raccolte cd
timberland euro, timberland uomo 6 inch stivali, timberland uomo barca stivali, timberland uomo earthkeepers, timberland uomo euro hiker stivali, timberland uomo nellie chukka, timberland uomo rotolo top stivali, timberland uomo scarpe da spiaggia, timberland donna 6 inch stivali
Povertà educativa

 

 

 

 Povertà educativa

 

Alice Barsanti

M. Chiara Levorato

 

Che cos'è la povertà educativa

Si parla di povertà educativa nei minori quando è compromesso il diritto ad apprendere, a crescere sviluppando capacità e competenze, a scoprire e coltivare le proprie aspirazioni e talenti. Parliamo di una condizione in cui ciò che manca sono diritti più ampi e al tempo stesso più basilari rispetto alla mera opportunità di usufruire dell’istruzione formale, che in teoria è accessibile a tutti. Generalmente la povertà educativa riguarda bambine1 e adolescenti che vivono in contesti sociali svantaggiati, caratterizzati da disagio familiare e precarietà occupazionale. È più frequente nelle famiglie monogenitoriali e/o con prole numerosa e/o monoreddito o con reddito da lavoro povero. È più diffusa nelle periferie dei grandi agglomerati urbani, nelle zone rurali più isolate e, in Italia, al Sud e nelle Isole. I minori con povertà educativa provengono spesso da famiglie con svantaggio economico: in Italia  il 12,5% dei minori di 18 anni si trova in stato di povertà assoluta e a loro volta hanno una probabilità più elevata di diventare degli adulti con una scarsa formazione professionale avendo in seguito minori opportunità di trovare un lavoro ben retribuito. È difficile nella vita delle persone e delle famiglie sganciare le condizioni economiche da quelle che riguardano il contesto sociale e famigliare nel quale si nasce e si trascorrono i primi anni di vita. Non è così in tutti i paesi: ci sono paesi ad alta vocazione egualitaria, come i paesi scandinavi, in cui l’erogazione di servizi e di welfare tende a mitigare gli effetti negativi dello svantaggio economico, mentre ci sono paesi in cui l’ascensore sociale non funziona e le condizioni economiche della famiglia in cui si nasce pongono seri ostacoli alla crescita culturale e sociale dell’individuo. Tali ostacoli, che hanno origine dall’interazione di fattori economici, sociali ed educativi, hanno come prima conseguenza l’abbandono precoce di un percorso scolastico poco soddisfacente, l’incapacità di avere relazioni adeguate con i pari e con le diverse agenzie educative e formative, la difficoltà, o disinteresse, a fruire di offerte culturali disponibili nel territorio.

Il costrutto di povertà educativa appare nel corso degli anni ’90 nei documenti di organizzazioni non governative (in particolare Save the Children e Con i bambini) che hanno contribuito e offerto la base scientifica e progettuale per l’istituzione  nel 2016  del “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile”. È un fenomeno di natura multidimensionale in quanto coinvolge non solo la condizione economica, ma anche aspetti sociali e culturali che influenzano negativamente la crescita del minore. La povertà educativa non va identificata con la povertà economica e materiale, poiché si associa ad una costellazione di fattori che influiscono in modo diverso se presenti isolatamente o con altri.

Prendiamo, ad esempio, due casi che si collocano nel continuum della dimensione della povertà educativa: una bambina che vive in Italia, straniera di prima generazione, ossia nata all’estero da genitori stranieri, è fortemente a rischio di povertà educativa per ragioni molteplici: economiche, linguistiche, culturali; la sorella più piccola nasce in Italia, è una immigrata di seconda generazione e può avere povertà educativa in misura minore e qualitativamente diversa perché ha frequentato un asilo nido o una scuola dell’infanzia, perché la famiglia di origine si è parzialmente integrata nella cultura ospitante e vive una condizione economica meno precaria. Le ragioni per cui due figlie della stessa famiglia possono avere povertà educativa in modi e misure diverse sono difficilmente quantificabili. Però la differenza esiste ed è tangibile. Una riprova ne è il fatto che l’abbandono scolastico, che è l’esito più manifesto ed evidente della povertà educativa, incide maggiormente nelle minori straniere di prima generazione che in quelle di seconda generazione, a conferma dell’importanza del contesto in cui si cresce e delle opportunità di cui si dispone fin dai primi anni di vita.

Per dirla con le parole di Marta Nussbaum e Amartia Sen2, le due sorelle che abbiamo immaginato potrebbero sviluppare livelli diversi di funzionamento, intendendo con questo l’insieme delle cose che si è in grado di fare o di essere nella conduzione della propria vita:  le qualità personali che si possono esprimere, le azioni e i percorsi che si possono intraprendere, i progetti di vita che si possono immaginare. Ovviamente il livello di funzionamento è culturalmente determinato, oltre che economicamente determinato: nella nostra società, il livello di funzionamento richiesto include molte abilità, competenze, capacità di adattamento; gli apprendimenti sono molteplici e devono avvenire durante tutto l’arco della vita, come è richiesto dallo sviluppo scientifico e tecnologico e dalla complessità dell’organizzazione sociale. 

La povertà educativa non è una semplice fattispecie della povertà economica, come dimostra il fatto che l’aumento della ricchezza di un paese non si traduce in un miglioramento nel livello di funzionamento dei suoi cittadini, se non è accompagnato da un parallelo sviluppo sociale e culturale, il quale non coincide né col PIL né con la speranza di vita, ma include fattori come le relazioni sociali, il supporto sociale, la rete di aiuti familiari, la fiducia nelle proprie possibilità. La complessità del sistema culturale e sociale e la rapidità delle trasformazioni del sistema economico sono caratteristiche di un sistema sociale in cui la povertà educativa determina minori opportunità di impiego nel mondo del lavoro, redditi più bassi, marginalità ed esclusione sociale.

Il divario tra bambini di famiglie agiate e bambini svantaggiati non si crea a scuola; questi ultimi molto probabilmente vedono aumentare nel contesto scolastico la distanza dal resto dei coetanei, con conseguente perdita di fiducia non solo in se stessi e nelle proprie capacità, ma anche nella società. La scuola ha, invece, la responsabilità di non contrastare in modo efficace la povertà educativa. Una riprova delle discrepanze nella popolazione studentesca, e dell’iniquità sottostante ad esse, è data dal tasso di dispersione scolastica3, ossia nell’incapacità di leggere e comprendere un testo al livello appropriato alla classe scolastica frequentata: i ragazzi e le ragazze provenienti da famiglie svantaggiate a livello socioeconomico che non raggiungono le competenze minime in lettura (come pure in matematica) sono il 24%, contro il 5% di quelli che vivono in famiglie socio- economicamente stabili. 

 

Fattori di rischio

Prima di delineare brevemente alcuni dei fattori di rischio di povertà educativa è opportuna una precisazione: la povertà educativa si instaura molto presto poiché trae origine dal contesto di crescita fin dai primi anni di vitaLe stimolazioni precoci, le preferenze e i talenti che si manifestano da piccoli, lopportunità di sviluppare competenze  relazionali, lo stabilirsi di relazioni affettive sicure e solide fin dai primi anni di vita costituiscono le basi per lo sviluppo futuro, e forniscono  la struttura e larchitettura su cui evolvono capacità e relazioni più mature e cognitivamente più consapevoli. Lo testimonia limportanza che hanno nello sviluppo dellinfante i primi 1000 giorni di vita e la frequentazione dellasilo nido, che infatti è un indicatore positivamente correlato ad una crescita sana, ricca e armoniosa, e che, in un contesto socialmente svantaggiato, può svolgere una positiva azione di supplenza e compensazioneÈ difficile che i danni che iniziano in età minorile possano venir compensati da azioni rivolte a giovani adulti o adulti: è necessario intervenire fin dai primi anni di vita, perché più passa il tempo nella vita del singolo, più è difficile porvi rimedio, tanto più in una fase storica come l’attuale in cui l’ascensore sociale non funziona per le fasce di popolazione più deboli. 

Nei primi anni di vita il microcosmo nel quale avviene il maggior numero di interazioni è la famiglia: è qui che ha origine la povertà educativa, come dimostrano le ricerche, oramai piuttosto numerose, che hanno individuato già verso i 3 o 4 anni una elevata correlazione tra il livello di scolarità dei genitori e lo sviluppo di capacità cognitive, linguistiche e relazionali dei figli. Nelle famiglie in cui i genitori hanno solo il titolo di scuola elementare o di scuola media di primo grado, le bambine mostrano uno sviluppo più lento dal punto di vista cognitivo, linguistico, motorio e relazionale, rispetto alle coetanee i cui genitori hanno concluso la scuola secondaria superiore o l’università. Purtroppo le differenze tra le bambine provenienti da contesti culturali diversi è già evidente in età prescolare e non solo non è mitigata dalla frequenza della scuola dell’obbligo, ma spesso ne è aggravata.

Il livello di istruzione in genere determina la condizione lavorativa: genitori che non hanno concluso il ciclo di studi dell’obbligo, spesso hanno condizioni lavorative precarie o non soddisfacenti e un reddito non sufficiente a garantire una vita serena alla propria famiglia. Dunque, c’è una correlazione tra livello di istruzione e reddito da lavoro. Se il contesto familiare è svantaggiato dal punto di vista culturale ed economico, l’accesso da parte della bambina alla conoscenza, alla cultura e alle esperienze educative può essere problematico. Oltre a questo, le rappresentazioni implicite dei genitori circa la propria funzione educativa tendono a non valorizzare i talenti della bambina, a non promuovere la sua motivazione a crescere e imparare, a non riconoscere le sue aspirazioni. Questa è, appunto, la situazione tipica della povertà educativa: la bambina non viene messa nelle condizioni di fruire delle opportunità messe a disposizione dalla scuola o dalla società. Tutto questo di fatto limita lo sviluppo, sia linguistico, sia cognitivo, ma anche emotivo, relazionale e personale, ostacolando la crescita di una persona libera e compiuta, capace di partecipare attivamente alla vita della sua comunità, nonché di ottenere un lavoro adeguato alle proprie possibilità e aspirazioni. 

Oltre al livello di scolarità dei genitori e allo status socio-economico, altri fattori di rischio aumentano la probabilità di povertà educativa.  È più corretto parlare di fattori di rischio, anziché di cause, sia per la multidimensionalità del fenomeno, sia per evitare un certo determinismo insito nel concetto di relazione causale, sia perché consente di spostare l’accento sulla possibilità di prevenzione del fenomeno. 

Abbiamo già accennato alla condizione delle famiglie di origine straniera in cui in genere coesistono uno svantaggio economico, socio-culturale, linguistico che rendono molto probabile il verificarsi di povertà educativa. Occorre tener presente però che la condizione di svantaggio dipende significativamente dalla capacità del paese ospitante di mettere in atto politiche di accoglienza e azioni concrete volte all’integrazione delle persone straniere. Questa raccomandazione  rinvia a un aspetto basilare della povertà educativa: all’origine dell’esclusione sociale ci sono i processi discriminatori messi in atto dalla società. Per le persone di origine straniera, diversi aspetti che costituiscono dei fattori di rischio di povertà educativa sono intrinseci alla loro condizione di immigrati (povertà economica, limitata conoscenza della lingua, etc.), ma la discriminazione e gli stereotipi negativi di cui sono oggetto sono l’altra faccia della medaglia: essi sono intrinseci alla società che li accoglie e ostacolano il superamento delle condizioni oggettive della famiglia immigrata. Ciò che spesso ostacola la piena integrazione delle famiglie straniere nel tessuto sociale sono rappresentazioni sociali discriminatorie e inique, soprattutto se il tessuto sociale è caratterizzato da arretratezza e immobilità culturale.

Un caso analogo, in cui è la società che limita lo sviluppo dell’individuo, è quello della persona con disabilità, non tanto, e non solo, ostacolata dalle sue limitazioni fisiche o psichiche, ma soprattutto perché  l’abilismo è la norma, desiderabile e tassativa, che determina l’organizzazione sociale, economica, lavorativa, e indirizza la definizione delle priorità e delle prerogative della vita umana.

L’articolo 3 della costituzione italiana, che recita “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e leguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, è purtroppo rimasto lettera morta, e questo vale non solo per condizioni fortemente minoritarie, come quella della persona con disabilità, o transitorie, come quella della bambina di origine straniera che si esprime con difficoltà  perché non conosce la lingua italiana, ma addirittura per una condizione statisticamente maggioritaria e permanente: le persone di genere femminile. In questo caso, così come in quelli sopracitati, una diffusa arretratezza culturale genera discriminazione e porta con sé lo stereotipo del genere femminile adatto al lavoro di cura e meno adatto a professioni che richiedono una formazione scientifica.  Il peso degli stereotipi offre una chiave di lettura della disparità di genere nela rappresentatività delle donne nei settori delle materie STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). Nonostante le donne siano la maggioranza nella popolazione delle persone con laurea, la quota di laureate in discipline STEM è ancora minoritaria: il 40,9%, ma se si va a vedere quale percentuale tra tutte le studentesse sceglie corsi STEM il numero non è incoraggiante: in Italia il dato è pari a circa il 17%, in linea con la media europea (16%) e di altre nazioni come Svezia (16%) e Francia (15%).

Gli stereotipi di genere sono alla base di limitazioni della libertà della persona e dei suoi diritti nella misura in cui le bambine e le ragazze vengono trattate non come individui ma come appartenenti ad una categoria il cui valore è sminuito da pregiudizi e generalizzazioni illegittime. L’opinione che gli uomini e le donne abbiano cervelli diversi è un puro mito che non ha alcuna base scientifica. Ci sono delle differenze all’interno del mondo maschile come pure all’interno del mondo femminile, ma maschi e femmine hanno cervelli uguali e in tal senso sia i maschi che le femmine sono vittime del pregiudizio che attribuisce loro capacità diverse. Lo dimostra chiaramente Gina Rippon (2019), professoressa emerita presso l’Aston Brain Centre di Birmingham (UK), che alla luce degli studi di neuroimaging conclude, “un mondo che ha sviluppato la distinzione tra i generi ha anche prodotto l’idea che i cervelli portano differenze di genere”. In altre parole la cultura tuttora dominante ha prodotto due risultati coerenti e strettamente legati tra loro: ha indirizzato le bambine, le ragazze e le donne ad adottare comportamenti desiderabili e funzionali a una certa organizzazione sociale e del lavoro, e nel contempo, attraverso la creazione di stereotipi, ha costruito una “teoria” che indica quei comportamenti come biologicamente determinati e dunque “naturali”. Anche i maschi sono destinatari, involontari e spesso inconsapevoli, di una pressione culturale che non sempre rispetta le loro reali inclinazioni e comprime la loro libertà.

I dati mostrano come lo sbilanciamento di potere tra generi sia pressoché impossibile da superare in quasi tutti gli ambiti di vita, ma il percorso originato dal più equo accesso alla scolarizzazione per entrambi i sessi sta procedendo, grazie ad una maggiore consapevolezza delle dinamiche culturali e sociali che sottendono questi squilibri. Sono molte le strategie per il superamento degli stereotipi di genere, dal trattare maschi e femmine con rispetto delle loro differenze, ricercando al contempo la possibilità di esprimere i talenti più autentici, rispettando le loro inclinazioni in qualunque ambito dell’agire umano, perseguendo l’equità in ogni contesto e situazione che veda agenti di diverso genere; anche usare un linguaggio inclusivo in cui il maschile e il femminile siano equamente rappresentativi può servire a questo obiettivo. 

 

Un approccio intersezionale

Deve essere chiaro che gli aspetti delineati in queste pagine, dalle condizioni economiche alle discriminazioni, non sono cause che producono automaticamente effetti come l’esclusione sociale o la povertà educativa, ma bensì fattori che aumentano la probabilità che si verifichino situazioni che limitano la libertà e la capacità di esprimere se stessi. Esistono poi gradi diversi di povertà educativa, a seconda di quanto sono radicati i fattori che contribuiscono a determinarla, da quanto sono stabili o temporanei. In quanto fattori di rischio, possono essere identificati, studiati nei loro effetti e analizzati alla luce degli interventi da mettere in atto per mitigarne le conseguenze negative. Come evidenziato nelle pagine precedenti questi fattori possono presentarsi congiuntamente, intersecandosi e sovrapponendosi, aggravando così il rischio che si presenti povertà educativa. A ragion di ciò andrebbero studiati e analizzati a partire dalle loro interazioni e correlazioni, in un approccio intersezionale, secondo cui le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società (genere, disabilità, etnia etc.) agiscono sulla persona a molteplici livelli. Questo tipo di indagine è compito delle scienze umane, ma non in maniera disgiunta tra di loro: sociologia, pedagogia, psicologia, economia devono unire approcci e metodologie di indagine col fine ultimo di evidenziare quali fattori si presentino e in che misura ciascuno di essi pesi sullo sviluppo dell’individuo. 

Le conseguenze a lungo termine della povertà educativa riguardano diversi livelli di realizzazione personale, principalmente quello relativo all’ambito lavorativo; per questo motivo il contrasto alla povertà educativa deve essere un obiettivo di tutta la società e di tutta la comunità educante, conferendo alla scuola il ruolo di principale agente di cambiamento, in grado di evocare con maggiore chiarezza la funzione di servizi, interventi e politiche per l’infanzia e per l’adolescenza.

Abbiamo conosciuto negli ultimi decenni un notevole progresso economico e tecnologico, ma purtroppo le disuguaglianze sono aumentate: le famiglie che non avevano un libro in casa negli anni ’60, quando scriveva Don Milani con la scuola di Barbiana, non lo hanno nemmeno oggi e a questa privazione e ingiustizia si è aggiunto il divario digitale messo in luce dalla pandemia Covid 19.

Occorre pensare al cambiamento non solo in termini economici investendo in finanziamenti che contrastino il fenomeno, ma anche e soprattutto è necessaria una generale trasformazione culturale, che ponga i minori al centro del futuro e dello sviluppo della società. Non basta l’alfabetizzazione di base per creare cittadine e cittadini responsabili, padroni della propria esistenza, liberi e uguali, ma è bensì necessario innescare processi educativi che coinvolgano tutta la comunità educante, ossia tutti gli agenti che a vario titolo incidono sulla crescita di bambini e ragazzi: non solo la famiglia, che deve essere aiutata nella sua funzione di genitorialità, la scuola e tutta la collettività, le istituzioni locali, il privato sociale e la politica che ha l’obbligo di implementare politiche per il contrasto alla povertà educativa.

Deve essere fatto tutto ciò che è necessario per consentire alla persona di esercitare la propria libertà di scelta e le pari opportunità con tutte le altre persone. Occorre insistere sul concetto di libertà: se c’è povertà educativa non c’è libertà di seguire le proprie inclinazioni, di esercitare le proprie passioni, di usufruire delle opportunità offerte dai processi educativi e formativi. 

L’approccio adeguato è quello di promuovere azioni positive e buone pratiche dedicate a bambini, bambine e preadolescenti, quando la plasticità dei comportamenti è maggiore e non si sono ancora instaurati stabilmente quei processi di esclusione sociale, di autoemarginazione e sfiducia in se stessi, che sono col passare del tempo sempre più difficili da sradicareUn problema complesso richiede soluzioni articolate che cominciano nelle scelte politiche che un paese compie, finanziamenti in primo luogo, ma non solo: formazione degli insegnanti, processi di inclusione che producano un cambiamento culturale a tutti i livelli della popolazione, iniziative diffuse che colmino le iniquità che si verificano nelle nostre istituzioni scolastiche, nelle nostre città e periferie. I nostri governanti dovrebbero rendersi conto che investire sulle politiche per l’infanzia e adolescenza e sulla lotta alla povertà educativa è un investimento di lungo periodo; le bambine che sono state esposte a esperienze educative limitate e insufficienti devono essere destinatarie e protagoniste di una azione educativa di restituzione dei loro diritti. Lo impone la nostra Costituzione nell’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

La solidarietà è un dovere.

 

NOTE

  1. Useremo il femminile inclusivo e il maschile inclusivo: salvo quando specificato diversamente entrambe includono sia maschi sia femmine.

  2. 2. Nussbaum M, Sen A (Eds.), The quality of life, Oxford, Clarendon Press, 1993.

  3. Dispersione e abbandono scolastico descrivono fenomeni diversi: quest’ultimo  si verifica quando la scuola  non viene più frequentata prima che si concluda l’obbligo scolastico.