Buoni genitori
di Luciano Luciani
Per patrofagia si intende l’ingestione rituale dei corpi dei genitori e di consanguinei. È una pratica di cui si possiedono testimonianze certe che durano almeno sino agli anni Cinquanta del secolo scorso per alcune aree del mondo come la subsahariana, l’Oceania, alcune zone remote dell’America Latina.
In Uganda, al tempo del protettorato inglese, i Bagesu piangevano i loro defunti per tre o quattro giorni. Poi li mangiavano, dopo averli cotti: credevano, infatti, che se il corpo si fosse disfatto nella terra, lo spirito del morto avrebbe impazzato nella zona e fatto cadere ammalati i bambini.
Nella Nuova Guinea era consuetudine di una tribù Papua appendere i nonni a un albero quando erano diventati un peso per la comunità. Allora la popolazione iniziava intorno all’albero una danza le cui movenze erano scandite dal ritornello cantato in coro “Il frutto è maturo! Il frutto è maturo!”. Scuotevanono poi vigorosamente l’albero e quando gli anziani parenti precipitavano al suolo, li mangiavano.
Vicende simili sono testimoniate nell’isola di Sumatra e e nel Congo, praticate dai Batak.
Riguardo al mondo antico a proposito della patrofagia possediamo alcune veloci citazioni presenti in Erodoto, Storie, in Plinio, Naturalis Historia e in Strabone, Geografia: per esempio, i Massageti, una tribù della Scizia - una regione del Mar Caspio - ritenevano una vergogna essere tumulati dopo morti e non fissavano un limite alla durata della vita umana. Se uno, però, arrivava a tardissima età, tutti i suoi familiari si riunivano per macellarlo, poi ne facevano bollire le carni e lo mangiavano: “secondo le loro consuetudini, questo è il modo di morire più felice. Non mangiano, invece, chi muore per malattia: lo seppelliscono in terra, compiangendolo perché non gli è stato dato di giungere a un’età tale da essere sacrificato”.
Gli Issedoni, abitanti del Caucaso, lasciavano morire in pace i loro vecchi e solo dopo morti se ne cibavano dopo aver mescolato le carni con quelle del bestiame macellato.
I Derbichi, un popolo che viveva nell’Iran settentrionale, presentavano un comportamento analogo, ma fissavano un limite - attorno ai settanta anni, non di più - alla durata della vita umana. Aggiungevano, poi, l’abitudine di pulire le teste dei consanguinei, le lisciavano, le doravano, trasformandole in idoli a cui sacrificare annualmente. Questo solo per gli individui di sesso maschile, perché Issedoni e Derbichi non mangiavano, né adoravano le donne.
Gli Irlandesi, abitanti dell’Ibernia, consideravano “cosa onorevole mangiare i genitori defunti”.
Anche il Medioevo non è privo di notizie intorno alla patrofagia. Fra’ Giovanni da Pian del Carpine, vissuto nella prima metà del XIII secolo, viaggiatore, missionario francescano e messo papale, nella sua Historia Mongolorum, relazione di un viaggio iniziato nel 1245 a Kiev in Ucraina e terminato presso la corte di Kujac Khan, nipote del terribile Gengis, così racconta degli abitanti del Tibet: “questi pagani hanno un’abitudine molto strana o per meglio dire, spaventosa; quando in una famiglia il padre è sul punto di rendere l’ultimo respiro, tutti i congiunti si riuniscono per mangiare il morto”. Informazione confermata, sempre a proposito del Tibet, qualche anno più tardi dal fiammingo William di Robruk anch’egli francescano, viaggiatore e diplomatico. Lo stesso orrore stupefatto per tale pratica lo provò Marco Polo che nel suo Milione riporta quanto fosse difficile invecchiare nell’isola di Sumatra già nel XIII secolo: “Quando alcuno ha male, mandano per loro indovini e incantatori che fanno per arti di diavolo, e domandano se l’ malato dee guarire o morire. E se l’ malato dee morire, egli mandano per certi, ordinati a ciò, e dicono ‘Questo malato è giudicato a morte: fa’ quello che dee fare’. Questi gli mette alcuna cosa sulla gola, e affogalo: e poscia lo cuocono; e quando è cotto, vengono tutti li parenti del morto e mangianlo”.
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