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I test a scuola
Vincenzo Terreni
Chi deve correggere le prove INVALSI?
È un bel po’ che si sente parlare dei test di valutazione dell’apprendimento, parlare male soprattutto per quelli a crocette. Un tempo non si sapeva neppure cosa fossero i test. La lezione tipica di un docente della secondaria era divisa in tre parti: l’appello lungo quanto inutile, l’interrogazione, fonte inesauribile di gag sulla scuola (Amarcord insuperabile), infine, negli ultimi pochi minuti, la spiegazione e l’assegnazione dei compiti (da pagina a pagina). La didattica era tutta qui, difficile che ci si discostasse troppo. Analogamente, la prassi più diffusa per la valutazione degli apprendimenti consisteva nelle interrogazioni e nei compiti scritti: il tema per l’Italiano, la versione dall’italiano per il Latino, problemi ed espressioni per la Matematica ... tutte prove preparate e corrette dall’Insegnante della materia con il conseguente rischio della soggettività nella valutazione.
Quanto siamo andati avanti cosi? Dal dopoguerra fino alla scuola di massa, ma anche parecchi anni dopo molti hanno continuato nell’indifferenza generale.
Dopo l’avvio della corsa alla scoperta dello spazio gli Americani avvertirono un ritardo strategico nella formazione scientifica dei loro giovani, ritardo che avrebbe compromesso in modo irreparabile il desiderio di vincere la sfida sovietica alla supremazia in campo scientifico e tecnologico. Avviarono quindi un progetto grandioso per la riqualificazione dell’insegnamento delle discipline scientifiche per costruire una scuola più dinamica che si preoccupasse anche di sperimentare e far sperimentare agli studenti come funziona la natura intorno a noi. I test diventarono così una necessità che sveltiva il lavoro di valutazione, affidato alla scelta di una tra cinque risposte (5, non tre o quattro). Le risposte scritte sotto alla domanda, erano tutte il più plausibili possibile e spesso per scegliere c’era bisogno di fare dei calcoli. I libri prodotti dagli scienziati momentaneamente impegnati anche sul fronte della didattica, cominciarono a circolare in tutto il mondo e presto vennero adottati anche in Italia scandalizzando i puristi, anche per le illustrazioni, addirittura a colori, che graficamente spiegavano il fenomeno in studio insieme alle parole. Alla fine del capitolo: test di verifica. In mezz’ora si otteneva un voto per tutti gli alunni: in capo ad un trimestre c’erano un numero sufficiente di voti per assegnare a ciascuno una valutazione sensata: rimaneva così un tempo adeguato per esperimenti ed esercitazioni.
Controindicazioni?
Sì certo: l’allievo poteva segnare le crocette a caso, oppure copiare dal vicino; inoltre l’insegnante lavorava molto di più, ma lavorare era anche molto più piacevole, studenti compresi. Ma come si fa a sapere se uno ha imparato solo con un test? In fondo il test verifica alcuni livelli di apprendimenti, ma non tutti. Sfugge a questo tipo di prova il processo con il quale l’allievo arriva al risultato perciò occorre integrarlo con altre prove. Non è difficile ottenere altri dati significativi se si fanno svolgere esperienze ai ragazzi: ci si parla mentre questi lavorano, si discute insieme ad esperienza finita. Perché neppure tanto in fondo i ragazzi sono ansiosi di capire quel che fanno e anche di parlare, confrontarsi, discutere, chiedere spiegazioni ulteriori o libri da leggere. E spesso la campanella non stacca il filo dell’attenzione e senza fretta gli allievi escono dal laboratorio.
Inoltre i test, quelli a crocette intendo, cioè a risposta chiusa, non hanno molti gradi di libertà nella correzione e la valutazione è una conseguenza meccanica. Anche per questo piano piano le discipline non scientifiche hanno introdotto prove basate sui test, ma si è trattato non raramente di domande aperte, dove problematiche ampie e complesse sono state ridotte in microtemi da esaurire in due righe di risposta. Peggiori delle interrogazioni, ma più veloci e inutilmente micidiali. Risulta evidente, quindi, che i test richiedono notevoli competenze per essere formulati e somministrati in modo da dare risultati corretti e soprattutto significativi
Lo dimostra il fatto che nei Paesi che hanno introdotto per primi i test di valutazione si sono raggiunti protocolli standard: le domande sono costruite con cura, seguite da richiami per accertare che la risposta precedente sia stata fornita dopo ragionamento e non a caso; anche le procedure di somministrazione debbono essere rigorose e uguali per tutte le scuole, in modo da effettuare non solo una verifica di rendimento sul singolo allievo ma, anche, sulla reale efficacia del testo in adozione nonchè anche sul lavoro svolto dall’insegnante. A questa nuova modalità di verifica-valutazione il corpo docente ha, per lo più, reagito con fastidio: l’insegnante di mestiere fa anche il valutatore, ma nessuno lo può valutare, come se fosse un peccato di lesa maestà. Insomma, nella scuola gli studenti vengono valutati da docenti, ma non lo sono loro volta, tanto meno dal Dirigente scolastico che, da parte sua, viene valutato solo dal giudice se combina qualcosa di realmente grosso.
Nella norma ognuno procede come meglio crede e non ha problemi fino alla pensione, preside compreso. I consigli di classe per le valutazioni del quadrimestre si possono trasformare nella sola raccolta dei singoli voti “proposti” dai docenti delle discipline. La discussione raramente modifica le posizoni di partenza.
Per cambiare le cose e raggiungere livelli di modernità occorre ripensare l’intero sistema…
A turbare un po’ gli equilibri sono arrivate le prove OCSE-PISA e ci siamo accorti, ma guarda un po’, che la scuola italiana navigava a metà classifica con risultati deprimenti per un Paese che si considera moderno. La carenza era in tutte le aree esaminate: matematica, scienze, lettura e problem solving. I dati scorporati hanno messo in chiaro che esistono delle differenze significative tra le valutazioni raggiunte: nel Nord sopra la media in una posizione rispetto ai Paesi concorrenti quasi accettabile, al Centro i risultati sono stati meno brillanti, al Sud molto sotto la media nazionale. [1]
Le prove degli anni successivi hanno dato esiti che non mostravano segni di variazione che potessero attribuirsi ad un diverso impegno nei confronti della didattica. Con il passar del tempo e delle prove sono intervenuti fenomeni nuovi di cui occorre tener conto.
“Ieri tutti i quotidiani riportavano la seguente notizia: i ragazzi di terza media, valutati con test uniformi predisposti dall’INVALSI, risultano più preparati al Sud che al Nord, ma questa vittoria del Sud dipende - in realtà - dal fatto che in troppe classi del Mezzogiorno gli insegnanti lasciano copiare o suggeriscono essi stessi le risposte, falsando così la comparazione fra ragazzi del Nord e ragazzi del Sud.”[2]
I test sono diventati uno strumento scientifico raffinato e in grado di mostrare anche quello che è accaduto durante la prova: aiuti esterni, copiature, risposte casuali. Da una analisi attenta dell’INVALSI emerge che al Nord si bara mediamente poco o molto poco (circa 5%), al Sud dal 20 al 30%. Gli insegnanti non sono estranei.
L’INVALSI - Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione[3] “è l’Ente di ricerca dotato di personalità giuridica di diritto pubblico che ha raccolto, in un lungo e costante processo di trasformazione, l’eredità del CEDE.- Centro Europeo dell’Educazione istituito nei primi anni settanta del secolo scorso.”
L’attività dell’INVALSI è iniziata con l’impegno di entrare nelle scuole e costruire un osservatorio nazionale in grado di fotografare la situazione e tenerla sotto controllo fornendo dei report in parallelo con gli altri enti che si occupavano delle rilevazioni e comparazioni internazionali.
Ancora una volta gli insegnanti non hanno gradito, in quantità non trascurabile, questa attenzione al loro lavoro e ci sono state manifestazioni di dissenso e di opposizione verso la prevista somministrazione dei test agli alunni. Certamente non casuali sono stati gli inviti ai genitori degli alunni di tenere a casa i proprio figli il nuovo giorno di somministrazione visto che il test venne rinviato e non cancellato il giorno dello sciopero. Successivamente i test previsti sono stati effettuati e sono stati inseriti nelle prove d’esame di fine ciclo. Quello che si sospettava è venuto ovviamente alla luce: la qualità dell’apprendimento rilevata è stata al di sotto degli standard europei. Naturalmente non tutti sono stati d’accordo nell’importanza attribuita ai test nella valutazione individuale e complessiva. Non irrilevanti né trascurabili le obbiezioni circa la costruzione di una didattica dedicata alla soluzione dei test e non di un apprendimento finalizzato alla formazione generale. Sono obiezioni di cui è bene tener conto, come debbono essere tenuti sotto particolare osservazione i metodi “infallibili” e diffusissimi per l’insegnamento della matematica che alla fine si traducono in un addestramento meccanico e fine a se stesso.
“Galileo.it”[4] ha proposto una serie di interviste con Paolo Mazzoli, Direttore generale dell’INVALSI, che si è confrontato con i docenti partecipanti al convegno Riflessioni sul fare scienze a scuola (Spinea, 17 – 19 giugno 2015) sul sistema di valutazione della scuola italiana, raccogliendo critiche e suggerimenti e rispondendo ad alcune domande.
In apertura ha ricordato qual è la missione dell’Istituto. “Art. 3. Compiti dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione. L’Istituto effettua verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni di istruzione e di istruzione e formazione professionale, anche nel contesto dell’apprendimento permanente”. [D. Lgs. 286/2004]
In seguito Paolo Mazzoli si è soffermato sul tema Chi deve correggere le prove INVALSI?[5]
Una citazione per tutte che, credo, ben rappresenti lo spirito con cui è stato affrontato il problema guardando dritto alla necessità di dare al Paese uno strumento in grado di fornire risposte precise sulla funzionalità del servizio scolastico e il grado di spossatezza degli insegnanti per conoscere con scientifica sicurezza, lo stato delle cose.
“L’INVALSI sarebbe felicissimo di non ricevere decine di proteste e diffide per la richiesta di correzione ma, secondo me, proteste e diffide sono un brutto segnale, perché implicano un’idea dei compiti del docente che riguarda esclusivamente la propria attività di classe. E questo non va bene. È certamente gravoso correggere le tante crocette delle prove, ma è altrettanto gravoso correggere pacchi di compiti o di schede la domenica pomeriggio. Buona parte di questi compiti potrebbe essere eliminata da una didattica diversa, indipendentemente dall’INVALSI. In questi casi, però, l’insegnante si sente obbligato a lavorare perché i bambini sono “suoi” mentre, se si chiede di farlo anche per bambini di altri, allora compaiono le proteste. Dunque qualcosa non va, come non va nelle Università dove ci si occupa delle proprie lezioni senza partecipare alla vita collettiva di dipartimento.”
Il “questionario studente” raccoglie le domande rivolte ai ragazzi di quinta elementare per registrare la percezione della scuola da parte loro. Ma i bambini sono davvero liberi di dire quello che pensano? [6]
Risponde il direttore dell’INVALSI
Non è certo che i ragazzi rispondano con sincerità specialmente per il fatto che le risposte saranno esaminate dai loro insegnanti che non vengono considerati estranei al clima che si respira in classe. Inoltre è molto difficile che un ragazzo violento o troppo attivo risponda che non disturba o è violento nei confronti dei compagni. Le risposte possono essere “accomodate”, ma anche in questo caso offrono un quadro utili agli insegnanti della classe per conoscere meglio con chi hanno a che fare.
“Servono per documentare, ad esempio, quanto è diffuso tra i ragazzi la sensazione di essere gli zimbelli della propria classe. Sono dati riservati e noi non possiamo dare suggerimenti per usarli o per come usarli. Però sono dati disponibili per le scuole che vogliano chiederli, per i dirigenti o il gruppo di staff che vogliano elaborarli e studiarli, eventualmente per prendere provvedimenti conseguenti. Sappiamo che è facile equivocare e bisogna stare sempre molto attenti prima di intervenire nelle classi in cui alcuni ragazzi hanno dichiarato una difficile sopravvivenza o un clima particolarmente difficile.”
Le prove INVALSI misurano anche le competenze matematiche?[7]
Poiché i test, anche per la di matematica, sono formulati in forma scritta, gli insegnanti sostengono che questi rilevano soprattutto competenze di lettura.
“La mediazione linguistica è trasversale ad ogni tipo di conoscenza che è difficilissimo, se non impossibile dire dove finisce la comprensione linguistica e dove comincia la comprensione matematica. Lavorando sulle prove di matematica ci siamo convinti che la comprensione della lingua fa anche parte della comprensione matematica oppure, per dirla in altri termini, che nella comprensione della lingua sono intrecciati aspetti logico-matematici.” Questo l’avvio della risposta di Paolo Mazzoli.
Argomentare è fondamentale anche per la matematica; di conseguenza, la soluzione di un problema matematico implica anche una certa disinvoltura nella comprensione del testo. Ragionevole, invece, l’obiezione di coloro che pensano che le domande sono formulate in modo troppo difficile per il livello di comprensione dei bambini delle varie classi, e su questo si può discutere.
“Ma le prove sono stati attentamente calibrate e sperimentate su un campione di studenti: delle 25-30 domande proposte ce ne sono alcune che sono calibrate al di sopra delle competenze medie, altre al di sotto e alcune che stanno nel mezzo. Perché sono state tutte inserite nelle prove nazionali? Perché lo scopo delle prove è quello di discriminare il più possibile. Dai pretest fatti sappiamo, ad esempio, che il 10-15% circa degli studenti è capace di rispondere anche a domande estremamente difficili. Non siete curiosi di sapere che nella vostre classi, già a sette anni, ci sono bambini particolarmente capaci, e sapere che accanto a questi ce ne sono altri che non rispondono a domande di difficoltà bassissima, cioè che sono al livello di bambini molto più piccoli? Non vi interessa conoscere le capacità dei vostri ragazzi, anche se sono molto fuori standard?”
I ragazzi son tutti diversi, somministrare solo domande di difficoltà media non consentirà mai di sapere se in classe ci sono delle eccellenze e altri ragazzi che hanno bisogno di sostegno.
L’INVALSI in terza media: valutiamo la scuola o l’alunno?[8]
Perché i test INVALSI fanno media con le altre prove negli esami di Stato? Ciò crea confusione sulla loro natura e funzione: valutazione delle scuole (tramite alcuni esiti di apprendimento) o valutazione degli esiti di apprendimento dei singoli allievi? Non è più utile il confronto tra i due risultati?
È vero. La prova INVALSI nell’Esame di terza media è l’unica prova «bivalente»: valuta il sistema e, allo stesso tempo, l’alunno. Comincia a rispondere il Direttore dell’INVALSI.
La legge che ha introdotto la prova nazionale INVALSI nell’esame di terza media è del 2007 con il Governo Prodi e il Ministro Fioroni al MPI,: malgrado alcune controindicazioni teoriche, si reputò necessario inserire una prova standardizzata per comparare nell’Esame di Stato le competenze essenziali di cittadinanza (competenza linguistica e matematica di base). Contrari il Comitato Scientifico Nazionale, la Fondazione Agnelli, le Associazioni professionali, i sindacati. Si è dovuto attendere la delega al Governo nel ddl Buona scuola. Dunque si tratta di una domanda particolarmente fondata.
Occorre capire se a tredici anni sono state acquisite alcune competenze essenziali di cittadinanza come requisiti per esercitare cittadinanza attiva: una buona conoscenze della lingua italiana e della matematica. “Infatti non si può accettare che dopo otto anni di scuola, di fronte ad una formulazione, o una rappresentazione, o un ragionamento matematico, un ragazzo di tredici anni non sappia dove mettere le mani o non riesca a capire niente. (Ad esempio di fronte alla frase: “a parità di potenza impegnata l’utente paga in proporzione all’energia elettrica consumata” un gran numero di adulti ha notevoli difficoltà di comprensione).”
In ogni caso il confronto tra le due valutazioni (prove della scuola e INVALSI) dà spesso dei risultati imprevisti; e talvolta è molto più severo il giudizio che viene fuori dalla prova standardizzata. “A me interessano entrambi i giudizi: sapere come il ragazzo viene valutato dai suoi docenti (e questo è un giudizio relativo al percorso svolto) e sapere anche, come genitore e come cittadino, a che punto il ragazzo è arrivato (e questo è un giudizio assoluto).”
Sarebbe opportuno rivedere altre caratteristiche dell’esame di terza media: “per esempio, è insensato che il voto di ammissione pesi soltanto un settimo rispetto agli altri voti, mentre alla maturità pesa un quarto; semmai dovrebbe essere il contrario.”
La delega al governo per cambiare l’esame di Stato tenterà il riequilibrio del voto di ammissione con quello dei voti riportati negli scritti e negli orali e rimandare ad un altro momento la prova INVALSI che però resterebbe obbligatoria. In questo modo non dovrebbe più esserci confusione tra il giudizio relativo al percorso dell’alunno e il giudizio che, pur riferito all’alunno, riguarda la qualità dell’apprendimento di sistema. Sarebbe interessante anche capire cosa succede nel tempo, confrontando la situazione attuale con quella precedente.
La diffidenza nei confronti di un sistema di valutazione in linea con gli standard mondiali di rilevamento dovrebbe essere superata soprattutto dai docenti che hanno bisogno di sentirsi confortati in una, riflessione, che non può essere ristretta al singolo o a piccoli gruppi, che ci porti ad un altro modello di insegnamento che tenga realmente conto di quanto suggeriscono le moderne conoscenze relative ai percorsi di apprendimento.
Sarebbe bello e anche giusto che i docenti, in questo cambiamento strategico, fossero i protagonisti.