Lo yeti esiste
Valentina Vitali
Non si tratta però dell’abominevole uomo delle nevi protagonista di leggende e credenze della cultura himalayana e ormai popolare a livello mondiale bensì di un organismo di dimensioni decisamente più modeste che alla neve e alle montagne preferisce i fondali oceanici.
Durante una spedizione di ricerca nel 2005 a più di 2000 metri di profondità nell’Oceano Pacifico, vicino all’Isola di Pasqua, un gruppo di scienziati ha scoperto una specie di crostaceo ancora sconosciuta, dalle caratteristiche morfologiche e genetiche tanto peculiari da aver richiesto addirittura l’introduzione di una nuova famiglia tassonomica per rappresentarla, detta Kiwaidae che deriva da Kiwa, divinità polinesiana dei crostacei. La specie è stata chiamata Kiwa hirsuta in riferimento ad una delle stranezze di questi crostacei: abbondanti e vistose setole (nello specifico setae) ricoprono i chelipedi (i due arti che terminano con le chele), che sembrano quasi dei manicotti di pelliccia. Dall’aspetto peloso e dal colore bianco deriva il nome comune con cui questi organismi sono conosciuti cioè granchio yeti, in onore della somiglianza con il leggendario uomo himalayano. Successivamente sono state scoperte altre due specie della stessa famiglia, Kiwa puravida, trovata nelle acque profonde del Costa Rica, e Kiwa tyleri, presente vicino all’East Scotia Ridge. Tutti e tre i taxa quindi si trovano in un range di profondità compreso tra i 1000 e i 2400m cioè vivono in ambienti proibitivi e molto freddi, dove le risorse scarseggiano e l’energia non può essere ricavata dalla luce del Sole, che non riesce a penetrare per così tanti metri (infatti i crostacei sono ciechi). Come riescono a sopravvivere? Rimanendo sempre in prossimità delle sorgenti idrotermali che si trovano sul fondo dell’oceano, formando aggregazioni di pochi esemplari (meno di 10) al metro quadro nel caso di Kiwa hirsuta e Kiwa puravida o di densità molto elevata per Kiwa tyleri (centinaia o migliaia di individui al metro quadrato); solo le femmine si allontanano di poco dalle bocche e quindi dalla fonte di calore per permettere un corretto sviluppo delle larve (Adaptations to Hydrothermal Vent Life in Kiwa tyleri, a New Species of Yeti Crab from the East Scotia Ridge, Antarctica, 2015).
Tali sorgenti sono in grado sorprendentemente di ospitare un’enorme biodiversità, ancora in gran parte sconosciuta, grazie all’apporto energetico fornito dai processi di chemiosintesi batterica, fondamentali per gli ecosistemi e le reti trofiche presenti: da queste fratture della crosta terrestre fuoriesce acqua geotermicamente riscaldata e ricca di sostanze inorganiche (solfuri, metano…) che vengono ossidate dai batteri allo scopo di ottenere energia da utilizzare per sintetizzare composti organici. Anche le tre specie di granchio yeti dipendono quindi dalle popolazioni di batteri ma instaurano un’interazione davvero particolare. Le setole che ricoprono i chelipedi rappresentano in realtà un perfetto substrato, dalla superficie molto estesa, su cui allevare o coltivare batteri epibionti con i quali nutrirsi in seguito. L’ipotesi che la stranezza morfologica servisse proprio a tale scopo era stata avanzata già studiando la prima specie scoperta, Kiwa hirsuta, ma è stato visto un esemplare mangiare un gamberetto dopo aver lottato con altri granchi per conquistarlo e non è stato possibile svolgere ulteriori indagini sulle abitudini alimentari. Un'altra ricerca (Dancing for Food in the Deep Sea: Bacterial Farming by a New Species of Yeti Crab, 2011) condotta su Kiwa puravida si è invece concentrata proprio su questo aspetto e, sfruttando il fatto che nell’allevamento (una forma di simbiosi mutualistica) avviene un trasferimento trofico diretto di energia dal simbionte all’ospite, sono state eseguite delle analisi di biomarcatori, come gli isotopi del carbonio e gli acidi grassi, nei tessuti di un organismo; grazie a tali indagini è stato possibile risalire con certezza alla dieta e dai dati appare chiaro che K. puravida si nutre principalmente dei batteri che proliferano sui propri chelipedi. Ad ulteriore conferma, si è osservato che la specie ha un apparato boccale adattato per raschiare efficacemente i batteri dal substrato ed ingerirli e sono stati trovati filamenti batterici nello stomaco cardiaco di un esemplare.
Inoltre durante le immersioni del batiscafo DSRV Alvin è stata osservata Kiwa puravida allontanare dei gamberi senza mai tentare di catturarli per cibarsene. Questa specie di granchio yeti presenta però una peculiarità comportamentale ancora più curiosa: non si limita a far crescere sopra le proprie setae colonie di batteri ma si preoccupa pure di facilitarne la crescita, un po'; come un agricoltore che fertilizza il proprio campo. Esemplari della specie sono stati in effetti osservati mentre oscillavano i chelipedi sopra le bocche idrotermali, in una sorta di bizzarra danza. I batteri per svolgere i processi di chemiosintesi hanno necessità di accedere all’ossigeno disciolto in acqua e ai composti come solfuro e metano che fuoriescono dalle sorgenti; durante la fase di fissazione del carbonio si può formare attorno alla colonia batterica uno strato limite povero di uno di questi elementi fondamentali e di conseguenza la produttività cala. Un fenomeno simile avviene nelle barriere coralline dove i simbionti, questa volta fotosintetici, sono limitati dal carbonio prodotto da loro stessi nei momenti di alta produttività. Per risolvere il problema è necessario spezzare lo strato limite (nel caso dei coralli grazie ad un aumento della corrente o ad un rimescolamento della colonna d’acqua) e la danza dei granchi ha proprio questo obiettivo: muovendo i chelipedi viene rotto il dannoso strato innescando un circolo virtuoso nel quale la disponibilità delle sostanze fondamentali è sempre garantita, il numero di batteri aumenta, la loro stessa produttività può incrementare e tutto questo a beneficio del granchio yeti simbionte. Questa caratteristica comportamentale è ciò che differenzia Kiwa puravida da tutte le altre specie di crostacei delle sorgenti idrotermali che si nutrono di batteri poiché è la sola a fertilizzare attivamente il proprio cibo. Ancora saranno necessarie molte ricerche per conoscere a pieno tutte le caratteristiche di questi particolari e unici organismi ma di certo si può già affermare che questi yeti delle profondità marine non sono meno originali e particolari degli yeti leggendari delle vette himalayane.
Ancora una volta la fantasia non ha superato la realtà.