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Sguardi tricolori sul futuro

 

L’astronave atomica del dottor Quatermass, 1955

Sguardi tricolori sul futuro

 

Alle origini della fantascienza italiana

 

Luciano Luciani

 

La fantascienza italiana come storia di una fragilità? Sì, direi proprio di sì, se è vero che alle sue origini non troviamo né un Jules Verne, né un Herbert George Wells, ma, disseminati qua e là, solo lacerti, schegge, spezzoni di quella che un tempo era chiamata “narrativa d’anticipazione”: più che altro intervalla insaniae di Autori consacrati, invece, ad attività letterarie ben più tradizionali. Nei primi ottanta/novant’anni successivi all’unità politica e amministrativa del Bel Paese, giornalisti e scrittori, saggisti e addirittura librettisti d’opera non si privarono dell’opportunità di assaggiare il gusto asprigno di prefigurare mondi e futuri “altri”. Lo fecero, però, in maniera rapsodica, discontinua, senza convinzione e particolare originalità e, soprattutto, appesantiti da fin troppo palesi intenzioni didattiche e/o moraleggianti. Su tutti loro, poi, e sulla loro ricerca di contenuti diversi ha occhieggiato, minaccioso, arcigno l’anatema del pur bene intenzionato abate Stoppani contro “quelle opere di Verne che hanno inondato l’Italia e a cui la nostra gioventù e gli stessi uomini corrono dietro con puerile curiosità... Mostruosa miscela di vero e di falso”.

“Mostruosa miscela di vero e di falso”, dunque, la letteratura avveniristica: una maledizione destinata a durare nel tempo, quella dello scrittore lombardo, grande volgarizzatore tardo ottecentesco di tematiche naturalistico-scientifiche. Per di più, provenendo dall’interno del mondo cattolico, però liberale, e da uno scienziato (era lo Stoppani geologo e paleontologo di fama riconosciuta) anche uomo di Chiesa, il suo giudizio si configurò come particolarmente autorevole. Rafforzato, se mai ce ne fosse stato bisogno, dalle dimensioni del successo di pubblico del suo libro Il Bel Paese, 1875: oltre ventimila copie vendute, uno dei primi best seller della nascente editoria dell’Italia unita.

 

Formiconi e astronavi atomiche

Per lasciar sedimentare quel particolarissimo e malevolo punto di vista occorrerenno ben due Guerre Mondiali e un intero Fascismo! Perché le novità, per quanto riguarda la fantascienza, giunsero solo al seguito degli eserciti alleati: che ci bombardarono parecchio; ci liberarono un po’; ci fornirono le armi (leggere, per carità) per contribuire a cacciare i tedeschi (mi raccomando, però, senza esagerare); ci regalarono tanto Ddt per sconfiggere le zanzare e quindi la malaria (grazie!). Ai miei occhi di figlio dell’immediato dopoguerra proposero soprattutto nuovi, allettanti, desiderabili stili di vita. Nei costumi: più liberi, disinvolti, disinibiti al punto da preoccupare le gerarchie ecclesiatstiche e i comunisti togliattiani. Nel cinema: sempre meno in bianco e nero e sempre più in un accattivante technicolor: western, cappa e spada, Tarzan; eroici marines contro diabolici giapponesi prima, maligni cino-coreani comunisti subito dopo. Nella cultura popolare e di massa: i fumetti, il romanzo poliziesco e, finalmente, la fantascienza. Anzi, fanta-scienza, col trattino poi perso per strada.

La memoria mi riconsegna il ricordo della fine della fanciullezza segnata da un immaginario - il mio - vorace, ipertrofico e da nutrire costantemente. Lo alimentavo a dosi via via sempre più massicce di fumetti (“L’Intrepido” e “Il Monello” come se piovesse); di Salgari e Verne, che mi sapevano - più il primo del secondo - di liso di polveroso e di tanto, tanto cinema. Soprattutto di fantascienza e non solo b movies: perché il grande schermo (insieme, per essere sinceri, a tanta monnezza) regalava storie inedite, protagonisti straordinari, intrecci diversi, contaminazioni originali ed emozioni, emozioni, emozioni... Che ora avevano le fattezze di giganteschi formiconi determinati a distruggere Los Angeles (Assalto alla terra, 1954), ora la faccia ambigua e fanatica di Walter Pidgeon il professor Moebius del Pianeta proibito, 1956; oppure si annidavano nella “cosa” amorfa, mezza umana, mezza vegetale che si aggirava per le vie di Londra seminando angoscia e panico (L’astronave atomica del dottor Quatermass, 1955)... Dalle sale buie e maleolenti dei cinema parrocchiali romani alla pagina scritta non ricordo soluzioni di continuità. Sola la percezione, calda e avvolgente nella carità feroce del ricordo di sessant’anni dopo, di un ampliarsi del piacere: degli occhi, del cuore, dell’intelligenza... Un godimento tutto e solo mio a ripensarlo oggi, poco condiviso dai coetanei di allora presi da altre e altrettanto legittime passioni: sportive (Roma versus Lazio); oppure meccanico/motociclistiche o i primi pruriti quasi incontenibili giù, nella zona del basso ventre e dintorni.

Una condizione di solitudine che non mi avviliva, anzi mi faceva sentire originale, raro, unico.