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I luoghi di detenzione come luoghi della ri-educazione?

 

 I luoghi di detenzione come luoghi della ri-educazione?

 

Silvia Caravita

 

Devo fare una premessa. Come ricercatrice CNR mi occupavo di educazione scientifica e di processi di apprendimento. Da pensionata, ho iniziato una esperienza che continua ancora come volontaria in carcere con lo Sportello dell’Associazione Antigone-Onlus in un Istituto Penale maschile per adulti. Ho avuto anche esperienze nel carcere minorile come animatrice di attività e poi anche come ricercatrice per una indagine in collaborazione con una collega del CNR di cui riporterò alcune osservazioni.
È forse da questa storia personale che nasce l’interrogativo che continuo a pormi: è evidente e riconosciuto da molti autorevoli autori che il carcere nella grande maggioranza dei casi non svolge con successo la funzione rieducativa che costituisce per statuto la sua missione principale. Tuttavia questa continua ad essere una importante giustificazione per la sua esistenza anche in società democraticamente evolute, soprattutto per gli Istituti Penali Minorili, come documenti normativi e giurisprudenziali ribadiscono: «recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale» (Corte Costituzionale, 1992), «la progettazione e l’attivazione di progetti individualizzati volti alla rieducazione e al reinserimento sociale e lavorativo dei minorenni entrati nel circuito penale, promuovendo i valori della convivenza civile» (Circ. DGMC, 2013).
Ma in quali modi una istituzione che limita in ogni modo l’autonomia e quindi la responsabilità delle persone ristrette potrebbe assolvere l’obbiettivo? Che significato viene attribuito al ri-educare? E ancor più al ri-formare (vedi la antica denominazione di riformatorio), che nel caso dei minori detenuti riguarda personalità in divenire?
Ri-educare è ri-abilitare? È un mezzo – della società – per riaffermare l’adesione al patto sociale e ricollocare persone nella società) o è un fine – dell’individuo – lavorare alla costruzione di un futuro e per migliorare la vita personale?
Non avendo studi legali non sono in grado di discutere sui tanti diritti disconosciuti nell’Ordinamento Penale nè sulla proposta di abolizione del carcere ben argomentata da Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi promotori di un movimento in tal senso1 .

 Rimando ai Rapporti annuali dell’Associazione Antigone (www.associazioneantigone.it), ai richiami dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà, per esempio alle relazioni in Parlamento di Mario Palma, che è stato il Garante nazionale fino al 2023. 2 . 

 

Però credo di avere strumenti per porre il problema della rieducazione ragionando anzitutto sui fatti e i dati. La comunicazione pubblica in questo ultimo anno ha molto parlato dei carceri Italiani impressionata dal dramma dei tanti suicidi, 75 fino a questo momento, e si è concentrata sulla denuncia di cause considerate eccezionali come il sovraffolamento, il caldo, la mala sanità che in carcere diventa malissima sanità, la circolazione di droghe, i disturbi psicologici che sempre più caratterizzano molte delle persone che finiscono in carcere, la violenza tra chi è ristretto, sia detenuti che vigilanza.
Frequentando il carcere però, sono molto più colpita dal distruttivo malvivere quotidiano di cui sono testimone: la frustrazione che si accumula nell’esperienza di ogni giorno ad ogni diniego, ad ogni attesa infinita di riposte ai bisogni la cui espressione deve passare attraverso le così dette “domandine”, che a volte si perdono anche durante la trasmissione tra i vari uffici. Si vive in una condizione costante di sospensione del vivere che porta i detenuti a sentirsi cancellati come persone, quelle per le quali nel 1948 è stata scritta una Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Mi sembra interessante soffermarmi sulle cose normali ma negate che dovrebbero far parte di questa vita, come poter lavorare, ricevere cure mediche quando si sta male e si ha anche paura, comunicare liberamente con i familiari autorizzati, ottenere colloqui con una compagna che non è moglie senza che questa debba affrontare una procedura infinita, fare la terapia riabilitativa dopo una operazione, presentare richiesta per la pensione d’anzianità o invalidità, ottenere documenti anagrafici perduti, fare una delega autenticata da un notaio a un parente perché possa ritirare soldi in banca, curare un dente cariato, non trovarsi alle docce quando l’acqua calda è già esaurita, essere in condizione di evitare il contagio di malattie, cucinare in uno spazio che sia a distanza da un water, non subire il fumo passivo dei compagni di cella o peggio le conseguenze degli atti inconsulti di chi ha disturbi comportamentali. Non sono questi “trattamenti contrari al senso di umanità” di cui parla l’Art 27 della nostra Costituzione? E come possono “tendere alla rieducazione del condannato”?

 

Ci sono poi disuguaglianze evidenti in carcere come da per tutto: chi può disporre di denaro ha modo di colmare quanto meno le mancanze più essenziali come quelle legate al vitto, ai prodotti per l’igiene, agli indumenti. Ma sono sempre di più, tra gli stranieri soprattutto, le persone che non possono contare né su denaro né su una famiglia. Nel tempo ho visto aumentare la presenza di una umanità malandata, con corpi già deteriorati da patologie o da abusi di sostanze, con legami affettivi sfilacciati e complicati, persone per la quali non è realistico pensare che possano trovare un posto in questa società.

 

Il punto critico è: un contesto di vita di questo tipo anche qualora la sua offerta di “trattamento rieducativo” fosse la migliore possibile, come può aspirare a/ dichiarare di rieducare le persone? In ogni caso il così detto trattamento non prende in considerazione la necessità di un impegno straordinario per creare condizioni adeguate a un compito così difficile, ad esempio riguardo ai docenti che accettano l’incarico solo per vocazione volontaria ma non ricevono una continua specifica formazione, ispirata da modelli prodotti dallo studio di percorsi formativi osservati da prospettive scientifiche diverse.


In età adulta, lo sforzo per un cambiamento di prospettive su di sé e sul mondo è grande, richiede un’adesione personale profonda perché è in gioco una identità, competenze non riconosciute, autostima. La qualità delle relazioni è il perno e condizioni critiche sono: autonomia, reciprocità di scambi, fiducia, partecipazione affettiva, “gratuità” dell’azione educativa, confronto con gli altri. Quanto tutto questo sia lontano dalla realtà di cui sono testimone è raccontato per esempio da fatti come questi.


- La scarsa attenzione dell’amministrazione penitenziaria ai corsi scolastici è dimostrata dagli ambienti poverissimi di risorse didattiche in cui questi si svolgono, anche per dichiarati problemi di sicurezza; dal fatto che spesso le classi sono attivate in ritardo, le attività formative sono discontinue perché subordinate alle burocrazie interne. Possono mancare le autorizzazioni alla frequenza degli studenti, possono essere interrotti i corsi per trasferimento in altri Istituti Penali perfino in vicinanza di esami conclusivi.
Gravano tutte le lentezze di funzionamento. Un’insegnante mi scriveva: “Durante il lockdown la scuola si è dotata di smart-TV che non sono state neanche montate, né nel periodo della didattica a distanza (che infatti non è stata svolta quasi per niente) né con la ripresa delle attività: la maggior parte delle TV giace ancora negli scatoloni, nonostante lo sforzo di alcuni colleghi per permettere il loro utilizzo nelle classi”.

 

- A lavorare è solo circa il 30% delle persone adulte detenute, in molti casi solo per poche ore o giorni alla settimana e attualmente è stato fatto un taglio del 50% dei fondi destinati al pagamento delle persone lavoranti in carcere. Apportare ulteriori tagli al lavoro significa lasciare le persone senza possibilità di guadagno, nella noia e nell’apatia più totale. Il tempo che passa è un tempo vuoto che annichilisce a meno di non possedere buone capacità di occupare la mente, di controllo di sé e disponibilità sociale. Ma ho incontrato anche queste persone, che studiano, che scrivono libri, che fanno teatro, che aiutano altri.


Quando la ri-educazione riguarda i minori ospiti di Istituti Penali
Il passaggio di minori e giovani adulti in un Istituto Penale è un fatto ancora più discutibile. Nella maggioranza dei casi era auspicabile una educazione e istruzione che sono mancate (istruzione come diritto/dovere) o che hanno fallito. Per tanti, e ancor più quando si tratta di minori e giovani stranieri, l’uso della parola appare un aspetto essenziale dell’educazione venuta meno e non solo come padronanza della lingua ma come capacità di comprendere e usare il discorso e i diversi registri comunicativi per gestire relazioni sociali.
Osserva Barone (2018, p. 76) «Il processo di riabilitazione rischia di essere minato da un meccanismo che cerca di suscitare risposte socialmente accettabili (...) indipendentemente dal fatto che ci sia stata o meno una autentica crescita» e rischia di attuare un processo di rieducazione del tipo ‘prima decostruire, poi ricostruire’, tendente a smantellare gli elementi che costituiscono la storia soggettiva del minore come passaggio obbligato per un processo di ricostruzione, lasciando aperta la questione di come possa ricomporsi la stessa identita` del soggetto. E la costruzione dell’identita`, come nella ‘normalita`’ esterna al carcere, e` centrale nell’adesione al percorso educativo. Ho sperimentato direttamente quanto l’intervento educativo in questi contesti sia complicato e come la comprensione degli esiti richieda il ricorso a categorie valutative particolari partecipando nel 2016-17 ad uno studio relativo alle caratteristiche del percorso educativo dei/delle giovani ospiti stranieri/e. La ricerca era composta da due parti: una indagine sull’offerta formativa nei 16
IPM attivi in Italia attraverso questionario con domande chiuse e aperte; un’indagine qualitativa presso l’Istituto di Casal del Marmo (Roma), uno dei due IPM che ospitano giovani di entrambi i sessi, con interviste in profondita` a docenti, educatori, responsabili degli uffici di giustizia minorile del territorio. Il tema chiave dello studio era la scoperta dei fattori di successo del percorso educativo della gioventu` straniera in carcere. La peculiarita` della condizione di questi allievi, ci ha portato a ripensare al concetto stesso di successo.
Attraverso le risposte fornite dagli intervistati abbiamo riconosciuto la presenza di fattori determinanti, con valore positivo o negativo secondo i casi e con interazioni non lineari di difficile riconoscimento. Li sintetizzo riportando alcune evidenze salienti:


- fattori relativi ai discenti, le esperienze pregresse e le identita`, le appartenenze familiari, lo status socio-economico e altri tratti del contesto culturale. Anche le vicende riguardanti il procedimento penale in corso, o la mancanza di documenti, in quanto generano instabilita` emotiva e non favoriscono una partecipazione attiva e continuativa ad attività educative. Sebbene la famiglia possa essere parte integrante del percorso delinquenziale dei ragazzi, tutti gli intervistati concordano sulla centralita` del sostegno affettivo per l’avvio e il buon esito di ogni percorso educativo. La famiglia puo` essere «punto di riferimento stabile», sostegno psicologico e supporto materiale, aiuto a sviluppare «progettualita` all’esterno del carcere» e soprattutto fattore centrale affinche´ si possano attuare percorsi alternativi alla detenzione

 

- fattori legati alla scuola e alla struttura carceraria, inclusa l’offerta formativa effettiva. E’ stato evidenziato che i brevi tempi di permanenza in istituto – legati all’aver commesso
reati di piccola entita` – o anche al trasferimento a singhiozzo tra comunita` e carcere contribuiscono a rendere frammentario e poco efficace il percorso educativo. La modularita` di questo, dovrebbe giungere fino alla presa in carico individuale, ma cio` e` difficilmente attuabile dato lo sbilanciamento tra necessita` e risorse disponibili.


- Interazioni tra i fattori sopra elencati, incluso gli atteggiamenti e le percezioni che educatori e discenti hanno reciprocamente. «I ragazzi non si raccontano volentieri».
Tutto si appoggia sul rapporto che si stabilisce, principalmente sulla fiducia che ci si guadagna. “I ragazzi all’inizio ti mettono alla prova, ti sfidano. Alla base della fiducia ci sono
relazioni umane che danno senso alle esperienze a cui si partecipa”.
Tra i problemi culturali menzionati, la mancanza di autorevolezza riconosciuta da parte di alcuni studenti alle docenti in quanto donne. Una maggiore presenza di mediatori culturali faciliterebbe i rapporti interni.


- fattori relativi ai macrosistemi, ovvero le caratteristiche del contesto sociale, politico, ed economico attuale, in cui sono calate le vite dei e delle giovani, malgrado la loro con-
dizione ristretta. Incide negativamente la scarsa sensibilita` del territorio ad accogliere giovani dell’area penale, la mancanza di prospettive di lavoro scoraggia aspettative
realistiche di future e sminuisce la credibilità dei percorsi formativi.


Dall’indagine e dalle interviste in profondità, sono emersi anche risultati positivi ascrivibili a una traiettoria di successo, in una gamma variabile di potenzialita`. Oltre al conseguimento di un diploma, un credito formativo o un attestato, un risultato e` anche riuscire a seguire e a non abbandonare, nei limiti della presenza in carcere, il percorso scolastico o formativo; il che implica vincere la tristezza, l’angoscia, il senso di isolamento e di fallimento.Tra i risultati, la sperimentazione di situazioni di interesse, come anche «la percezione di essere stati bravi», «lo sperimentarsi competente in ambienti formativi» capaci di realizzare qualcosa per se´ e per gli altri, stupire un familiare o gli educatori con la realizzazione di un prodotto finito, di una performance.
Riuscire a motivare i ragazzi e` il principale fattore di successo, sottolineano gli educatori intervistati, come anche scoprire attitudini e passioni. E questo permette di non negare piu` le proprie aspirazioni ma di immaginarsi in progetti di una vita ‘altra’. Se il risultato piu` ambi`to e` mettere a frutto la propria esperienza nel mondo del lavoro, i vincoli strutturali, culturali e individuali, i limiti di tempo e di risorse spesso rendono difficile conseguirlo
È dunque in primo luogo la società che deve cambiare e che deve essere capace di non marginalizzare o espellere parte dei suoi componenti. È utopico ma senza le utopie manca l’orizzonte.


Riferimenti bibliografici

 

Barone P., The contemporary relevance of ‘ragazzi difficili’, «Educational dispositives and rehabilitation
practices», 13, 2 (2018), p. 75-87. http://rpd.unibo.it/article/ view/8588
Corte Costituzionale, sentenza n. 125 del 1992.
Dipartimento Per La Giustizia Minorile E Di Comunità, Modello d’intervento e revisione dell’organizzazione e
dell’operatività del Sistema dei Servizi Minorili della Giustizia, Circolare n. 1 del 18 marzo 2013
Ferrari, L. e Mosconi, G. Perché abolire il carcere. Le ragioni di “No prison”. Apogeo Editore, 2021.

Valente, A., Caravita, S. (2019). Minori e giovani stranieri nelle carceri e formazione: percorsi di successo e
criticità. In: La formazione dei rifugiati e dei minori stranieri non accompagnati. Una realtà necessaria. M.
Colombo e F.Scardino (a cura di) Quaderni CIRMiB (2) pp.99-112, 2019.

Ancora più grave è la esiguità dei sostegni al dopo carcere, percorsi che costruiscano possibilità
diverse dalla devianza una volta fuori ma anche – e questo vale soprattutto per i giovani – che
rendano credibili le attività rieducative in vista di un futuro accessibile.

 

Note

1 http://noprison.eu/homepage.html
2 https://www.sistemapenale.it/it/documenti/la-relazione-al-parlamento-2023-del-garante-nazionale-dei-diritti-delle-
persone-private-della-liberta-personale