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Letterari, melodrammatici mal di petto

 

Micobacterio

Letterari, melodrammatici mal di petto

Luciano Luciani

 

Malattia sociale per eccellenza, la tubercolosi non poteva che rendersi largamente visibile nella letteratura dell’Ottocento, un secolo che dalla vita e dalla realtà del suo tempo trasse più di un robusto motivo di ispirazione. Inoltre per il perenne stato febbrile che determina, per l’apparizione del sangue, per l’esito spesso letale a cui è legata, la tubercolosi sembra stabilire intense consonanze con il sentire romantico proprio di quella età. Questi i principali motivi che possono spiegare la sua marcata “letterarietà” lungo tutto il secolo XIX e oltre.

 

Leopardi e Silvia

È Giacomo Leopardi (1789-1837) a offrirci in uno dei suoi testi più famosi una prima, indimenticabile immagine poetica indissolubilmente legata alla tubercolosi.

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

da chiuso morbo combattuta e vinta,

perivi, o tenerella. E non vedevi

il fior degli anni tuoi…

 

La tenerella, come è noto, è Silvia, nome letterario di derivazione tassiana di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, uccisa in giovanissima età da quel chiuso morbo che possiamo senz’altro identificare con la Tbc. E come morì Silvia, così perirono le illusioni e le speranze giovanili del Poeta…

 

Maria di Fede e bellezza

I versi leopardiani sono del 1828. Pochi anni più tardi, nel 1840, viene pubblicato Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo (1802-1874), letterato, scrittore e poeta coerentemente romantico. Il romanzo narra la storia di Giovanni e Maria, due personaggi incerti, contraddittori, tormentati. Unitisi in matrimonio dopo esistenze fitte di delusioni, i due sembrano trovare finalmente una qualche serenità. Fino a quando: Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che di rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule: egli trepidando glie la prende, la trova intrisa di sangue e mette un grido.

La tubercolosi non perdona e Maria morirà dopo sofferenze che, secondo l’ideologia romantica ben espressa da Tommaseo, purificheranno sia lei, dopo una vita che non ha escluso il peccato, sia Giovanni che ne condivide il calvario: Il male ripigliava con furia: le febbri talvolta la levavan di sé; e nel delirio vedeva cose pietose, e quando liete, ch’eran più di tutte pietose a sentire. La notte del dì ventuno dicembre vaneggiò lungamente… Il dì ventidue peggiorò…

 

La signora delle camelie

Ma è un romanzo francese, La signora delle camelie pubblicato nel 1848, a sancire il definitivo “successo letterario” a dimensione europea del “mal sottile”. Ne è autore Alessandro Dumas figlio (1824-1895) che nel contesto della vita mondana parigina d’alto bordo, propria degli anni che precedono il ’48 rivoluzionario, colloca la vita, gli amori e la morte per tisi di Maria Duplessis, tormentosamente amata dallo stesso Autore. Lo straordinario successo di pubblico di questo libro in Francia e fuori dalla Francia doveva ripetersi tre/quattro anni più tardi, quando la censura governativa concesse che quelle vicende venissero rappresentate anche a teatro.

 

La traviata

Al di là dei meriti letterari la fama di quelle pagine dura ancora grazie soprattutto alla trasposizione melodrammatica che ne fece Giuseppe Verdi con La Traviata, rappresentata per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia nel marzo del 1853.

La musica verdiana accompagna il libretto di Francesco Maria Piave che si ispira con qualche libertà proprio al già famosissimo testo di Alessandro Dumas figlio: Margherita diviene Violetta, Armand Duval diviene Alfredo Germont. Il tema della tisi, malattia romantica di moda, dalla quale è affetta Violetta, che ne morirà tra le braccia dell’amante, ispira a Verdi le più alte e patetiche pagine musicali della sua straordinaria carriera.

 

Uno scapigliato “mal di petto”

Anche gli Scapigliati, che spesso e volentieri a partire dalla metà dell’Ottocento si compiacquero di un’estetica del brutto e del macabro, usarono la tisi come motivo ricorrente della loro ispirazione. Valga per tutti questi letterati “ribelli” la Lezione d’anatomia di Arrigo Boito (1842-1918):

La sala è lugubre

Dal negro tetto

Discende l’alba,

Che si riverbera

Sul freddo letto

Con luce scialba.

 

Chi dorme?... Un’etica

Defunta ieri

All’ospedale;

Tolta alle requie

Dei cimiteri,

E al funerale:

Delitto! e sanguina

Per piaga immonda

Il petto a quella!...

Ed era giovane!

Ed era bionda!

Ed era bella!

 

La tosse di Mimì

La consacrazione artistica della tubercolosi doveva, però, realizzarsi definitivamente negli ultimi anni del secolo con la rappresentazione del capolavoro pucciniano, La bohème (1896). La gelida manina del primo atto e i colpi di tosse che squassano Mimì nel secondo preparano il patetico finale della morte per consunzione da “mal sottile”: tutta l’opera ruota attorno al tema della malattia incurabile e allo straziante crescendo degli accenni, dei segni, dei sintomi che la evocano continuamente in tutta la sua fatalità. Come sempre, amore e morte funzionano. Aggiungeteci una Parigi come la immaginavano e la vagheggiavano i piccoli borghesi di tutt’Italia, la grande musica del compositore lucchese e il gioco è fatto. Ma la protagonista vera della Bohème non è Mimì: è la tisi.

 

La tubercolosi autobiografica dei poeti crepuscolari.

I poeti crepuscolari, proprio per la loro particolarissima sensibilità poetica (percezione dello svanire delle cose, sentimento malinconico dell’amore, il pensiero e il desiderio della morte non intesa eroicamente ma ironicamente) si ispirarono spesso al “mal sottile” anche per motivi autobiografici: di tubercolosi muore nel 1907, a neppure ventun’anni, Sergio Corazzini (1886-1907), romano, una delle voci più capaci di esprimere la “pena di vivere” propria di questa generazione di letterati.

Corazzini nei suoi versi racconta la vita in un sanatorio dell’Alto Adige, in una località chiamata Toblack. Qui i malati attendono la morte, tema ossessivo e incombente delle loro giornate e dell’ispirazione del poeta:

…E giovinezze erranti per le vie

piene di un grande sole malinconico

portoni semichiusi, davanzali

deserti, qualche piccola fontana

che piange un pianto eternamente uguale

al passare di ogni funerale,

un cimitero immenso, un’infinita

messe di croci e di corone, un lento

angoscioso rintocco di campana

a morto, sempre, tutti i giorni, tutte

le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno

di speranza e di consolazione,

un cielo aperto, buono come un occhio

di madre che rincuora e benedice.

 

Malato di tubercolosi polmonare è il caposcuola dei Crepuscolari, Guido Gozzano (Torino, 1883-1916). La malattia gli viene diagnosticata nell’aprile del 1907, quando il poeta ha solo ventiquattro anni e ha appena pubblicato la sua prima raccolta di versi, La via del rifugio. Da allora quel male e la morte prossima ventura diventeranno temi ricorrenti dell’ispirazione di Gozzano che non rinuncerà a coniugare il tema della sua infermità, prendendo garbatamente in giro – com’è nelle corde della sua poesia – i medici che pretendono di curarla:

Mi picchiano in vario lor metro non so quali segni,

m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…                               

                                                                       (Alle soglie)

 

Anche il motivo del viaggio, caro ai poeti del Decadentismo, viene riproposto in chiave crepuscolare e legato alla malattia:

…Dove andrò? Non so… Viaggio,

viaggio per fuggire altro viaggio…

Oltre Marocco, ad isolette strane,

ricche di essenze, in datteri, in banane,

perdute nell’Atlantico selvaggio…

            (La signorina Felicita ovvero la Felicità)

 

Tutta l’esistenza di Gozzano e tutta la sua poesia sono profondamente segnate dall’esperienza del “mal di petto”, che diventa la “cifra” stessa della vita del poeta:

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,

se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.

 

(L’ipotesi)

 

Guido Gozzano, “ricusando sempre il clamore della disperazione, il dramma luttuoso dello sconforto, s’incamminò invece verso la morte con le mani in tasca, sorridendo di quel vago sorriso leggero, con la stessa naturalezza con cui andò incontro al suo successo eccezionale” (Comolli), morì il 9 agosto 1916. Dopo quasi dieci anni d’attesa e di rimandi era arrivata la cosa/vera chiamata Morte.