocutori, che mettono in tasca i fazzoletti da naso usati, che toccano i propri parenti malati senza essersi sanificati le mani, ecc.
Eppure, lavare le mani non è così difficile!
Paradossalmente, durante il periodo pandemico, l’attenzione spasmodicamente posta esclusivamente al controllo della diffusione del virus Sars cov 2, ha contribuito ad incrementare la presentazione delle ICA, addirittura declassando la applicazione delle elementari “precauzioni standard”, ad esempio attraverso l’utilizzo indiscriminato dei guanti monouso (“Trends in hospital acquired New Delhi metallo-beta-lactamase-producing Enterobacterales in Tuscany from 2019 to 2021: impact of the COVID-19 pandemic” <Journal of Hospital Infection 137 (2023) 44-53>).
Cosa si sta facendo a livello nazionale ed internazionale
I comportamenti che, nello svolgimento delle pratiche assistenziali possono rappresentare un rischio per il paziente (soprattutto di quello più fragile) sono stati fatti oggetto di indagine da parte delle scienze che studiano le modalità attraverso cui gli operatori, sulla base di processi di ragionamento caratterizzati da scorciatoie mentali talvolta imperfette, conseguono risultati sub ottimali rispetto al livello desiderato. Lo studio su come vengono prese le decisioni in ambienti complessi, parte dal presupposto che gli individui non sono sempre in grado di fare attenzione alle raccomandazioni laddove le modalità organizzative delle attività quotidiane non ne facilitino l’adeguamento. Le Organizzazioni quindi hanno implementato programmi, dedicati ai sanitari, dedicati allo sviluppo di sistemi di facilitazione verso l’adozione sistematizzata dei comportamenti corretti.
Nella realtà italiana, sulla base del protocollo ECDC, sono stati sviluppati diversi studi di prevalenza puntuale, condotti negli Ospedali per Acuti .
Uno di questi studi ha evidenziato che nel 2016/2017 la prevalenza di pazienti con almeno un infezione correlata all’assistenza, inteso come il numero dei pazienti eleggibili, era pari all’8% (1186 casi); la media europea si attestava invece al 7%.
Le infezioni più frequentemente riconosciute sono quelle riferite al tratto respiratorio (23,3%), le batteriemie (18,3%), le infezioni urinarie (18%) e quelle del sito chirurgico (14,4%).
A livello Internazionale le Istituzioni si stanno impegnando non solo con politiche volte a favorire lo sviluppo e l’introduzione di nuovi farmaci ad azione antimicrobica, ma soprattutto stanno svolgendo un’intensa attività di sensibilizzazione rivolta alla popolazione ed ai sanitari affinchè si diffonda e consolidi una gestione responsabile delle prescrizioni antibiotiche, si elevino le coperture vaccinali, si ottenga un migliore comportamento comunitario dedicato alla prevenzione delle ICA incentrandolo soprattutto sulla diffusione della buona pratica “le mani pulite”.
L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) si sta adoperando ormai da diversi anni nella promozione di un uso corretto degli antibiotici attraverso campagne di comunicazioni capillari: “non assumere antibiotici per curare l’influenza, o raffreddori non di origine batterica; ricorrere agli antibiotici solo quando necessario e solo dietro prescrizione medica, seguendo scrupolosamente dosi e tempi della terapia”.
Usare gli antibiotici infatti è una responsabilità del singolo nei confronti della propria salute ma è soprattutto una responsabilità collettiva: favorire lo sviluppo delle resistenze mette a rischio la salute pubblica.
Il fenomeno AMR inoltre non riguarda solo la medicina umana, ma anche il settore zootecnico e veterinario dove la massiccia somministrazione dei farmaci negli allevamenti contribuisce alla comparsa di batteri resistenti capaci poi di trasmettersi all’uomo.
Il Piano Nazionale di Contrasto all’Antimicrobico-Resistenza (PNCAR) approvato in Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 30 novembre 2022 e poi pubblicato dal Ministero della Salute lo scorso 2 febbraio 2023, ha come obiettivo quello di fornire le linee strategiche e le indicazioni per affrontare l’emergenza dell’antibiotico resistenza (AMR), seguendo un approccio multidisciplinare e una visione One Health, promuovendo un costante controllo anche in ambito internazionale.
Il Piano si basa, infatti, sull’esperienza maturata nel precedente PNCAR, prendendo esempio da ciò che è stato fatto da altri Paesi e fondandosi sulle raccomandazioni ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control).
Il PNCAR si articola in quattro tematiche (in orizzontale) e tre pilastri dedicati ai principali interventi nel settore, animale e ambientale (verticale).
Entro il 2025 l’Italia dunque si prefigge di raggiungere i seguenti sei obiettivi:
- rafforzare l’approccio “One health”, anche attraverso lo sviluppo di una sorveglianza nazionale coordinata dell’antibiotico-resistenza e dell’uso degli antibiotici, e prevenire la diffusione dell’AMR nell’ambiente;
- rafforzare la prevenzione e la sorveglianza delle infezioni correlate all’assistenza (Ica nella figura) in ambito ospedaliero e nel territorio;
- promuovere l’uso appropriato degli antibiotici e ridurre la frequenza delle infezioni resistenti in ambito umano e animale;
- promuovere innovazione e ricerca nell’ambito della prevenzione, diagnosi e terapia delle infezioni resistenti;
- rafforzare la cooperazione nazionale e la partecipazione alle iniziative internazionali di contrasto all’Abr;
- migliorare la consapevolezza della cittadinanza e promuovere la formazione degli operatori sanitari e ambientali.
Secondo le ultime stime del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) diffuse il 17 novembre 2022, a livello europeo ogni anno muoiono 35mila persone a causa dell’antibiotico-resistenza di cui 11mila solo in Italia.
Direttore UOC Epidemiologia della ATNO, coordinatore del team AID locale della provincia di Massa Carrara e coordinatore del team AID dipartimentale della ATNO. In possesso del diploma di master di II livello "management e sanità" conseguito presso la Scuola S. Anna di Pisa nel 2010. Professore a contratto presso l'università di Pisa: insegnamento: Statistica Medica nel corso di Infermieristica. Laureata a Pisa nel 1988 e specializzata a Pisa in Igiene ed Epidemiologia nel 1993
Laureata in scienze infermieristiche nel 2010, ha conseguito un diploma in infermieristica forense nel 2017, un diploma per il coordinamento nelle professioni sanitarie del 2020, ricopre il ruolo di Infermiera del team AID locale della provincia di Massa Carrara