Aggressivo come pochi: il malanno che preparò la Controriforma
Il Treponema pallidum
Luciano Luciani
Originario del Nuovo Mondo, diffuso in tutta Europa prima dai marinai, poi dai soldati degli innumerevoli conflitti che avevano ripreso a insanguinare il vecchio continente, allargato all’intera società da un generale rilassamento dei costumi e dall’indefessa attività di legioni di prostitute, il ‘morbo gallico’ o ‘mal franzese’, chiamato, a seconda dei punti di vista, anche ‘mal napolitaine’ o ‘italienne’, ‘male spagnolo’, ‘male dei tedeschi’, ‘male dei polacchi’, ‘male dei turchi’ e, per finire, ‘male dei cristiani’ si manifestava generalmente in tre fasi: prima l’apparizione di una lesione localizzata nel punto in cui era avvenuto il contagio e quindi di solito negli organi sessuali; poi, dopo sei/otto settimane, una larga eruzione cutanea sotto forma di rosole e papule; quindi, lesioni granulomatose, la cosiddetta ‘gomma’ sifilitica, a carico dei vari organi. Responsabile di questo sconcio, un batterio, il Treponema pallidum, i cui effetti sono conosciuti fin dal 1493 dal medico spagnolo Ruy Diaz de Isla: “separa e corrompe la carne, e rompe e decompone le ossa, e disgrega e contrae i muscoli.” Simile nelle sue manifestazioni alla lebbra e infettivo e inarrestabile come la peste, si trasmetteva attraverso i rapporti sessuali e, in un breve volgere di anni, attaccò la gran massa della popolazione europea, nobili e popolani, borghesi e proletari. Per l’imperatore Massimiliano d’Asburgo quel morbo nuovo e terribile rappresentava la punizione divina per i peccati degli uomini e segnatamente per quello della bestemmia. Gli astrologi lo spiegarono come conseguenza della congiunzione astrale tra Saturno e Giove nel segno dello Scorpione avvenuta il 25 novembre 1484 e non meno fantasiose si presentavano le leggende che circolavano negli ambienti popolari: la nuova infezione era provocata da soldati mercenari dediti a pratiche cannibaliche; oppure era propagata da uomini che non avevano avuto scrupoli nell’accoppiarsi con animali o dalle frequentazioni dei lebbrosi con le prostitute.
Un contagio che colpisce solo i potenti?
Inizialmente la malattia sembrò accanirsi soprattutto con gli esponenti dei ceti alti della società. Contagiate dal ”fiero morbo insueto” che ricopriva tutto il corpo di “informi / ulcere, e con orrenda sozzura il volto e il petto” non poche teste coronate. Carlo VIII re di Francia (1470 – 1498), fu curato di variola grossa a partire dall’autunno del 1494 e ne morì a soli 28 anni d’età. “Infranciosato”, ma lui avrebbe detto affetto dal mal de Naples, anche il duca d’Orleans, che gli successe sul trono col nome di Luigi XII e sposò la sua vedova, Anna di Bretagna. Pure Francesco I (1494 – 1547), per altro nobilissimo re di Francia, oltre alle lunghissima guerra intrapresa contro gli Asburgo, dovette battersi contro dolorosissime ulcere che lo avevano colpito alla vescica. Il coevo Enrico VIII d’Inghilterra (1491 – 1547), nonostante le numerose mogli la sua prima, Caterina d’Aragona, era sifilitica non riuscì, forse proprio a causa della malattia, ad assicurare ai Tudor una sicura discendenza.
Ma non solo le teste coronate avevano larga frequentazione con la malattia: anche gli ecclesiastici mostravano una particolare propensione ad ammalarsi del morbo gallico: Sifilitico era Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI e Giulio II della Rovere (1503 – 1513), il suo grande nemico, risultava affetto dalle stesse manifestazioni morbose: il papasoldato, infatti, aveva contratto la malattia quando era ancora cardinale e già nel 1500 si era temuto per la sua vita: “Il cardinale di San Pietro in Vincoli è molto agravato per le brosole e doglie dal mal franzese e dubitasi grandemente della sua vita”.Una volta eletto pontefice non permetteva a nessuno l’omaggio del bacio al piede a causa della sifilide che gli aveva imputridito l’alluce. Hanno conosciuto il proprio corpo coperto dalle ulcere della mentulagra uno dei tanti nomi inventati per dare un nome a quell’orribile flagello anche il cardinale d’Este; Giuliano de’ Medici, fratello di papa Leone X e tanti, tanti altri protagonisti illustri della storia d’Italia negli anni torbidi del Rinascimento. Memorabile la descrizione che fa Niccolò Machiavelli del suo incontro a Imola con il duca Valentino: il segretario della Seconda Cancelleria della repubblica fiorentina fu ricevuto dal Borgia interamente coperto da un una tunica nera, con un cappuccio sulla testa e in un ambiente del tutto oscurato per non mostrare le pustole che gli sfiguravano il viso; Lorenzo de’ Medici e Maddalena d’Auvergne, marito e moglie nel 1518, morirono entrambi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra: la sposa, che era stata infettata dal marito, spirò pochi giorni dopo aver partorito una bambina, Caterina, la futura regina di Francia; Francesco II Gonzaga (1466 – 1519), che fu buon soldato e svolse un ruolo decisivo nella battaglia di Fornovo, scontò i suoi fin troppo disinvolti comportamenti sessuali, contraendo la malattia che lo portò alla morte.
Nutrita, a dir poco, anche la lista dei letterati contagiati: per esempio, Antonio Cammelli, (1536 – 1502), detto il Pistoia, poeta burchiellesco che visse alla corte di Ferrara; il Tebaldeo, ovvero Antonio Tebaldi (1463 – 1537), ferrarese, medico, letterato e segretario di Lucrezia Borgia; il senese Niccolò Campani (1478 1523), detto lo Strascino, che vive a Roma alla corte di Leone X, insegnante di belle lettere della cortigiana romana Imperia e autore di un best seller in ottave intitolato Lamento sopra il male incognito, in cui l’umanista toscano racconta il suo malaugurato incontro col ‘mal francese’ e la sua insperata guarigione; sifilitici, dopo una vita di libertinaggi, anche il poeta emiliano Francesco Maria Molza (1489 – 1544) e l’elegante prosatore fiorentino Agnolo Firenzuola (1493 – 1543). Malato di sifilide era Albrecht Durer e Benvenuto Cellini non aveva particolari pudori ad ammettere “che s’era guadagnato l’infirmità da una giovane serva”... Insomma, il nuovo male sembrava privilegiare ecclesiastici e politici, aristocratici e artisti: per Erasmo da Rotterdam un nobile privo delle pustole sifilitiche era persona rozza e volgare.
Una convinzione sbagliata che durò poco di fronte al progressivo diffondersi del contagio in tutta Europa e al coinvolgimento di tutte le classi sociali. A Parigi, per allontanare i vagabondi infetti, sempre più numerosi, gli amministratori locali alternavano il bastone alla carota: il patibolo per chi si tratteneva in città per più di un giorno, una manciata di spiccioli per quanti ‘sceglievano’ di allontanarsi. A Metz, nel nord est della Francia, le autorità mediche preposte a impedire la diffusione del contagio non trovarono di meglio che abbandonare i disgraziati nei boschi e nei campi circostanti la città e lungo la Mosella perché morissero di stenti lontano dalla città: e si distoglieva lo sguardo, ringraziando Dio di non essere dei loro. A Gaillac, sempre in Francia nella regine francese del MidiPirenei, le persone colpite da questo morbo così insolito prima di essere espulse dalla città venivano battute e immerse nelle acque del vicino fiume. Né, certo, furono più fortunati i cittadini di Edimburgo affetti da glandgore, ovvero i sifilitici, che, nel 1497, in alternativa all’esilio sull’isola di Inchkeith, potevano optare per il marchio dell’infamia impresso sulla guancia con un ferro rovente. Moltissimi presero la via dell’isola e questi morirono tutti. A Bamberg a quanti erano affetti dal nuovo male non era permesso entrare nelle chiese o negli ospedali