Minacce in alto mare 4. La memoria di tutte le guerre
Eleonora Polo1
Negli ambienti acquatici si nasconde una vera e propria bomba a orologeria: milioni di tonnellate di ordigni bellici che si stanno corrodendo e possono ancora liberare il loro carico di morte.
La guerra infinita
L’ambiente è la vittima silenziosa di tutte le guerre, perché, in previsione di un conflitto, gli analisti si occupano più delle future perdite di vite umane e della distruzione di proprietà e infrastrutture che delle conseguenze ecologiche, dell’impoverimento delle risorse naturali e della morte di specie animali e vegetali. I danni delle due guerre mondiali e dell’attuale situazione di conflitti diffusi2 li stiamo già in parte pagando, ma soprattutto li pagheremo con interessi salatissimi nei decenni a venire.
Che cosa e Perché: il materiale bellico affondato o inabissato di proposito
Sui fondali marini e lacustri e nelle zone costiere, milioni di tonnellate di materiale bellico si stanno corrodendo da decenni, creando una
seria minaccia per l’ambiente e per le attività umane offshore.
Si possono individuare tre tipologie di residuati:
1) relitti di unità navali di superficie, subacquee, ausiliarie e di supporto e aerei inabissati durante i combattimenti o in seguito a incidenti di vario tipo; navi piene di rifiuti affondate di proposito per eliminare materiale obsoleto e altri rifiuti scomodi;
2) munizioni convenzionali (bombe, razzi, siluri e mine navali) non esplosive, esplosive e incendiarie;
3) munizioni e contenitori di armi chimiche di varie tipologie e pericolosità: irritanti (lacrimogeni, urticanti, starnutatori), vescicanti (iprite e mostarde azotate, lewisite e arsenicali), soffocanti o asfissianti (cloro, fosgene, cloropicrina), veleni sistemici (cianuri e fluoroacetati nella categoria dei tossici enzimatici, organofosfati neurotossici, gas nervini).
Le munizioni che giacciono sui fondali possono provenire direttamente dai combattimenti o dalle esercitazioni (compresi gli ordigni inesplosi) o dallo smaltimento deliberato per impedirne l’uso da parte del nemico in caso di resa o di evacuazione oppure per liberarsi di materiale danneggiato, obsoleto, fuori produzione o in surplus. Appartengono alla seconda tipologia, classificata come materiale militare scartato, gli oggetti esplosivi scaricati in mare dopo essere stati privati delle spolette e dei detonatori e quelli rilasciati di proposito durante le attività militari, definiti come ordigni inattesi, come gli armamenti da caduta non utilizzati che i bombardieri devono comunque scaricare in mare prima dell’atterraggio/appontaggio per prevenire esplosioni in caso di incidenti.
Ovviamente le armi chimiche sono quelle che fanno più paura a causa della loro tossicità e della facilità di contaminazione ambientale, ma non va sottostimato l’effetto degli esplosivi, in particolare fosforo bianco, TNT e nitroaromatici. Un discorso a parte riguarda il materiale radioattivo di cui parlerò nel prossimo articolo.
Quando e Chi: un po’ di storia
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, esercitazioni e azioni di guerra lungo le coste e a bordo delle navi hanno cominciato a immettere sempre di più munizioni e altri ordigni negli ambienti marini. Tuttavia, questo tipo di contaminazione costituisce solo una frazione dei rischi ambientali causati dai materiali bellici dispersi, perché il problema principale è costituito dal dumping (abbandono deliberato di rifiuti) in mari e oceani di munizioni di ogni tipo e armi chimiche. Per esempio, verso la fine della seconda guerra mondiale, i tedeschi si sono liberati in fretta di molti armamenti per rimuoverli da aree che sarebbero state probabilmente bombardate, per impedire che finissero in mano alle truppe alleate o per demilitarizzare alcune zone prima della resa imminente. Finita la guerra, anche gli Alleati si sono comportati allo stesso modo (Fig. 2) per rimuovere in fretta materiale da guerra dai territori nemici o come alternativa
sicura -ma soprattutto economica- per eliminarlo.3
Finita la Seconda Guerra Mondiale un po’ in tutto il mondo si sono verificati episodi simili e quantità non misurate, ma classificate come grandi, di munizioni convenzionali e altri materiali di origine militare sono finiti sui fondali per lo più in zone entro dodici miglia nautiche dalle coste. Molte operazioni di smaltimento sono state appaltate dai militari a organizzazioni civili per risparmiare tempo e denaro, ma i controlli sul loro operato sono stati minimi o assenti. In particolare, si calcola che sul fondale marino lungo la linea costiera del Mar Baltico 4 e del Mare del Nord 5 siano finite almeno 360.000-385.000 tonnellate di diversi tipi di munizioni, di cui circa 300.000 del tipo convenzionale.
Uno dei casi che ci riguardano da vicino è il destino delle quindicimila bombe all’iprite 6 stivate nella nave americana John Harvey, alla fonda nel porto di Bari il 2 dicembre 1943, un carico segreto che Churchill avrebbe voluto usare per un attacco alla linea Reinhard. La nave è stata colpita durante il bombardamento 7 dell’area portuale e molte bombe all’iprite sono esplose disperdendo il potente e aggressivo agente chimico nelle acque e nell’aria. Ci sono stati 617 contaminati e 84 morti e sarebbero stati molti di più se il vento non avesse improvvisamente cambiato direzione allontanando la nube tossica dalla città. Tuttavia i decessi, coperti da segreto militare, sono stati frettolosamente attribuiti a cause non ben precisate e a infezioni.
Ma che cosa è accaduto alle bombe inesplose finite sui fondali? Finita la guerra, la bonifica è stata superficiale e poco trasparente perché si è voluto fare in fretta e spendendo poco. L’Adriatico è diventata un’immensa discarica di ordigni tossici, il tutto coperto da segreto militare 8 . Le prime operazioni, affidate inizialmente a una ditta italiana, attraverso i soliti giochi di subappalti, sono finite anche in mano a piccoli gruppi di pescatori che, invece di arrivare nelle aree destinate, per negligenza o per risparmiare carburante hanno scaricato il materiale bellico dove capitava e addirittura in prossimità dei porti di Bari e Molfetta. Da allora si sono susseguiti incidenti che hanno coinvolto soprattutto i pescatori.
L’iprite liberata, un liquido volatile insolubile in acqua, è assorbita in parte dai sedimenti marini o torna a galla. È una sostanza molto penetrante che agisce sulla pelle infiltrandosi anche attraverso i tessuti, il cuoio e la gomma. Gli effetti si fanno sentire alcune ore dopo l’esposizione a meno che non sia a concentrazioni mortali. Provoca gravi lesioni, dolorose e di difficile guarigione per contatto sulla pelle, negli occhi e nelle vie respiratorie. Inoltre, presenta tossicità e cancerogenicità anche a distanza di anni dall’esposizione.
Dove e Come: la collocazione dei rifiuti
L’ubicazione di queste discariche mortali non è sempre documentata perché molte operazioni di dumping sono state condotte in segreto in molte parti del mondo. Una stima approssimata indica che dal 1946 siano finite negli oceani 1,8 milioni di tonnellate fra munizioni e bombe e 235.000 tonnellate di armi chimiche. Solo una parte dei residuati bellici è confinato in aree note e circoscritte, mentre il resto è sparpagliato in zone meno definite o manca del tutto all’appello.
Le concentrazioni maggiori sono nel Mare del Nord, nel Baltico (stima: 1,6 milioni di tonnellate di munizioni relitte) e nel mar del Giappone, ma anche il Mar Mediterraneo non scherza e non sono state neppure risparmiate le riserve marine.
Dal 1946 al 1988 i pescatori e le associazioni che si sono occupate dello smaltimento delle armi hanno recuperato circa 250.00 tonnellate di munizioni con un pesante bilancio di morti e di feriti.
Nonostante una convenzione internazionale in vigore dagli anni ‘70 vieti lo sversamento in mare di sostanze nocive, come gli esplosivi e gli aggressivi chimici contenuti negli ordigni, solo nel triennio che va dal 1996 al 1998, Giappone, Federazione russa e Portogallo, i pochi paesi che lo hanno dichiarato ufficialmente, hanno scaricato nell’oceano circa 1700 tonnellate tra esplosivi e munizioni. Molto materiale è stato scaricato in acque internazionali direttamente o usando come bare vecchie navi in disarmo, stipate di ogni tipo di residuati bellici, talvolta associati a scarti ospedalieri e altri rifiuti speciali, prima di essere affondate di proposito.
La scoperta avviene spesso per caso durante la pesca a strascico o quando si installano impianti in mare aperto e sui fondali marini.
Fig. 39 Schermata di una mappa interattiva mondiale della collocazione delle maggiori zone di accumulo di materiale bellico
Il quadro europeo, che include anche gli armamenti convenzionali, è altrettanto inquietante (Fig. 4) 10 , in particolare nel
Mare del Nord e nel Mar Baltico.
Sarcofaghi che perdono. Rischi potenziali e reali
Le munizioni scaricate rappresentano ancora una minaccia, soprattutto in caso di contatto diretto durante la pesca, i lavori di dragaggio sottomarino o i tentativi di disinnesco da parte di cercatori casuali. Il livello di pericolo dipende dallo stato in cui si trovano gli oggetti dopo decine di anni trascorsi in un ambiente aggressivo di acqua salata.
La pericolosità è dovuta sia al rischio di esplosione accidentale che alla contaminazione chimica causata dalla fuoriuscita di esplosivi, materiali di innesco o armi chimiche in seguito alla corrosione dei contenitori.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la sensibilità all’impatto degli esplosivi tende ad aumentare nel tempo e le sostanze residue dell’esplosione sono altamente tossiche, quindi occorre la massima cautela per evitare detonazioni spontanee.
Il problema è aggravato dal fatto che non si ha mai la certezza di cosa possa trovarsi in un sito, se ci sono detonatori che possono ancora esplodere, qual è lo stato di corrosione dei contenitori, se e quali armi chimiche sono presenti. Per di più, verso la fine dei due conflitti mondiali, quando mancava un po’ di tutto, sono stati usati i materiali più disparati per assemblare le munizioni, per cui è impossibile conoscere in anticipo quali sostanze contengono e come potrebbero comportarsi. Infine, resta l’incognita dell’eventuale presenza – mai dichiarata – di rifiuti ospedalieri o provenienti da scarichi industriali di materiali tossici.
Negli ultimi decenni si stanno già riscontrando effetti di tossicità e bioaccumulo in numerose specie marine. Per esempio, vari studi sul basso Adriatico hanno rilevato che gli organismi esposti ai prodotti dell’idrolisi dell’iprite mostrano lesioni nei tessuti, bioaccumulo di xenobiotici e alterazioni del comportamento. C’è il fondato rischio che insorgano mutazioni genetiche, teratogenesi e cancro. Questi effetti minacciano l’intera rete trofica e possono avere conseguenze sulla capacità riproduttiva di varie specie. Anche le armi chimiche a base di arsenico presentano problemi di tossicità analoghe.
Un tempo si pensava -o faceva comodo pensare- che la collocazione in mare, oltre che più economica, fosse anche sicura perché, in caso di perdite, gli agenti chimici e gli esplosivi si sarebbero diluiti in breve tempo a concentrazioni non pericolose. Non si è tenuto conto della grande varietà di sostanze chimiche usate e delle loro proprietà, in particolare la solubilità in acqua. Mentre la maggior parte degli agenti nervini è idrosolubile e si disperde in pochi giorni e altri prodotti si degradano per idrolisi, le mostarde di zolfo come l’iprite e i composti di arsenico sono liposolubili e restano a lungo in acqua mantenendo la loro pericolosità per periodi prolungati, anche anni.
Lo stesso vale per il fosforo bianco (Fig.5) usato nelle bombe incendiarie e classificato come arma convenzionale. Si tratta di una sostanza estremamente tossica per gli esseri umani e che a temperatura ambiente può reagire con l’ossigeno in modo estremamente violento, incendiandosi (1300°C) e bruciando fino all’esaurimento. Quando lo si trova sulle spiagge presenta un aspetto simile all’ambra, ma guai a toccarlo! È tristemente noto l’incidente occorso nel 2014 a Gerd Simanski, un ignaro pensionato tedesco che si dilettava a cercare ambra e altri oggetti interessanti sulle spiagge del Baltico. Un giorno trovò una pietra arancione delle dimensioni di una piccola moneta e la infilò nella tasca dei jeans. Dopo alcuni minuti sentì uno schiocco e una fitta dolorosa vicino all’anca e quando abbassò lo sguardo vide fiamme gialle sprigionarsi dalla sua gamba sinistra. Quando infilò la mano in tasca per spegnere il fuoco al tatto, i polpastrelli si ricoprirono di una sostanza viscosa che trasformò le dita in candele accese quando le estrasse dalla tasca. Le fiamme poi si estesero al grasso sottocutaneo e l’unica soluzione fu quella di buttarsi in acqua in attesa degli aiuti. Nell’acqua fredda le fiamme si spensero, ma riprendevano a contatto con l’aria. Per questo motivo anche il trattamento e lo stesso trasporto presentarono problemi enormi. Furono necessari due mesi di ricovero in ospedale per guarire le ustioni che coprivano un terzo del suo corpo. Tuttavia gli è rimasto un dolore cronico e il danno alla gamba sinistra è stato così grave che anche gli innesti di pelle non hanno dato risultati accettabili.
Il TNT (trinitrotoluene, Fig. 6) e altri esplosivi nitroaromatici sono abbastanza stabili e sono sempre accompagnati da detonatori a base di mercurio o piombo (notoriamente velenosi per gli esseri umani). La loro tossicità è stata studiata su molti organismi e abbiamo molti dati anche sugli esseri umani, perché i danni per una esposizione prolungata sono stati riscontrati già durante la prima guerra mondiale nelle fabbriche in cui si assemblavano le bombe. Era un lavoro svolto soprattutto da donne, che venivano chiamate in Inghilterra ragazze canarino a causa della colorazione giallo-arancio che assumeva la loro pelle per intossicazione sistemica da TNT. Anche i neonati che partorivano presentavano la stessa pigmentazione. Gli effetti del TNT possono essere di due tipi: irritazioni alla pelle, alle vie respiratorie e al sistema digestivo, oppure intossicazione al fegato, con sintomi di nausea, itterizia, stipsi, vertigini. I test biologici dimostrano che tritolo e derivati sono nocivi già a concentrazioni molto basse (venticinque milionesimi di grammo per litro di acqua).
Come rimediare?
Di solito ci si muove sempre sull’onda dell’emergenza, ma non dovrebbe essere così, perché si tratta di un problema complesso a più fattori che richiede una programmazione tempestiva, professionale e prolungata nel tempo. In particolare, abbiamo bisogno di nuovi sistemi per smaltire le grandi quantità di munizioni abbandonate in mare, ma che siano economici, ecologici e non pericolosi.
L’unico metodo per eliminare gli ordigni è la bonifica, un’operazione rischiosa, lunga e complessa che può essere eseguita solo da tecnici altamente specializzati. Le bombe sono rimosse dai palombari e trasferite al largo in zone destinate a farle brillare, mentre quelle a contenuto chimico sono trasportate a terra per l’inertizzazione in poligoni e strutture dedicate dove sono trattate da artificieri addestrati a intervenire in caso di guerra nucleare, batteriologica e chimica.
Entrambe le operazioni sono così rischiose che ci si domanda sempre se non sia meglio lasciarle dove sono, anche perché da vari report militari risulta che una parte del materiale affondato era già in partenza danneggiato o non più a tenuta. La rimozione di grosse quantità di materiale comporta rischi tecnici che possono provocare danni persino peggiori di un lento inquinamento chimico. Però lasciarlo dove si trova e isolare la zona segnalando il pericolo di avvicinamento, un’opzione che non presenta rischi immediati, non esclude l’impatto ambientale nel lungo termine dovuto alla percolazione e presenta rischi per la sicurezza nazionale. Far conoscere la posizione di questi armamenti potrebbe indurre malintenzionati o balordi a cercare di recuperarli per usarli in attività criminose o di terrorismo.
Servono anche strumenti giuridici adeguati e aggiornati. L’Unione Europea ha introdotto di recente la Direttiva 1203/2024 sulla tutela penale dell’ambiente che di fatto riconosce il reato di ecocidio definito da Stop Ecocide International, un gruppo di lavoro di avvocati e legali internazionali, come atti illegali o sconsiderati compiuti con la consapevolezza di una significativa probabilità che tali atti causino danni all’ambiente gravi e diffusi o di lungo termine. Questa associazione si batte da anni perché questo reato sia inserito nella lista di crimini perseguibili dalla Corte penale internazionale dell’Aia in modo che sia possibile condannare e arrestare le persone accusate di «finanziare, permettere o causare gravi danni ambientali».
Conclusioni... ma c’è una conclusione?
In sintesi, c’è ancora molta incertezza sulla scala reale del problema, perché esistono molti vuoti dal punto di vista dell’informazione e della ricerca. Sono indispensabili collaborazioni internazionali in termini di scienza, politica e governo con l’obiettivo comune di ridurre i rischi per tutti gli ecosistemi marini. Non basta lavorare a livello nazionale, perché vari Paesi hanno scaricato il materiale da smaltire a casa di altri o in acque internazionali. Le forze armate statunitensi hanno ammesso di smaltito almeno il 60% dei loro scarti fuori dalle loro acque territoriali e i dati sono stati registrati solo dal 1941, mentre non c’è traccia di quanto è successo prima. Le tecnologie di esplorazione dei fondali marini hanno ora raggiunto un livello di maturità tale da poter affrontare la sfida di mappare e identificare le munizioni sott’acqua almeno a livello locale. Un’indagine su scala più ampia è possibile in teoria, ma troppo costosa in pratica.
Gli oggetti pericolosi sui fondali incidono sulla sicurezza degli investimenti in strutture di importanza strategica per la sicurezza e l’economia degli stati che si affacciano sul mare, come pesca, turismo e altre forme di esplorazione, a cui va aggiunta l’installazione di linee di comunicazione marittime e commerciali, infrastrutture di trasmissione offshore (gasdotti, oleodotti e cavi elettrici), terminali di gas naturale liquefatto, unità galleggianti di stoccaggio e rigassificazione e aree di investimento per parchi eolici in mare aperto.
Non possiamo certo mettere la testa sotto la sabbia… e pure lì non c’è da stare tranquilli.
Note
1 Ricercatrice CNR (ISOF) e docente di Didattica della Chimica e di Chimica Metallorganica presso l’Università di Ferrara
2 Ogni anno l’organizzazione non governativa ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), che si occupa di
monitorare i conflitti nel mondo, pubblica un rapporto sulle guerre in corso: il 2023 ha segnato un aumento del 12% rispetto al
2022 e di oltre il 40% rispetto al 2020. Di fatto, una persona su sei vive in un’area in cui è attiva una qualche forma di conflitto e si
possono individuare situazioni di vera e propria guerra in almeno 50 Paesi o territori.
3 Fotografie ufficiali di F. Menzies, sergente fotografo del War Office. Provenienza: collezioni dell’Imperial War Museum, Pubblico
Dominio, http://media.iwm.org.uk/iwm/mediaLib//51/media-51164/large.jpg.
4 B. Coen, É. Nadler, N. Koutsikas, Reportage Armes chimiques sous la mer, ARTE, 2014,
https://www.youtube.com/watch?v=FCleDXZuCIU
5 J. Loeuille, Menaces en mer du nord, 2018, https://www.youtube.com/watch?v=33rSwJ8PEL8
6 arma chimica usata a partire dalla prima guerra mondiale. Per i dettagli vedi: E. Polo, La chimica va alla guerra, Naturalmente,
Edizioni ETS, Vol. 27, n. 3-4, 2014, pp. 64-75
7 https://youdoc.it/video/2-dicembre-1943-inferno-su-bari
8 https://va.mite.gov.it/File/Documento/113398
9 Mappa interattiva: https://www.google.com/maps/d/viewer?mid=1IU5kWbDrPOrUccOrQ0In4Ca-zWQ&hl=en_US&femb=1&ll=18.87416350730545%2C9.404296875&z=2
10 https://maritime-forum.ec.europa.eu/contents/map-week-dumped-munitions-0_en
Bibliografia
1. E. Polo, L’isola che non c’è. La plastica negli oceani fra mito e realtà, Edizioni Dedalo, Bari 2020
2. N. Carnimeo, Come è profondo il mare. La plastica, il mercurio, il tritolo e il pesce che mangiamo, Chiarelettere, Milano 2014
3. U.C. Jha, Armed Conflict and Environmental Damage, Vij Books, India 2015
4. T. Missiaen, J.-P. Henriet, Chemical munition dump sites in coastal environments, Federal Office for Scientific, Technical and Cultural
Affairs (OSTC) Federal Ministry of Social Affairs, Public Health and the Environment, Brussels 2002
5. J. Beldowski, M. Edwards, M. Brenner, K. Lehtonen, Dumped munitions in the sea: fate, impacts and risks, Mar. Environ. Res.,
Special-issue, Elsevier, Amsterdam 2022
6. B. Cassandro, Inquinamento marino da armi chimiche e sua incidenza sulle zone costiere: un problema planetario, Contratto e impresa, Pacini Ed., vol.2, 2016, pp. 724-755
7. G. Zampetti, S. Ciafani, Armi chimiche: un’eredità ancora pericolosa, Legambiente, 2012,
https://web.archive.org/web/20220429215850/https://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/dossier_armichimiche_1.pdf
8. Gianluca Di Feo, Veleni di Stato, Rizzoli Libri, Milano 2011