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Le rape arrapanti

 

 

rape arrapanti

Le rape arrapanti

 

Luciano Luciani

 

 

Rape di carta

Nelle campagne dell’intera Europa per generazioni, per secoli, si sono mangiate tante, tante e ancora tante rape...! E non sono poche le tracce di questa consuetudine alimentare rimaste nella letteratura. E se lo scrittore francese, Francois Rabelais (1494 – 1553), con più di una punta di disprezzo, definiva “masticarape” gli agricoltori del Limousin nel Plateau Central della Francia, dall’Orlandino di Teofilo Folengo veniamo a sapere che “mangiarape” era l’epiteto assegnato a tutti i Lombardi, senza dimenticare che si trattava d’indicazione geografica larga al punto da abbracciare l’intera pianura Padana: “…Pur saper dè’ ch’io son di Lombardia / e ch’in mangiar le rape ho del restio… …e questo voglio ch’a color sia detto / che chiaman: “lombarduzzo mangia rape”…Un appellativo resistente, almeno sino alla fine del XVII secolo come riporta il Tasso napoletano di Gabriele Fasano, versione in dialetto partenopeo della Gerusalemme liberata. Qui troviamo l’elenco dei popoli d’Italia definiti in base alle loro abitudini alimentari: “mangiarape” i lombardi; “mazzamarroni” gli abitanti dell’Appennino tosco-emiliano; “mangiafoglie” i cremonesi; “pane unto” gli abruzzesi; “cacafagioli” i fiorentini; “cacafoglie” o “mangiafoglie” i napoletani… Ludovico Ariosto (1474 – 1533), in una sua satira, la terza, tende piuttosto a valorizzare il carattere domestico ma affidabile, mediocre ma sicuro, della nostra radice:

 

Chi brama onor di sprone e di capello

serva re, duca, cardinale o papa,

io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa

ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,

e mondo, e spargo poi di aceto e sapa

che all’altrui mensa tordo, starna o porco

selvaggio; e così sotto una vil coltre

come di seta o d’oro, ben mi corco.

Modeste qualità quelle della rapa, ben ribadite mezzo secolo più tardi da Giulio Cesare Croce (1550 – 1609), che nel suo celeberrimo Le sottilissime astuzie di Bertoldo fa morire il suo causidico eroe contadino

 

con aspri duoli

 Per non poter mangiar rape e fagiuoli.

 

E nel suo testamento morale Bertoldo ribadisce che

 

Chi è uso alla rapa non vada ai pasticci

 

Insomma, i due letterati emiliani sembrano rielaborare l’antico proverbio per il quale:

 

Meglio una rapa in casa mia

che un cappone in quella

di chicchessia.

Della serie no place like home. Ma non sempre l’apprezzamento per la rapa era stato così cordiale. In proposito le cronache riportano che nel 1305 nel corso di una delle numerose guerre con i vicini marchesi del Monferrato, gli astigiani - circa duemila fanti - entrati a Pontestura, non trovando da mettere sotto i denti altro che rape, riversarono tutta la loro rabbia sul proprio comandante ricoprendolo di ogni sorta di epiteti. E gli andò pure bene…

 

Rape da fiaba

E poi ci sono le fiabe… In questo particolarissimo genere narrativo, le rape diventano gigantesche e contribuiscono a punire i furbastri e gli avidi, aiutando a ristabilire un minimo di giustizia sociale. Così avviene nella fiaba dei fratelli Grimm La rapa, dove un contadino povero offre un suo ciclopico ortaggio al re e ne viene ricompensato con denaro, terre, oro e armenti, mentre al fratello ricco che, invidioso della fortuna del contadino, aveva a sua volta portato ricchi doni sperando in una ricompensa ancora più grande, tocca come bene prezioso proprio l’enorme rapa.

In una celeberrima fiaba popolare russa intitolata La rapa gigante a due vecchi contadini risulta impossibile sradicare una colossale rapa cresciuta inopinatamente nel loro orto. Chiedono allora l’aiuto della giovane nipote. Niente, quel maledetto ortaggio ipertrofico ed extralarge non si lascia svellere. Né le cose migliorano con l’intervento del cane di casa che chiama in soccorso il gatto della famiglia… Solo, però, il coinvolgimento di un ultimo, decisivo, minuscolo soccorritore, un piccolo topo, permetterà a questa catena solidale che accomuna uomini e animali anche nemici tra loro di avere ragione della smisurata radice e farla diventare una ricchezza per tutti. Di questo racconto fiabesco diffusissimo in area slava che esalta l’aiuto reciproco e generoso, raccomandiamo la lettura ai sempre più numerosi sostenitori di un individualismo forsennato nei rapporti sociali ed economici.

 

Le rape arrapanti

Cibo adatto a regolare il tono fisico complessivo, la rapa... E questo spiega perché Plinio il Vecchio (23 – 79) nella sua Naturalis Historia e il contemporaneo Dioscoride Pedanio, (40 – 90) medico, botanico e farmacista greco attivo negli anni di Nerone, abbiano concordato nell’attribuire alla nostra radice proprietà afrodisiache, specialmente se conservata in salamoia insieme alla ruchetta, altra erba in fama d’essere particolarmente amica di Venere. 

Per Castor Durante da Gualdo, medico rinascimentale, le cime di rapa, mangiate lesse, oltre a favorire la minzione e a irrobustire la vista, “accrescono il coito”. Attenzione, però, a non esagerare perché

 

Donna nuda e rapa dura

portan l’uomo a sepoltura

 

e non si perda il bisenso sessuale di quella rapa dura.

 

La contiguità della rapa ai piaceri d’amore nasce probabilmente dalle sue radici grosse, enfiate che rimandano all’immagine del membro virile. Non sono pochi i dialetti italiani che registrano il verbo arraparsi nel senso di eccitarsi sessualmente. Una relazione confermata dal detto toscano

 

Pepe, noce moscata e sapa (senape)

(tre sostanze considerate afrodisiache)

fanno buona la rapa

 

Un Viagra d’altri tempi, senz’altro più saporoso dell’attuale pasticca blu e di sicuro con minori controindicazioni.