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Breve storia di Domenico Tiburzi, re della boscaglia e della guazza

 

Domenico Tiburzi foto scattata dopo l'uccisione

Breve storia di Domenico Tiburzi, re della boscaglia e della guazza

 

di Luciano Luciani

 

 

Al confine tra Lazio e Toscana, nei territori ancora selvaggi compresi tra la provincia di Viterbo e quella di Grosseto verso la seconda metà dell’Ottocento, per l’esattezza al 23 ottobre 1867 Domenico Tiburzi, detto Menico o anche Domenichino, è ancora un pacifico suddito della Stato Pontificio. Vive nella piccola comunità di Cellere e fa il pastore: una vita, la sua, povera, anzi poverissima, ma onesta. Fino a quando, la sera di quel giorno maledetto, un guardiacaccia del marchese Guglielmi, un proprietario fondiario del posto, lo sorprende con una balla d’erba sulle spalle. Erba del marchese, e, il guardiacaccia, ligio, multa Tiburzi a una somma che supera di gran lunga il valore del povero gregge, che era l’unica ricchezza, l’unica possibilità di sostentamento per il nostro pastore.

Il guardiacaccia è irremovibile e Tiburzi, convinto che tra disperati ci si debba aiutare e non maltrattare, giudica il guardiacaccia, Angelo Del Bono, un traditore e lo ammazza. Tiburzi ha poco più di trent’anni. Resta per quasi due anni libero, alla macchia, poi è preso, processato e condannato a 18 anni che sconta nelle saline di Corneto. Tre anni più tardi, nell’estate del 1872, riesce a fuggire e da allora inizia la sua leggenda di brigante inafferrabile.

Non agisce da solo, ma con un luogotenente, il fido Biagini detto il Curato perché in gioventù è stato in seminario, e un cane bastardo di pelo rossastro, Toppa, un botolo ringhioso con tutti, ma devotissimo ai suoi padroni.

Non uccideva quasi mai, Menico, se non costretto, e non rubava: aveva istituito una specie di legge sul brigantaggio. A pagare erano i signori del luogo e, in cambio, il bandito prometteva di vigilare sui loro beni, difendendoli dalle scorrerie dei briganti. Una sorta di assicurazione, oggi diremmo che pretendeva il pizzo. Tiburzi si sentiva un giustiziere. Il suo motto era: “Ne tolgo dove ce ne sono troppi e ne metto dove ‘un ce n’è punti” e così giustificava a se stesso e agli altri i ricatti, le minacce e le estorsioni, i rapimenti e le aggressioni a mano armata.

Per chi non pagava c’era prima un’ammonizione, poi una bastonatura, eseguito dal suo fidato luogotenente, e solo per ultimo, e solo se necessario, il colpo di fucile.

Aveva fama di uomo giusto e buono, nomea probabilmente usurpata e dovuta alle deformazioni che opera spesso la cultura popolare.

Col tempo si fece sempre più esigente e raffinato; abiti costosi, biancheria finissima, si portava sempre dietro saponette e asciugamano. Galante verso le donne: tutte o quasi. Amori fugaci da brigante; duravano un giorno, una settimana… La moglie del brigante, Veronica, sapeva e lasciava correre. Anche perché, a dire di Menico, erano le donne ad andarlo a cercare e così gli spezzavano la monotonia delle lunghe giornate passate a giocare a carte col Biagini…

Le donne, volendo, lo trovavano. I carabinieri, mai.

Aveva una vastissima rete di “simpatizzanti”, di informatori che Tiburzi premiava e pagava. E uccideva spietatamente quando tradivano.

Amava mangiare bene e spesso si sedeva in qualche osteria e consumava pasti abbondanti, lasciando anche pagato da bere per i carabinieri che lo inseguivano. La voce popolare diceva che si fosse spinto fino a Parigi a fare la vita del signore e che potesse usufruire di facoltà soprannaturali, sparendo e riapparendo a suo piacere nel cuore dei roveti più fitti ed impenetrabili.

Il suo declino inizia verso la fine degli anni ottanta.

I carabinieri gli uccidono il Biagini nell’estate dell’89 e lo feriscono a un ginocchio. La sorpresa e il dolore sono tali che diventa paranoico: vede traditori dappertutto, macchinazioni, insidie... E il suo nuovo luogotenente, Luciano Fioravanti di Bagnoregio non è certo all’altezza del leale Biagini: soprattutto non gli è amico. A poco a poco con i suoi sospetti finisce col distruggere il mito che egli stesso si era costruito.

Nel 1893 la “botta” decisiva. Contro di lui viene istituito un processo – secondo il capo del governo, Giolitti, lo scandalo delle connivenze e della coperture doveva finire – e centinaia di persone vengono convocate a Viterbo. È il colpo di grazia. Quelli che negli anni d’oro si erano vantati della sua amicizia ora lo sfuggono e lo disprezzano. Sulla sua testa pende una taglia di 5000 lire, una cifra che poteva fare gola a molti.

Ormai vecchio e stanco Tiburzi si rende conto che quell’aura di difensore dei deboli e degli oppressi che gli aveva garantito una fitta trama di connivenze e complicità e, di conseguenza la libertà, rischia di diventare la sua prigione.

Arriviamo al 1896. Più per vincere la solitudine che per reale necessità insieme al Fioravanti si arrischia a entrare a una casa di campagna nei pressi di Capalbio. Il contadino li accoglie, apparecchia, dà loro da mangiare e da bere. Forse avverte anche i regi carabinieri che si aggirano da quelle parti. Prudentemente le Fiamme d’argento chiedono rinforzi, circondano la casa, cominciano a sparare. Tiburzi si fa sull’uscio. Lo feriscono. Quando i gendarmi si fanno sotto urla: “Sono Tiburzi. Uccidetemi”. Ma le forze dell’ordine lo vogliono vivo. Allora Tiburzi cerca di mettere mano alla pistola. I carabinieri lo finiscono a colpi di fucile.

È il 23 ottobre 1896. Dopo 22 anni Tiburzi, ormai sessantenne, chiude la sua carriera. “Il suo corpo, portato in paese, fu legato ad una scala dritta per essere fotografato… Una processione di gente corse a vederlo; molti erano sinceramente addolorati e qualcuno lo rimpiange”.

Le sue spoglie vengono raccolte nel piccolo cimitero di Capalbio. Cesare Lombroso, il più noto scienziato del suo tempo, inventore dell’antropologia criminale, studiando quanto restava del suo cervello, in gran parte spappolato dai proiettili regi, lo trova più grande del normale e si stupisce di come un genio potenziale si sia potuto rivolgere, invece, verso il male.

In Maremma, ancora mezzo secolo fa, c’era qualche anziano chi raccontava, con una punta di orgoglio, di averlo conosciuto o almeno visto da bambino.