Quando a Roma finì il tempo delle puttane
Luciano Luciani
Già in età rinascimentale, e in maniera più sistematica nel successivo periodo che muove verso i rigori del Concilio di Trento e dell’Inquisizione, a Roma non mancarono iniziative tese a limitare la prostituzione e a salvaguardare la compagine morale della Città eterna.
Si trattò, certo, di decisioni, che i pontefici non presero a cuor leggero considerato che le casse dello Stato della Chiesa si alimentavano anche con i proventi della tassazione sulle attività delle cortigiane. È noto che Leone X realizzò e lastricò tutta via di Ripetta grazie alle tasse sui lupanari e che Pio IV (1559 – 1565), il papa che convocò il Concilio di Trento, zio di San Carlo Borromeo, non si peritò di edificare Borgo Pio cum impensis ex turpi quaestu acquisitis et acquirendis. Ma la spensierata libertà dei costumi propria dei primi tre decenni del secolo XVI si andava esaurendo e un nuovo rigore morale sembrava segnare le scelte dei pontefici e degli amministratori romani: ora l’Urbe cattolica doveva diventare un luogo esemplare sia per l’intransigenza verso ogni forma di indecenza e scostumatezza, atteggiamento che si allargava anche a tutte le manifestazioni dell’ ingegno considerate pericolose, sia nell’applicazione e rispetto di norme e leggi. Il lungo carnevale rinascimentale era finito per sempre e lo testimoniava la triste vicenda della cortigiana, oriunda spagnola, Isabella de Luna che per una contravvenzione alla legge venne condannata a essere frustata sulla pubblica piazza. La nuova morale incalzava e le cortigiane ’oneste’ o meno non godevano più dei privilegi di cui avevano usufruito nel periodo precedente.
In questa nuova temperie religiosa, culturale e politica l’alta società romana, la stessa che si era compiaciuta di trasgressioni e ardite forme di tolleranza, faceva a gara in manifestazioni di pentimento e purificazione, conversioni e conformismo verso il nuovo corso. Così, nel 1566, Pio V (1565 – 1572), il papa di Lepanto, prima di intraprendere la crociata contro i Turchi ne iniziò un’altra, nella quale però sarebbe risultato duramente sconfitto. Impose alle cortigiane “più scandalose” di lasciare la città e alle altre di trasferirsi a Trastevere: un’ingiunzione che scatenò un putiferio di polemiche e non poche resistenze. Non solo l’ostilità, ovvia, dei trasteverini, ma anche quella dei proprietari di case che videro calare i livelli degli affitti e scemare una fonte di reddito, dei mercanti che avevano fatto credito alle cortigiane e rischiavano di perderlo, perfino quella degli appaltatori delle dogane… Alla fine, Pio V capitolò e alle prostitute fu assegnato un quartiere, l’Ortaccio, nei pressi di Ripetta con la proibizione di uscirne: un vero e proprio ghetto, delimitato da muri e rare porte.
Se l’obbiettivo era tenere le cortigiane lontane dalle vie del centro, dalle piazze trafficate e dalle chiese esso non fu raggiunto: vent’anni più tardi, infatti, il terribile Sisto V (1585 – 1590), dopo aver preso atto che queste donne continuavano a esercitare in tutta la città e che se ne contavano perfino in Borgo a due passi da San Pietro, era costretto a lanciare l’ennesima offensiva contro le prostitute. Tentò, papa Peretti, di restringerle di nuovo nell’Ortaccio ma senza riuscirci, perché, anche in questo caso, emerse che le cortigiane muovevano un, chiamiamolo così, ‘indotto’ che toccava gli interessi di oltre 15.000 persone e numerose, importanti categorie economiche della città: commercianti, osti, albergatori, affittuari… Anche Sisto V fu costretto a venire a più miti consigli e ad accontentarsi di ribadire o accentuare proibizioni già in vigore: l’accesso alle strade principali, le gite in carrozza e le passeggiata per le strade dopo l’Ave Maria. Ma, forse, proprio in seguito a questo smacco, la battaglia per la purezza dei costumi, la cupa ossessione di questo papa, avrebbe assunto l’aspetto di una vera e propria persecuzione. “Nel giugno 1586 colpì l’immaginazione dei romani lo spettacolo di una figlia costretta ad assistere al supplizio della madre, che l’aveva prostituita: la ragazza venne ornata dei gioielli che le aveva donato l’uomo cui era stata venduta… Nello stesso mese di giugno il papa condannò al rogo – secondo l’antica usanza – un prete e un ragazzo, rei confessi di sodomia. Poi venne la volta, nell’agosto, di una giovane vedova, nobile e ricca, che aveva trescato con due giovani e che fu con essi condannata alla pena capitale. Rimase incerto in base a quale legge fosse stata eseguita una sentenza tanto crudele, ma nessuno osava contrastare gli ordini del papa”
Ma nel 1592 il cardinal Rusticucci, governatore di Roma, in un suo bando era costretto a notificare che “Poiché l’esperienza ha mostrato che li luoghi assegnati in Roma per tollerarvi le meretrici et donne disoneste non sono capaci, si dispone di aumentarne lo spazio…”
Anche papa Clemente VIII Aldobrandini (1592 – 1605) si adoperò per restringere le prostitute nell’‘hortaccio’e anche questa volta l’ennesima prova di forza si concluse con un nulla di fatto: le venditrici d’amore accettarono di evitare di rendersi visibili nelle principali strade dell’Urbe in cambio dell’ampliamento della zona di tolleranza. Non più solo l’ ‘hortaccio, ma l’intero, vasto quartiere che era cresciuto tutt’attorno a quest’area malfamata.
Le Vergini miserabili
A Roma risultati migliori rispetto alla deterrenza e alla repressione furono senz’altro ottenuti da iniziative di tipo sociale e assistenziale, nate, in genere, sulla spinta dello zelo e dell’entusiasmo del giovane Ordine dei Gesuiti e dell’altro altrettanto zelante degli Oratoriani: per esempio, monasteri come la Casa Pia per le cortigiane pentite; oppure l’ospizio delle Vergini Miserabili a Santa Caterina dei Funai che accoglieva bambine figlie di prostitute sottratte anche con la forza alle loro madri, educate per sette anni, poi fornite di dote e maritate. A sostenere l’opera di redenzione per le cortigiane pentite si adoperavano la Compagnia della Grazia oppure la Confraternita di Santa Marta dedita alle donne ‘perdute’ che intendevano redimersi senza l’obbligo del chiostro.
Anche a Venezia il fenomeno della prostituzione minacciava di finire fuori controllo e, visto che le misure normativo - repressive sembravano non essere sufficienti, le autorità si mossero per supportarle con interventi di tipo assistenziale. Così, accanto all’ospedale degli Incurabili, fondato nel 1522 e destinato ai malati di sifilide, ma che accoglieva anche numerose prostitute, nel 1530 fu istituita la Casa delle Convertite, con lo scopo di riportare a un’esistenza onesta e morale le peccatrici pentite che venivano avviate verso un destino di mogli e suore. Se, poi, avevi almeno nove anni, eri sana, di bella presenza e rischiavi davvero di finire a esercitare il mestiere, allora, la Repubblica Serenissima ti prendeva sotto la sua protezione nella Casa delle Zitelle nata per proteggere bambine e adolescenti dal rischio di essere adescate e avviate alla prostituzione. Ultimo esempio di ‘Stato sociale’ veneziano la Casa del Soccorso per le mogli sfortunate che volevano sfuggire a situazioni famigliari insostenibili senza finire nel bordello per sopravvivere.
Alla fine del secolo, comunque, il fenomeno della prostituzione a Venezia e Roma era tutt’altro che in via di estinzione, anche se le cortigiane romane avevano ormai perduto il trattamento di favore e il ruolo di rilevanza sociale, goduto all’inizio del Cinquecento e durato almeno sino al Sacco di Roma (1527). Il loro numero - si calcola una media di 17 prostitute ogni 1000 donne - restava più elevato rispetto ad altre città italiane ed europee e si caratterizzava ancora per una certa aggressività.