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Quanto avrei voluto chiamarmi Francesco

 

Francesco

Quanto avrei voluto chiamarmi Francesco

 

Luciano Luciani

 

I Santi, ha scritto qualcuno, vivono con noi. Lo fanno con discrezione, ma aderendo alla parte nostra più propria, più intima: il nome di battesimo. Nomen omen: nel nome c’è un presagio, un augurio, un auspicio. Una promessa di quello che davvero potremmo essere se solo ci modellassimo, appena un po’ di più di quanto in genere facciamo, su quel paradigma di umanità di cui portiamo, non sempre degnamente, il nome.

A me, a dirla tutta, sarebbe piaciuto chiamarmi Francesco. Ma, a suo tempo, i miei genitori, alle prese con le fatiche e i disagi, né piccoli né pochi, dell’immediato dopoguerra non ebbero evidentemente voglia e tempo di stare a scervellarsi e a questionare intorno al nome del nascituro: quindi, risparmiando tempo e parole, si adeguarono a quello più contiguo al cognome. Così fui Luciano e lo sono a tutt’oggi, però, lo ribadisco, un bel Francesco mi sarebbe stato assai gradito… Fin da piccolo, e senza che nessuno me l’avesse suggerito, mi ero fatta l’idea che quel san Francesco lì abbastanza particolare dovesse essere. Colpiva la mia fantasia bambina la sua statua bronzea in un angolo dell’immensa piazza di San Giovanni in Laterano a Roma, alla cui base potevo leggere: “O ignota ricchezza o ben verace / scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro allo sposo sì la sposa piace”. “Parole di colore oscuro” per un fanciulletto appena alfabetizzato che aggiungevano mistero a un monumento magari non apprezzato granché dai critici d’arte, ma certo capace di colpire la fantasia dei più semplici: nel fantasioso immaginario del piccolo Luciano di allora, il santo d’Assisi aveva aperto una breccia destinata non richiudersi mai più Una propensione francescana la mia certo non aiutata da quel che vidi e quel che feci nei due/tre anni in cui fui anch’io cattolico, peraltro assai tiepido… Più, lo confesso, per giocare a pallone nel campetto parrocchiale che per intima convinzione e, di sicuro, non aiutato dalla Chiesa del tempo, quella di Pio XII, che trionfante, arrogante e solo devozionale com’era non amava l’umile fraticello di Assisi e la sua predicazione evangelica. Francesco lo ritrovai qualche anno più tardi sui banchi di scuola, al liceo e, dopo anni di letture premasticate e predigerite svolte nel tempo della scuola media e del ginnasio, fu amore a prima vista: perché le immagini forti che incontrai nel suo Cantico delle creature erano destinate a rimanere scolpite nella testa e nel cuore. Dalle profondità del Medioevo mi giungeva un messaggio forte e mai più dimenticato di rispetto per la Natura, la casa comune: per il suolo, l’acqua, l’aria e tutti, proprio tutti nessuno escluso, gli esseri viventi. E di fraternità per tutti gli uomini, segnatamente i poveri e gli abbandonati. Fu allora, forse, che cominciai a maturare l’idea che mi sarebbe proprio piaciuto chiamarmi Francesco. Insomma, paziente Lettore, fu un amore letterario: non l’unico della mia vita, ma tra i più intensi, e “che, come vedi, ancor non mi abbandona”.

Insomma, per farla breve, oggi 4 ottobre, grandi auguri e una piccola punta d’invidia a quanti si chiamano Francesco/a, oppure Franco/a, Cecco, Checco, Ciccio, Chicca o anche Chicchina… O anche Franz se sei tedesco, Ferencz se ungherese, Frisco se americano…